ABSTRACT Il divieto di registrare come marchi i “segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio” di cui all’art. 17.1.a) l.m. [ed oggi art. 13.1.a) c.p.i.], introdotto in seguito al recepimento dell’art. 3.1.d) della Direttiva CEE n. 89/104, trae origine dall’art. 6-quinquies, B.2 CUP, che prevede la possibilità di escludere dalla registrazione, o di considerare nulla la registrazione avente ad oggetto i marchi “ composées exclusivement de signes (…) devenus usuels dans le language courant ou les habitudes loyales et constantes du commerce du pays où la protection est réclamée”. E pare possibile identificare nei “segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente” le denominazioni interessate da un processo di volgarizzazione successivo alla loro registrazione come marchi e riconoscere invece nei “segni divenuti di uso comune negli usi leali e costanti del commercio del Paese nel quale la protezione è reclamata” i Freizeichen, ossia i segni (denominativi, figurativi o misti) che hanno perso l’originaria attitudine individualizzante per essere stati usati per i medesimi prodotti da una pluralità di imprenditori indipendenti e non collegati tra di loro. L’elemento comune alle due categorie di segni pare dunque rappresentato dal mero fatto che per entrambe la libera adottabilità consegue alla perdita della capacità di distinguere determinati prodotti o servizi in funzione della loro origine imprenditoriale, capacità che in origine sicuramente possedevano. La presenza di un divieto nei confronti della registrazione di segni “costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi” [-già- art. 18.1.b) l.m.], che trova evidentemente applicazione a prescindere dal fatto che il segno fosse fin dall’origine privo di capacità distintiva o lo sia divenuto solo successivamente, risulta tuttavia assorbente nei confronti di quello volto ad impedire la registrazione di segni che vengono ormai percepiti come denominazioni generiche proprio di quei prodotti per i quali li si vorrebbe registrare come marchi. Mentre l’art. 41.1.a) l.m. [oggi art.13.4 e art. 26.1.a) c.p.i.] disciplina la perdita di capacità distintiva sopravvenuta, determinatasi in epoca successiva alla registrazione del marchio in seguito a volgarizzazione. I segni volgarizzati ricevono dunque già una esauriente disciplina, sì da rendere privo di autonomo spazio operativo un divieto volto a ribadire la loro inappropriabilità in regime di esclusiva. Di conseguenza l’art. 17.1.a) l.m. conserva significato in termini di concreta operatività unicamente laddove si riferisce ai Freizeichen, il cui divieto di monopolizzazione come marchi non emerge da altra espressa disposizione del nostro ordinamento positivo. La categoria dei Freizeichen trae origine dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale tedesca ed era espressamente prevista e disciplinata dal previgente Warenzeichengesetz, mentre i suoi tratti caratteristici fondamentali erano ben delineati da dottrina e giurisprudenza. Ma già negli ultimi decenni nei quali questa legge è rimasta in vigore gli interpreti avevano cominciato a confondere questi tratti con quelli propri dei segni interessati da un processo di volgarizzazione, perdendo di vista la strada correttamente tracciata dai loro predecessori. Questo errore di prospettiva si è, se possibile, accentuato con l’avvento del nuovo Markengesetz. La dottrina appare disorientata e influenzata dalle opinioni espresse dagli ultimi interpreti della vecchia legge. Lo stesso Bundesgerichtshof, nel contrastare correttamente uno stravagante indirizzo del Bundespatentgericht, dimostra per molti versi di non aver del tutto chiari i confini della categoria dei Freizeichen. E tutto ciò si riflette sui quesiti recentemente sottoposti al giudizio della Corte di giustizia CE (caso “Bravo”). Mentre nel nostro ordinamento, già prima della riforma del 1992, quando la legge parlava di segni di uso generale invece che di uso comune, l’esigenza di una “generalità” o pluralità di utenti veniva spesso confusa con una (invece inesistente) esigenza di una pluralità di generi merceologici interessati da questo uso. Come già accennato, un segno originariamente in grado di individuare una comune origine imprenditoriale di determinati prodotti o servizi può divenire “libero”, ossia di uso comune negli usi costanti del commercio, quando viene usato da una pluralità di imprenditori indipendenti e non collegati tra di loro e nell’opinione degli operatori economici interessati finisce per essere considerato ormai inidoneo a indicare la provenienza da una particolare impresa dei beni che lo recano e pertanto liberamente utilizzabile da chiunque. Questi segni non hanno alcun significato descrittivo dei beni sui quali vengono apposti e possono divenire “liberi” anche per un solo tipo di prodotto o servizio quando l’uso comune, nel senso appena ricordato, interessa per l’appunto solo un particolare prodotto o servizio. Ma l’uso comune può anche interessare prodotti o servizi tra di loro differenti, rendendo così più ampio l’ambito merceologico in cui il segno risulta insuscettibile di appropriazione in regime di esclusiva. Talora questo uso può riguardare molteplici categorie merceologiche, fino a dare l’impressione di una adozione generalizzata che interessa o ha interessato prodotti o servizi di qualsiasi genere. In questo ultimo caso non mi sembra necessario che un uso effettivo da parte di imprenditori diversi e non collegati debba sempre riguardare anche il particolare prodotto o servizio nei confronti del quale deve essere verificata la monopolizzabilità o meno del segno. Questo uso non appare infatti indispensabile quando gli operatori economici interessati ritengono comunque liberamente adottabile il segno in parola anche per questo particolare prodotto o servizio. Soprattutto quando l’uso comune interessa un solo prodotto o servizio, dopo un certo periodo può talora accadere che il segno acquisti anche un significato descrittivo di particolari caratteristiche del bene. Ed è evidente come da questo momento la duplice qualificazione della fattispecie renda assorbente il profilo costituito alla descrittività, di per sé sufficiente ad impedire la tutela del segno come marchio.

I segni divenuti di "uso comune" e la loro non registrabilità come marchi / M. AMMENDOLA. - STAMPA. - (2004), pp. 1-57.

I segni divenuti di "uso comune" e la loro non registrabilità come marchi

AMMENDOLA, MAURIZIO
2004

Abstract

ABSTRACT Il divieto di registrare come marchi i “segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio” di cui all’art. 17.1.a) l.m. [ed oggi art. 13.1.a) c.p.i.], introdotto in seguito al recepimento dell’art. 3.1.d) della Direttiva CEE n. 89/104, trae origine dall’art. 6-quinquies, B.2 CUP, che prevede la possibilità di escludere dalla registrazione, o di considerare nulla la registrazione avente ad oggetto i marchi “ composées exclusivement de signes (…) devenus usuels dans le language courant ou les habitudes loyales et constantes du commerce du pays où la protection est réclamée”. E pare possibile identificare nei “segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente” le denominazioni interessate da un processo di volgarizzazione successivo alla loro registrazione come marchi e riconoscere invece nei “segni divenuti di uso comune negli usi leali e costanti del commercio del Paese nel quale la protezione è reclamata” i Freizeichen, ossia i segni (denominativi, figurativi o misti) che hanno perso l’originaria attitudine individualizzante per essere stati usati per i medesimi prodotti da una pluralità di imprenditori indipendenti e non collegati tra di loro. L’elemento comune alle due categorie di segni pare dunque rappresentato dal mero fatto che per entrambe la libera adottabilità consegue alla perdita della capacità di distinguere determinati prodotti o servizi in funzione della loro origine imprenditoriale, capacità che in origine sicuramente possedevano. La presenza di un divieto nei confronti della registrazione di segni “costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi” [-già- art. 18.1.b) l.m.], che trova evidentemente applicazione a prescindere dal fatto che il segno fosse fin dall’origine privo di capacità distintiva o lo sia divenuto solo successivamente, risulta tuttavia assorbente nei confronti di quello volto ad impedire la registrazione di segni che vengono ormai percepiti come denominazioni generiche proprio di quei prodotti per i quali li si vorrebbe registrare come marchi. Mentre l’art. 41.1.a) l.m. [oggi art.13.4 e art. 26.1.a) c.p.i.] disciplina la perdita di capacità distintiva sopravvenuta, determinatasi in epoca successiva alla registrazione del marchio in seguito a volgarizzazione. I segni volgarizzati ricevono dunque già una esauriente disciplina, sì da rendere privo di autonomo spazio operativo un divieto volto a ribadire la loro inappropriabilità in regime di esclusiva. Di conseguenza l’art. 17.1.a) l.m. conserva significato in termini di concreta operatività unicamente laddove si riferisce ai Freizeichen, il cui divieto di monopolizzazione come marchi non emerge da altra espressa disposizione del nostro ordinamento positivo. La categoria dei Freizeichen trae origine dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale tedesca ed era espressamente prevista e disciplinata dal previgente Warenzeichengesetz, mentre i suoi tratti caratteristici fondamentali erano ben delineati da dottrina e giurisprudenza. Ma già negli ultimi decenni nei quali questa legge è rimasta in vigore gli interpreti avevano cominciato a confondere questi tratti con quelli propri dei segni interessati da un processo di volgarizzazione, perdendo di vista la strada correttamente tracciata dai loro predecessori. Questo errore di prospettiva si è, se possibile, accentuato con l’avvento del nuovo Markengesetz. La dottrina appare disorientata e influenzata dalle opinioni espresse dagli ultimi interpreti della vecchia legge. Lo stesso Bundesgerichtshof, nel contrastare correttamente uno stravagante indirizzo del Bundespatentgericht, dimostra per molti versi di non aver del tutto chiari i confini della categoria dei Freizeichen. E tutto ciò si riflette sui quesiti recentemente sottoposti al giudizio della Corte di giustizia CE (caso “Bravo”). Mentre nel nostro ordinamento, già prima della riforma del 1992, quando la legge parlava di segni di uso generale invece che di uso comune, l’esigenza di una “generalità” o pluralità di utenti veniva spesso confusa con una (invece inesistente) esigenza di una pluralità di generi merceologici interessati da questo uso. Come già accennato, un segno originariamente in grado di individuare una comune origine imprenditoriale di determinati prodotti o servizi può divenire “libero”, ossia di uso comune negli usi costanti del commercio, quando viene usato da una pluralità di imprenditori indipendenti e non collegati tra di loro e nell’opinione degli operatori economici interessati finisce per essere considerato ormai inidoneo a indicare la provenienza da una particolare impresa dei beni che lo recano e pertanto liberamente utilizzabile da chiunque. Questi segni non hanno alcun significato descrittivo dei beni sui quali vengono apposti e possono divenire “liberi” anche per un solo tipo di prodotto o servizio quando l’uso comune, nel senso appena ricordato, interessa per l’appunto solo un particolare prodotto o servizio. Ma l’uso comune può anche interessare prodotti o servizi tra di loro differenti, rendendo così più ampio l’ambito merceologico in cui il segno risulta insuscettibile di appropriazione in regime di esclusiva. Talora questo uso può riguardare molteplici categorie merceologiche, fino a dare l’impressione di una adozione generalizzata che interessa o ha interessato prodotti o servizi di qualsiasi genere. In questo ultimo caso non mi sembra necessario che un uso effettivo da parte di imprenditori diversi e non collegati debba sempre riguardare anche il particolare prodotto o servizio nei confronti del quale deve essere verificata la monopolizzabilità o meno del segno. Questo uso non appare infatti indispensabile quando gli operatori economici interessati ritengono comunque liberamente adottabile il segno in parola anche per questo particolare prodotto o servizio. Soprattutto quando l’uso comune interessa un solo prodotto o servizio, dopo un certo periodo può talora accadere che il segno acquisti anche un significato descrittivo di particolari caratteristiche del bene. Ed è evidente come da questo momento la duplice qualificazione della fattispecie renda assorbente il profilo costituito alla descrittività, di per sé sufficiente ad impedire la tutela del segno come marchio.
2004
9788814103209
Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti
1
57
M. AMMENDOLA
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