Il linguaggio, in quanto sistema che riflette la realtà sociale ma al tempo stesso la produce, è il luogo in cui la soggettività degli individui si costruisce e si modella. La lingua non può essere neutra, non è un mezzo oggettivo di trasmissione di contenuti, al contrario, essa racchiude una particolare rappresentazione del mondo che indirizza e condiziona il pensiero di chi parla. Se dunque il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione ma è invece uno strumento di percezione e di classificazione della realtà, appare importante che il suo uso sia “corretto”, non nel senso normativo-prescrittivo del termine, ma nel senso di equo, giusto, non discriminatorio nei confronti di nessun gruppo sociale. E soprattutto non ideologico. Negli ultimi anni in Italia sta circolando una parola anglofona – “gender” – il cui utilizzo appare segnato da una profonda ambiguità. Il saggio si propone di fare chiarezza su un termine - in italiano "genere" - che nel nostro paese viene interpretato come un neologismo di recente origine ma che in realtà ha una lunga tradizione alla spalle e un preciso retroterra teorico che si colloca nel neo-femminismo americano degli anni '60-'70. Ha inoltre una sua traduzione italiana: “genere” – o meglio, “genere sociale” – che già di per sé appare più intuitiva e chiara dell’equivalente inglese. Nel 1975 la studiosa americana Gayle Rubin introduce ufficialmente nel dibattito scientifico il termine gender (Rubin, 1975) che da quel momento diventa il concetto inaugurale di una nuova prospettiva analitica nell’ambito degli studi femministi. L’espressione sex/gender system indica «l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro» (Piccone Stella, Saraceno, 1996, p. 7).

Di che gender stiamo parlando? / Biemmi, Irene. - In: ANDERSEN. - STAMPA. - (2016), pp. 20-21.

Di che gender stiamo parlando?

biemmi
2016

Abstract

Il linguaggio, in quanto sistema che riflette la realtà sociale ma al tempo stesso la produce, è il luogo in cui la soggettività degli individui si costruisce e si modella. La lingua non può essere neutra, non è un mezzo oggettivo di trasmissione di contenuti, al contrario, essa racchiude una particolare rappresentazione del mondo che indirizza e condiziona il pensiero di chi parla. Se dunque il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione ma è invece uno strumento di percezione e di classificazione della realtà, appare importante che il suo uso sia “corretto”, non nel senso normativo-prescrittivo del termine, ma nel senso di equo, giusto, non discriminatorio nei confronti di nessun gruppo sociale. E soprattutto non ideologico. Negli ultimi anni in Italia sta circolando una parola anglofona – “gender” – il cui utilizzo appare segnato da una profonda ambiguità. Il saggio si propone di fare chiarezza su un termine - in italiano "genere" - che nel nostro paese viene interpretato come un neologismo di recente origine ma che in realtà ha una lunga tradizione alla spalle e un preciso retroterra teorico che si colloca nel neo-femminismo americano degli anni '60-'70. Ha inoltre una sua traduzione italiana: “genere” – o meglio, “genere sociale” – che già di per sé appare più intuitiva e chiara dell’equivalente inglese. Nel 1975 la studiosa americana Gayle Rubin introduce ufficialmente nel dibattito scientifico il termine gender (Rubin, 1975) che da quel momento diventa il concetto inaugurale di una nuova prospettiva analitica nell’ambito degli studi femministi. L’espressione sex/gender system indica «l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro» (Piccone Stella, Saraceno, 1996, p. 7).
2016
20
21
Biemmi, Irene
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