Gli attuali criteri diagnostici del DSM-IV-TR (2000) del Disturbo dell’Identità di Genere considerano essenziali una forte e persistente identificazione col sesso opposto e un persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso, accompagnati da un disagio clinicamente significativo e da assenza di condizioni intersessuali. Nella Versione Beta (settembre 2012) del DSM-V i criteri diagnostici si differenziano a seconda dell’età (nei bambini e negli adolescenti e adulti) e in entrambi i casi sono politetici, più esigenti per i bambini e meno per gli adolescenti/adulti, permettendo così un’ampia variabilità nella presentazione; inoltre vi è una nuova denominazione (Disforia di Genere) che abbandona il termine “disturbo” ed è ammessa la presenza di un disturbo dello sviluppo sessuale (intersessualità). La prevalenza della Disforia di Genere viene stimata inferiore all’1% (4,75% la stima nell’unico studio italiano) e gli esiti di sviluppo in età adolescenziale/adulta della condizione in età infantile vanno generalmente in direzione dell’omosessualità e solo nel 12-27% rimane una condizione di Disforia di Genere. Notevoli sono le incertezze delle teorie eziologiche, che comunque tendono a considerare una complessa interazione fra una predisposizione biologica e una combinazione di fattori intra- e interpersonali, fra i quali non irrilevanti sono quelli culturali. I fondamenti dei percorsi d’intervento (soprattutto in età infantile) sono altrettanto non solidamente costruiti, oscillando fra i due poli opposti di un’accettazione non valutativa con un accompagnamento fino all’età adulta, sostenendo il giovane nelle varie fasi evolutive nelle difficoltà incontrate, e, al contrario, di un tentativo di riorientamento e adeguamento dell’identità di genere al sesso biologico. In età adolescenziale è discusso, ma probabilmente utile, l’impiego di analoghi GnRH per ritardare la pubertà e i suoi cambiamenti fisici e, successivamente, di ormoni cross-sex, per arrivare eventualmente alla riattribuzione chirurgica di sesso alla maggiore età. Un tale quadro non adeguatamente e scientificamente definito è alla radice delle importanti discussioni in relazione alle prossime versioni dei manuali diagnostici (dopo il DSM-5, ormai pubblicato, soprattutto nel 2015 l’ICD-11) riguardanti la legittimità di definire tale condizione un “disturbo”, sia per le pesanti conseguenze di patologizzazione e di stigmatizzazione che ne derivano, sia, al contrario, rispetto alla necessità di garantire un adeguato accesso ai servizi sanitari per le persone che la presentano.
La disforia di genere negli adolescenti: la necessità di un protocollo di assessment condiviso e la proposta del protocollo AGIR / Dettore D.. - STAMPA. - (2014), pp. 27-34.
La disforia di genere negli adolescenti: la necessità di un protocollo di assessment condiviso e la proposta del protocollo AGIR
DETTORE, DAVIDE
2014
Abstract
Gli attuali criteri diagnostici del DSM-IV-TR (2000) del Disturbo dell’Identità di Genere considerano essenziali una forte e persistente identificazione col sesso opposto e un persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso, accompagnati da un disagio clinicamente significativo e da assenza di condizioni intersessuali. Nella Versione Beta (settembre 2012) del DSM-V i criteri diagnostici si differenziano a seconda dell’età (nei bambini e negli adolescenti e adulti) e in entrambi i casi sono politetici, più esigenti per i bambini e meno per gli adolescenti/adulti, permettendo così un’ampia variabilità nella presentazione; inoltre vi è una nuova denominazione (Disforia di Genere) che abbandona il termine “disturbo” ed è ammessa la presenza di un disturbo dello sviluppo sessuale (intersessualità). La prevalenza della Disforia di Genere viene stimata inferiore all’1% (4,75% la stima nell’unico studio italiano) e gli esiti di sviluppo in età adolescenziale/adulta della condizione in età infantile vanno generalmente in direzione dell’omosessualità e solo nel 12-27% rimane una condizione di Disforia di Genere. Notevoli sono le incertezze delle teorie eziologiche, che comunque tendono a considerare una complessa interazione fra una predisposizione biologica e una combinazione di fattori intra- e interpersonali, fra i quali non irrilevanti sono quelli culturali. I fondamenti dei percorsi d’intervento (soprattutto in età infantile) sono altrettanto non solidamente costruiti, oscillando fra i due poli opposti di un’accettazione non valutativa con un accompagnamento fino all’età adulta, sostenendo il giovane nelle varie fasi evolutive nelle difficoltà incontrate, e, al contrario, di un tentativo di riorientamento e adeguamento dell’identità di genere al sesso biologico. In età adolescenziale è discusso, ma probabilmente utile, l’impiego di analoghi GnRH per ritardare la pubertà e i suoi cambiamenti fisici e, successivamente, di ormoni cross-sex, per arrivare eventualmente alla riattribuzione chirurgica di sesso alla maggiore età. Un tale quadro non adeguatamente e scientificamente definito è alla radice delle importanti discussioni in relazione alle prossime versioni dei manuali diagnostici (dopo il DSM-5, ormai pubblicato, soprattutto nel 2015 l’ICD-11) riguardanti la legittimità di definire tale condizione un “disturbo”, sia per le pesanti conseguenze di patologizzazione e di stigmatizzazione che ne derivano, sia, al contrario, rispetto alla necessità di garantire un adeguato accesso ai servizi sanitari per le persone che la presentano.I documenti in FLORE sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.