Considerati un genere classico della letteratura giapponese, i racconti di romitaggio o inja bungaku, rappresentano un genere e un tema trasversale nella cultura tradizionale nipponica. Lasciare la città (o meglio la mobile capitale del Giappone: dapprima Nara poi Heiankyō e Kamakura; poi nuovamente Kyōtō e infine Edo in epoca Meiji) con i suoi quotidiani affanni e le sue lotte di potere. Fuggire da quella vita che può divenire una gabbia di conformismi raggelati, vani, elegantemente vuoti ed i cui codici sono destinati ad un’inevitabile decadenza e corruzione. Andare via, lontano dai disastri; dai frequenti incendi, dai terremoti; dai tifoni e dalla violenza delle guerre civili. Tutti fenomeni amplificati dall’abitare nella città centro dell’impero; la grande ‘casa’ collettiva che distrae ed impedisce di essere consapevoli della fugacità delle cose, della loro impermanenza, della natura imperfetta e finita della condizione umana. Ritirarsi da tutto questo per trovare consolazione nella profondità di sé stessi o nella propria arte e -se uomini di fede- nell’illuminazione e nella promessa di salvezza promessa dai seguaci della Terra Pura, verso il Paradiso d’Occidente di Amida Buddha. Mutuata dalla tradizione cinese dell’isolamento ‘etico’ di matrice confuciana e dal parallelo insegnamento taoista del vivere assecondando il flusso naturale degli eventi, poi transitato in forma sincretica in Giappone con l’introduzione del Buddhismo Chàn, matrice di quello Zen, il voltare le spalle al mondo è dunque un topos costante nella cultura sino-giapponese. Costume non esclusivo di mistici o di poeti, giacché col termine inja si denotano anche figure di altri irregolari, quali erranti giocatori d’azzardo, falliti, persino fuorilegge yakuza o principi splendenti, come il protagonista del Genji Monogatari. C’è però un caso -peraltro famosissimo- in cui a questo allontanarsi dalle lordure del mondo corrisponde la definizione e la costruzione di uno spazio abitativo minimo, di una fragile cella da cui poter contemplare il corpo-natura del Buddha. “Qui, a sessant’anni, quand’è vicina a dissolversi questa mia vita di rugiada, mi sono costruito un altro rifugio, foglia dell’ultima stagione [...]. Di ampiezza è appena un hōjō, d’altezza non più di sette shaku. Non ho ancora stabilito se starò qui per sempre, quindi non l’ho costruita affidandomi a criteri particolari nella scelta del terreno. Poste le fondamenta, l’ho coperta con un semplice tetto di paglia e ho sistemato le connessure con semplici uncini di ferro. Così se qualcosa non mi andasse più a genio, potrei trasportarla altrove con facilità. E quale sarebbe la noia di un trasferimento? Per caricare tutto basterebbero appena due carri, e pagato chi li conduca, non occorrerebbe altra spesa.” Monaco, poeta, musico ed infine eremita, Kamo no Chōmei si distacca dal fluttuante mondo di Kyoto probabilmente più per un orgoglioso moto di delusione, dovuto ad una mancata promozione sociale, che per seguire sinceramente la Via verso l’Illuminazione. La sua origine cortese, che lo rende edotto dei giochi letterari e poetici delle classi più raffinate a cui ambiva di appartenere, non risulta però incompatibile con la sua nuova identità di novizio ritiratosi sulle alture del monte Hino vicino a Toyama con il nuovo nome di Ren’in. Più letterato che santo, Chōmei/Ren’in persegue dunque una personale ascesi fuggendo dal mondo, certo, ma non per questo condannandosi ad un errabondo vagare. Non essendo un nomade, Chōmei in primo luogo si costruisce quella fragile dimora, quella piccola casa mobile pensata per abitare il paesaggio. Da questo spazio limitato, raccolto, pari ad uno Jo quadrato, circa nove metri quadri, e alto sette shaku, ovvero poco più di due metri, egli contempla l’universo ricevendone in cambio lo sguardo, descrivendolo, scrivendone. “Ci si ritira dal mondo unicamente per perdersi nel mondo. [...] In questo accostarsi-allontanarsi si attua un processo che assume le movenze del dimorare, in cui, anzi, l’abitare si fa gesto. [...] Il processo di spoliazione della dimora non è in Chōmei, immiserimento ma piuttosto alleggerimento che arricchisce, conducendolo alla sua essenza, ciò che, pure riduce.” Alleggerimento, o meglio economia, uno dei concetti chiave di un altro libro; scritto secoli dopo, a migliaia di chilometri di distanza, in un altro paese, in un contesto culturale diverso e che racconta un’analoga esperienza di rinascita nella natura, attuata ancora una volta mediante la costruzione di un’architettura; piccola, minima, archetipica, che finisce per coincidere col mondo in virtù dell’estremo contrasto fra diversi rapporti di scala. “ Era una capanna ariosa e senza intonaco, adatta a ricevere un dio viaggiante, e dove una dea avrebbe potuto far strascicare la sua veste. I venti che sfioravano l’abitazione erano gli stessi che spazzavano le montagne, trasportando i frammenti, le parti celesti, della musica terrestre. Il vento del mattino soffia per sempre, il poema della creazione è ininterrotto, ma poche sono le orecchie che l’ascoltano. Ovunque l’Olimpo non è che l’esterno della terra.” Più breve e non definitiva come quella di Chōmei, la fuga dal mondo di due anni, due mesi e due giorni che Henry David Thoureau compie dal 1845 al 1847 abitando nella minuscola casa nei boschi di Walden, diviene al pari dell’Hojoki l’altro riferimento concettuale del lavoro di Yoshifumi Nakamura (1948), architetto di case costruite con antica sapienza d provetto sarto. Case-abito pensate su misura per altri eremiti, oramai stanchi della frenesia delle città nipponiche. Anch’essi divenuti inja, abitanti non certo di avanguardistiche ville, calate come oggetti stranianti dalle metropoli in boschi lontani, ma di intimi spazi di case normali, o meglio di cabanes; scevre da ogni volgarità, arricchite al contrario da una solida, artigiana, qualità poetica. Passione per i piccoli spazi abitativi che come Nakamura ama ricordare si sviluppa fin dall’età di sei anni; dalle prime esperienze di costruzione di nascondigli (utilizzando il piano di lavoro della macchina da cucire a pedale Singer della madre come tetto di un improbabile architettura i cui lati, chiusi da fogli di giornale, davano forma al luogo perfetto e segreto per ascoltare alla radio la propria trasmissione preferita) sino alle case sugli alberi costruite nel giardino della casa dei genitori a Chiba. Passione che coltiva nel corso degli studi visitando il Cabanon di L.C., la piccola sauna di Alvar Aalto, il cottage di George Bernard Shaw, le case degli Shaker e la capanna di Thoureau, la casa del poeta-scultore Kotaro Takamura, quella del poeta-architetto Michizō Tachihara e la Porziuncola di San Francesco ad Assisi. Architetture che descrivono una personale costellazione di senso fornendo una risposta chiara alla domanda che l’architettura di piccola scala di Nakamura sembra costantemente porre: Cosa vuol dire abitare? E come si dimora? Questioni basiche ed invariabili del nostro mestiere, come basiche, invariabili e raffinate sono le risposte fornite ogni volta dal lavoro dell’architetto giapponese. Scrittore di libri in cui raccoglie memorie di viaggio e disegni dei rilievi dal vero di spazi, architetture e dettagli costruttivi; quasi dei manuali che forniscono una chiave di lettura precisa del suo lavoro, presentato in Giappone in mostre di successo e personalmente sperimentato nella Lemm House, la sua -ovviamente piccola- casa sulle montagne di Nagano, dove si è realizzata la personale utopia di un vivere essenziale in sostenibile equilibrio con la natura, mediante un’architettura indipendente da ogni fornitura di energia di rete esterna. Gesto ancora più significativo dopo il grande terremoto del 2011 che, colpendo il Tohoku, ha dimostrato la pericolosità di un’economia basata sull’energia nucleare. Ma sarebbe un errore ridurre tutto il lavoro di Nakamura al solo aspetto ecologico. L’ex allievo di Junzo Yoshimura, provetto falegname, dal 1999 Professore al Department of Architecture and Architectural Engineering della Nihon University, in realtà costruisce come un liutaio abitazioni dove risuona la poesia della vita. Case disegnate a mano, come la Luna House, col suo minuscolo padiglione dedicato alla contemplazione del nostro pallido satellite o il piccolo padiglione termale Nonoyu, episodi che si riallacciano inevitabilmente alla grande architettura tradizionale nipponica. Un’architettura fatta “della sostanza delle nuvole” per usare la straordinaria definizione di Lafcadio Hearn. Un’architettura che alla brevità e sintesi di una poesia haiku fa corrispondere inevitabilmente la profondità dell’indicibile. Considered a classical genre of Japanese literature, the accounts of reclusion, or inja no bungaku, represent a transverse topic in traditional Japanese culture. Leaving the city (the moving capital of Japan, that is: first Nara, then Heiankyo and Kamakura; then Kyoto again and finally Edo in the Meiji era) with its everyday troubles and power struggles. To flee from a life that can become a cage of frozen and vain conformity, elegantly empty and whose codes are destined to an inevitable decay and corruption. Going away, far from disaster; from the frequent fires, the earthquakes; from typhoons and the violence of civil war. All of which amplified when living in the city that is also the capital of the Empire; the great ‘collective’ house that distracts and prevents from being aware of the fleeting nature of things, of their impermanence, of the imperfect and finite nature of the human condition. To retire from all this in order to find consolation in the depths of oneself or one’s own art, and – for men of faith – in the enlightenment and the promise of salvation offered by the doctrine of the Pure Land, the Western Paradise of Buddha Amitabha. Evolved from the Chinese tradition of ‘ethical’ isolation of Confucian origin and from the parallel Taoist teachings about living according to the natural flow of events, which finally arrived in Japan syncretically with the introduction of Ch’an Buddhism, the ultimate source of Zen, turning one’s back to the world is thus a constant topos in Sino-Japanese culture. A tradition that is not exclusive of mystics and poets, since the term inja includes other types of characters such as wandering gamblers, vagabonds, yakuza outlaws, or splendid princes such as the hero of Genji Monogatari. There is. However, a famous case in which this distancing oneself from the world corresponds to the construction of a minimal dwelling space, that of a fragile cell from which to contemplate the body-nature of the Buddha. “Here, at the age of sixty, when this life of dew of mine is about to dissolve, I have built for myself another shelter, leaf of the last season [...]. It is the size of only one hojo , and not more than seven shaku high. I have not decided yet whether I will be here for ever, so I did not build it following specific criteria regarding where to place it. I set the foundations, covered it with a simple straw roof, and joined the commissures with simple iron hooks. In that way if something was not right I could easily transport it somewhere else. And what would be the problem with transporting it? All I would need is two carts, and there would be no other expense besides paying the driver”. Monk, poet, musician and finally hermit, Kamo no Chomei distanced himself from the fluctuating world of Kyoto probably more as a result of pride, due to a delusion regarding social promotion, than to sincerely follow the Way of Enlightenment. His courtesan origin, which made him well-versed in the literary and poetic games of the most refined social circles, to which he wished to belong, is not, however, incompatible with his new identity as a hermit in retreat on the heights of mount Hino, near Toyama, under the new name of Ren’in. More a man of letters than a saint, Chomei/Ren’in follows a personal form of asceticism, distancing himself from the world, yet not condemning himself to a life of wandering. Not being a nomad, Chomei builds that fragile dwelling, that small moveable house conceived for living the landscape. From this limited and secluded space, equal to a Jo squared, that is more or less nine square metres, and seven shaku high, which is a little over two metres, he contemplates the universe and receives in exchange the gaze, describing it, writing about it. “One retires from the world only to be lost in the world. [...] In this nearing and distancing a process takes place which assumes the pulse of dwelling in which, actually, inhabiting becomes a gesture. [...] The process of emptying of the dwelling is not, in Chomei’s case, a question of impoverishment, but rather a lightness that enriches, by leading toward its essence, what it is in fact reducing”. Lightening, or economy, is one of the key concepts of another book; written centuries later, thousands of kilometres away, in another country, in a different cultural context, and which narrates a similar experience of rebirth through nature, enacted once again through the construction of an architectural structure; small, minimal, archetypal, which ends by coinciding with the world in virtue of the extreme contrast between the various scale ratios. “This was an airy and unplastered cabin, fit to entertain a travelling god, and where a goddess might trail her garments. The winds which passed over my dwelling were such as sweep over the ridges of mountains, bearing the broken strains, or celestial parts only, of terrestrial music. The morning wind forever blows, the poem of creation is uninterupted; but few are the ears that hear it. Olympus is but the outside of the earth everywhere”7. Henry David Thoreau’s escape from society, shorter than that of Chomei, and not definitive (it lasted two years, two months and two days, from 1845 to 1847), in which he lived in the small house in the woods in Walden, is, together with the Hojoki, the conceptual reference in the work of Yoshifumi Nakamura (1948), architect of houses built with the ancient knowledge of proven masters. Tailor-made dwellings for a different sort of hermits, tired of the frenzy of Japanese cities, who have themselves become inja, inhabitants not of avant-garde villas, descended upon far-away woods like lost objects from the metropolis, but of the intimate spaces of normal houses, or cabins; devoid of any vulgarity and enriched, on the contrary, with a solid, artisan and poetic quality. Passion for small dwelling spaces which, as Nakamura likes to recall, developed in him since the time he was six years old; from the first experiences building hiding places (using the top of his mother’s Singer pedal sewing machine as a roof for an improbable architecture whose sides were closed-in by newspapers, turning it into the perfect and secret place for listening to his favourite programme on the radio), to the tree-houses built in the garden of his parents’ house in Chiba. A passion that he further cultivated through the years, visiting Le Corbusier’s Cabanon, Alvar Aalto’s small sauna, George Bernard Shaw’s cottage, Shaker houses, Thoreau’s cabin, the home of the poet-sculptor Kotaro Takamura, that of the poet-architect Michizo Tachihara and Saint Francis of Assisi’s Porziuncola. Architectures which describe a personal constellation of meaning while providing a clear answer to the questions that Nakamura’s small scale architecture seems to be constantly posing: what does dwelling mean? How does one dwell? Basic and invariable questions for our profession, as invariable and refined as the answers given every single time by the Japanese architect. Writer of books in which he gathers memories from voyages and drawings of real-life spaces, architectures and built details; they are almost handbooks which provide a precise interpretation of his work, which has been presented in Japan in successful exhibitions and personally experienced at the Lemm House, his – obviously small – house on the mountains of Nagano, where he realised his personal Utopia of an essential life in sustainable balance with nature through an architecture which is free of any need from outside energy. A gesture that is even more meaningful in view of the great earthquake of 2011 which hit Tohoku and has revealed the danger of an economy based on nuclear energy. It would be a mistake, however, to reduce Nakamura’s work only to its environmental aspect. The ex-student of Junzo Yoshimura, master carpenter, and since 1999 Professor at the Department of Architecture and Architectural Engineering of Nihon University, in fact builds dwellings in which the poetry of life resonates, much like a luthier builds his instruments. Hand-drawn houses, like the Luna House, with its tiny pavilion devoted to the contemplation of our pale satellite, or the small Nonoyu thermal pavilion, all examples that relate to Japanese traditional architecture. An architecture made of the “substance of the clouds”, to quote Lafcadio Hearn’s extraordinary definition. An architecture which, with the brief synthesis of haiku poetry, inevitably reflects the depths of the ineffable.

Yoshifumi Nakamura. Di case, cabanes ed eremi / Volpe, Andrea Innocenzo. - In: FIRENZE ARCHITETTURA. - ISSN 1826-0772. - STAMPA. - 2:(2016), pp. 90-97. [1013128/FiAr-20309]

Yoshifumi Nakamura. Di case, cabanes ed eremi

VOLPE, ANDREA INNOCENZO
2016

Abstract

Considerati un genere classico della letteratura giapponese, i racconti di romitaggio o inja bungaku, rappresentano un genere e un tema trasversale nella cultura tradizionale nipponica. Lasciare la città (o meglio la mobile capitale del Giappone: dapprima Nara poi Heiankyō e Kamakura; poi nuovamente Kyōtō e infine Edo in epoca Meiji) con i suoi quotidiani affanni e le sue lotte di potere. Fuggire da quella vita che può divenire una gabbia di conformismi raggelati, vani, elegantemente vuoti ed i cui codici sono destinati ad un’inevitabile decadenza e corruzione. Andare via, lontano dai disastri; dai frequenti incendi, dai terremoti; dai tifoni e dalla violenza delle guerre civili. Tutti fenomeni amplificati dall’abitare nella città centro dell’impero; la grande ‘casa’ collettiva che distrae ed impedisce di essere consapevoli della fugacità delle cose, della loro impermanenza, della natura imperfetta e finita della condizione umana. Ritirarsi da tutto questo per trovare consolazione nella profondità di sé stessi o nella propria arte e -se uomini di fede- nell’illuminazione e nella promessa di salvezza promessa dai seguaci della Terra Pura, verso il Paradiso d’Occidente di Amida Buddha. Mutuata dalla tradizione cinese dell’isolamento ‘etico’ di matrice confuciana e dal parallelo insegnamento taoista del vivere assecondando il flusso naturale degli eventi, poi transitato in forma sincretica in Giappone con l’introduzione del Buddhismo Chàn, matrice di quello Zen, il voltare le spalle al mondo è dunque un topos costante nella cultura sino-giapponese. Costume non esclusivo di mistici o di poeti, giacché col termine inja si denotano anche figure di altri irregolari, quali erranti giocatori d’azzardo, falliti, persino fuorilegge yakuza o principi splendenti, come il protagonista del Genji Monogatari. C’è però un caso -peraltro famosissimo- in cui a questo allontanarsi dalle lordure del mondo corrisponde la definizione e la costruzione di uno spazio abitativo minimo, di una fragile cella da cui poter contemplare il corpo-natura del Buddha. “Qui, a sessant’anni, quand’è vicina a dissolversi questa mia vita di rugiada, mi sono costruito un altro rifugio, foglia dell’ultima stagione [...]. Di ampiezza è appena un hōjō, d’altezza non più di sette shaku. Non ho ancora stabilito se starò qui per sempre, quindi non l’ho costruita affidandomi a criteri particolari nella scelta del terreno. Poste le fondamenta, l’ho coperta con un semplice tetto di paglia e ho sistemato le connessure con semplici uncini di ferro. Così se qualcosa non mi andasse più a genio, potrei trasportarla altrove con facilità. E quale sarebbe la noia di un trasferimento? Per caricare tutto basterebbero appena due carri, e pagato chi li conduca, non occorrerebbe altra spesa.” Monaco, poeta, musico ed infine eremita, Kamo no Chōmei si distacca dal fluttuante mondo di Kyoto probabilmente più per un orgoglioso moto di delusione, dovuto ad una mancata promozione sociale, che per seguire sinceramente la Via verso l’Illuminazione. La sua origine cortese, che lo rende edotto dei giochi letterari e poetici delle classi più raffinate a cui ambiva di appartenere, non risulta però incompatibile con la sua nuova identità di novizio ritiratosi sulle alture del monte Hino vicino a Toyama con il nuovo nome di Ren’in. Più letterato che santo, Chōmei/Ren’in persegue dunque una personale ascesi fuggendo dal mondo, certo, ma non per questo condannandosi ad un errabondo vagare. Non essendo un nomade, Chōmei in primo luogo si costruisce quella fragile dimora, quella piccola casa mobile pensata per abitare il paesaggio. Da questo spazio limitato, raccolto, pari ad uno Jo quadrato, circa nove metri quadri, e alto sette shaku, ovvero poco più di due metri, egli contempla l’universo ricevendone in cambio lo sguardo, descrivendolo, scrivendone. “Ci si ritira dal mondo unicamente per perdersi nel mondo. [...] In questo accostarsi-allontanarsi si attua un processo che assume le movenze del dimorare, in cui, anzi, l’abitare si fa gesto. [...] Il processo di spoliazione della dimora non è in Chōmei, immiserimento ma piuttosto alleggerimento che arricchisce, conducendolo alla sua essenza, ciò che, pure riduce.” Alleggerimento, o meglio economia, uno dei concetti chiave di un altro libro; scritto secoli dopo, a migliaia di chilometri di distanza, in un altro paese, in un contesto culturale diverso e che racconta un’analoga esperienza di rinascita nella natura, attuata ancora una volta mediante la costruzione di un’architettura; piccola, minima, archetipica, che finisce per coincidere col mondo in virtù dell’estremo contrasto fra diversi rapporti di scala. “ Era una capanna ariosa e senza intonaco, adatta a ricevere un dio viaggiante, e dove una dea avrebbe potuto far strascicare la sua veste. I venti che sfioravano l’abitazione erano gli stessi che spazzavano le montagne, trasportando i frammenti, le parti celesti, della musica terrestre. Il vento del mattino soffia per sempre, il poema della creazione è ininterrotto, ma poche sono le orecchie che l’ascoltano. Ovunque l’Olimpo non è che l’esterno della terra.” Più breve e non definitiva come quella di Chōmei, la fuga dal mondo di due anni, due mesi e due giorni che Henry David Thoureau compie dal 1845 al 1847 abitando nella minuscola casa nei boschi di Walden, diviene al pari dell’Hojoki l’altro riferimento concettuale del lavoro di Yoshifumi Nakamura (1948), architetto di case costruite con antica sapienza d provetto sarto. Case-abito pensate su misura per altri eremiti, oramai stanchi della frenesia delle città nipponiche. Anch’essi divenuti inja, abitanti non certo di avanguardistiche ville, calate come oggetti stranianti dalle metropoli in boschi lontani, ma di intimi spazi di case normali, o meglio di cabanes; scevre da ogni volgarità, arricchite al contrario da una solida, artigiana, qualità poetica. Passione per i piccoli spazi abitativi che come Nakamura ama ricordare si sviluppa fin dall’età di sei anni; dalle prime esperienze di costruzione di nascondigli (utilizzando il piano di lavoro della macchina da cucire a pedale Singer della madre come tetto di un improbabile architettura i cui lati, chiusi da fogli di giornale, davano forma al luogo perfetto e segreto per ascoltare alla radio la propria trasmissione preferita) sino alle case sugli alberi costruite nel giardino della casa dei genitori a Chiba. Passione che coltiva nel corso degli studi visitando il Cabanon di L.C., la piccola sauna di Alvar Aalto, il cottage di George Bernard Shaw, le case degli Shaker e la capanna di Thoureau, la casa del poeta-scultore Kotaro Takamura, quella del poeta-architetto Michizō Tachihara e la Porziuncola di San Francesco ad Assisi. Architetture che descrivono una personale costellazione di senso fornendo una risposta chiara alla domanda che l’architettura di piccola scala di Nakamura sembra costantemente porre: Cosa vuol dire abitare? E come si dimora? Questioni basiche ed invariabili del nostro mestiere, come basiche, invariabili e raffinate sono le risposte fornite ogni volta dal lavoro dell’architetto giapponese. Scrittore di libri in cui raccoglie memorie di viaggio e disegni dei rilievi dal vero di spazi, architetture e dettagli costruttivi; quasi dei manuali che forniscono una chiave di lettura precisa del suo lavoro, presentato in Giappone in mostre di successo e personalmente sperimentato nella Lemm House, la sua -ovviamente piccola- casa sulle montagne di Nagano, dove si è realizzata la personale utopia di un vivere essenziale in sostenibile equilibrio con la natura, mediante un’architettura indipendente da ogni fornitura di energia di rete esterna. Gesto ancora più significativo dopo il grande terremoto del 2011 che, colpendo il Tohoku, ha dimostrato la pericolosità di un’economia basata sull’energia nucleare. Ma sarebbe un errore ridurre tutto il lavoro di Nakamura al solo aspetto ecologico. L’ex allievo di Junzo Yoshimura, provetto falegname, dal 1999 Professore al Department of Architecture and Architectural Engineering della Nihon University, in realtà costruisce come un liutaio abitazioni dove risuona la poesia della vita. Case disegnate a mano, come la Luna House, col suo minuscolo padiglione dedicato alla contemplazione del nostro pallido satellite o il piccolo padiglione termale Nonoyu, episodi che si riallacciano inevitabilmente alla grande architettura tradizionale nipponica. Un’architettura fatta “della sostanza delle nuvole” per usare la straordinaria definizione di Lafcadio Hearn. Un’architettura che alla brevità e sintesi di una poesia haiku fa corrispondere inevitabilmente la profondità dell’indicibile. Considered a classical genre of Japanese literature, the accounts of reclusion, or inja no bungaku, represent a transverse topic in traditional Japanese culture. Leaving the city (the moving capital of Japan, that is: first Nara, then Heiankyo and Kamakura; then Kyoto again and finally Edo in the Meiji era) with its everyday troubles and power struggles. To flee from a life that can become a cage of frozen and vain conformity, elegantly empty and whose codes are destined to an inevitable decay and corruption. Going away, far from disaster; from the frequent fires, the earthquakes; from typhoons and the violence of civil war. All of which amplified when living in the city that is also the capital of the Empire; the great ‘collective’ house that distracts and prevents from being aware of the fleeting nature of things, of their impermanence, of the imperfect and finite nature of the human condition. To retire from all this in order to find consolation in the depths of oneself or one’s own art, and – for men of faith – in the enlightenment and the promise of salvation offered by the doctrine of the Pure Land, the Western Paradise of Buddha Amitabha. Evolved from the Chinese tradition of ‘ethical’ isolation of Confucian origin and from the parallel Taoist teachings about living according to the natural flow of events, which finally arrived in Japan syncretically with the introduction of Ch’an Buddhism, the ultimate source of Zen, turning one’s back to the world is thus a constant topos in Sino-Japanese culture. A tradition that is not exclusive of mystics and poets, since the term inja includes other types of characters such as wandering gamblers, vagabonds, yakuza outlaws, or splendid princes such as the hero of Genji Monogatari. There is. However, a famous case in which this distancing oneself from the world corresponds to the construction of a minimal dwelling space, that of a fragile cell from which to contemplate the body-nature of the Buddha. “Here, at the age of sixty, when this life of dew of mine is about to dissolve, I have built for myself another shelter, leaf of the last season [...]. It is the size of only one hojo , and not more than seven shaku high. I have not decided yet whether I will be here for ever, so I did not build it following specific criteria regarding where to place it. I set the foundations, covered it with a simple straw roof, and joined the commissures with simple iron hooks. In that way if something was not right I could easily transport it somewhere else. And what would be the problem with transporting it? All I would need is two carts, and there would be no other expense besides paying the driver”. Monk, poet, musician and finally hermit, Kamo no Chomei distanced himself from the fluctuating world of Kyoto probably more as a result of pride, due to a delusion regarding social promotion, than to sincerely follow the Way of Enlightenment. His courtesan origin, which made him well-versed in the literary and poetic games of the most refined social circles, to which he wished to belong, is not, however, incompatible with his new identity as a hermit in retreat on the heights of mount Hino, near Toyama, under the new name of Ren’in. More a man of letters than a saint, Chomei/Ren’in follows a personal form of asceticism, distancing himself from the world, yet not condemning himself to a life of wandering. Not being a nomad, Chomei builds that fragile dwelling, that small moveable house conceived for living the landscape. From this limited and secluded space, equal to a Jo squared, that is more or less nine square metres, and seven shaku high, which is a little over two metres, he contemplates the universe and receives in exchange the gaze, describing it, writing about it. “One retires from the world only to be lost in the world. [...] In this nearing and distancing a process takes place which assumes the pulse of dwelling in which, actually, inhabiting becomes a gesture. [...] The process of emptying of the dwelling is not, in Chomei’s case, a question of impoverishment, but rather a lightness that enriches, by leading toward its essence, what it is in fact reducing”. Lightening, or economy, is one of the key concepts of another book; written centuries later, thousands of kilometres away, in another country, in a different cultural context, and which narrates a similar experience of rebirth through nature, enacted once again through the construction of an architectural structure; small, minimal, archetypal, which ends by coinciding with the world in virtue of the extreme contrast between the various scale ratios. “This was an airy and unplastered cabin, fit to entertain a travelling god, and where a goddess might trail her garments. The winds which passed over my dwelling were such as sweep over the ridges of mountains, bearing the broken strains, or celestial parts only, of terrestrial music. The morning wind forever blows, the poem of creation is uninterupted; but few are the ears that hear it. Olympus is but the outside of the earth everywhere”7. Henry David Thoreau’s escape from society, shorter than that of Chomei, and not definitive (it lasted two years, two months and two days, from 1845 to 1847), in which he lived in the small house in the woods in Walden, is, together with the Hojoki, the conceptual reference in the work of Yoshifumi Nakamura (1948), architect of houses built with the ancient knowledge of proven masters. Tailor-made dwellings for a different sort of hermits, tired of the frenzy of Japanese cities, who have themselves become inja, inhabitants not of avant-garde villas, descended upon far-away woods like lost objects from the metropolis, but of the intimate spaces of normal houses, or cabins; devoid of any vulgarity and enriched, on the contrary, with a solid, artisan and poetic quality. Passion for small dwelling spaces which, as Nakamura likes to recall, developed in him since the time he was six years old; from the first experiences building hiding places (using the top of his mother’s Singer pedal sewing machine as a roof for an improbable architecture whose sides were closed-in by newspapers, turning it into the perfect and secret place for listening to his favourite programme on the radio), to the tree-houses built in the garden of his parents’ house in Chiba. A passion that he further cultivated through the years, visiting Le Corbusier’s Cabanon, Alvar Aalto’s small sauna, George Bernard Shaw’s cottage, Shaker houses, Thoreau’s cabin, the home of the poet-sculptor Kotaro Takamura, that of the poet-architect Michizo Tachihara and Saint Francis of Assisi’s Porziuncola. Architectures which describe a personal constellation of meaning while providing a clear answer to the questions that Nakamura’s small scale architecture seems to be constantly posing: what does dwelling mean? How does one dwell? Basic and invariable questions for our profession, as invariable and refined as the answers given every single time by the Japanese architect. Writer of books in which he gathers memories from voyages and drawings of real-life spaces, architectures and built details; they are almost handbooks which provide a precise interpretation of his work, which has been presented in Japan in successful exhibitions and personally experienced at the Lemm House, his – obviously small – house on the mountains of Nagano, where he realised his personal Utopia of an essential life in sustainable balance with nature through an architecture which is free of any need from outside energy. A gesture that is even more meaningful in view of the great earthquake of 2011 which hit Tohoku and has revealed the danger of an economy based on nuclear energy. It would be a mistake, however, to reduce Nakamura’s work only to its environmental aspect. The ex-student of Junzo Yoshimura, master carpenter, and since 1999 Professor at the Department of Architecture and Architectural Engineering of Nihon University, in fact builds dwellings in which the poetry of life resonates, much like a luthier builds his instruments. Hand-drawn houses, like the Luna House, with its tiny pavilion devoted to the contemplation of our pale satellite, or the small Nonoyu thermal pavilion, all examples that relate to Japanese traditional architecture. An architecture made of the “substance of the clouds”, to quote Lafcadio Hearn’s extraordinary definition. An architecture which, with the brief synthesis of haiku poetry, inevitably reflects the depths of the ineffable.
2016
2
90
97
Volpe, Andrea Innocenzo
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
FirenzeArchitettura2016-2 DOI 20309 (Volpe) pp90-97.pdf

accesso aperto

Descrizione: Pdf editoriale definitivo
Tipologia: Pdf editoriale (Version of record)
Licenza: Open Access
Dimensione 962.74 kB
Formato Adobe PDF
962.74 kB Adobe PDF

I documenti in FLORE sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1077720
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact