L’accesso alla professione forense ha sempre comportato lo svolgimento di un periodo di pratica durante il quale i giovani laureati, in attesa di superare l’esame di abilitazione, sono chiamati a svolgere senza essere retribuiti attività più o meno professionali e qualificanti presso lo studio del dominus. Fino a un recente passato, l’esperienza della pratica legale gratuita veniva compensata dalla ragionevole certezza di poter avere accesso in tempi relativamente rapidi a una professione prestigiosa e ben remunerata. L’appartenenza degli aspiranti avvocati alle classi più agiate, inoltre, attenuava il disagio per la mancata retribuzione. Oggi che il numero di avvocati in Italia è prossimo ai 250 mila, che il profilo sociale del laureato in giurisprudenza si è abbassato e che, soprattutto, la professione non garantisce più, o almeno non a tutti, livelli di reddito elevati, anche il significato dell’esperienza del praticantato risulta mutato. Questo mutamento influenza in modo evidente le condizioni vissute dal giovane all’interno dello studio. Sui media abbondano inchieste, denunce e testimonianze di giovani praticanti che lamentano una situazione caratterizzata dallo svolgimento di attività improprie e dalla mancanza di un riconoscimento economico. In questo dibattito, poco considerato è il punto di vista del dominus. Il saggio, basato su originali dati di ricerca, si prefigge di portare elementi che consentano di spostare la riflessione intorno al compenso dovuto ai praticanti oltre la sterile dialettica tra favorevoli e contrari evidenziando come, in realtà, dietro la scelta del dominus di non remunerare il si celino ragioni diverse e soprattutto modi differenti di intendere e regolare l'accesso alla professione. Il presupposto dal quale parte l’analisi è che quando l'avvocato afferma che ciò è "giusto", lo faccia sulla base di logiche di giustificazione riferite alla sua specifica esperienza. Queste vengono nel saggio individuate e analizzate a partire da una tipologia definita dall’incrocio tra due dimensioni; la prima riguarda la razionalità prevalente sulla quale si fonda la relazione che può essere di natura economica o etico-professionale; la seconda rinvia alla dinamica riconoscimento-negazione tipica della dialettica hegeliana servo-padrone.

Razionalità economica e dimensione etica nella regolazione del rapporto tra dominus e praticante / Tonarelli, Annalisa; Bellini, Andrea. - STAMPA. - (2015), pp. 169-190.

Razionalità economica e dimensione etica nella regolazione del rapporto tra dominus e praticante

TONARELLI, ANNALISA;BELLINI, ANDREA
2015

Abstract

L’accesso alla professione forense ha sempre comportato lo svolgimento di un periodo di pratica durante il quale i giovani laureati, in attesa di superare l’esame di abilitazione, sono chiamati a svolgere senza essere retribuiti attività più o meno professionali e qualificanti presso lo studio del dominus. Fino a un recente passato, l’esperienza della pratica legale gratuita veniva compensata dalla ragionevole certezza di poter avere accesso in tempi relativamente rapidi a una professione prestigiosa e ben remunerata. L’appartenenza degli aspiranti avvocati alle classi più agiate, inoltre, attenuava il disagio per la mancata retribuzione. Oggi che il numero di avvocati in Italia è prossimo ai 250 mila, che il profilo sociale del laureato in giurisprudenza si è abbassato e che, soprattutto, la professione non garantisce più, o almeno non a tutti, livelli di reddito elevati, anche il significato dell’esperienza del praticantato risulta mutato. Questo mutamento influenza in modo evidente le condizioni vissute dal giovane all’interno dello studio. Sui media abbondano inchieste, denunce e testimonianze di giovani praticanti che lamentano una situazione caratterizzata dallo svolgimento di attività improprie e dalla mancanza di un riconoscimento economico. In questo dibattito, poco considerato è il punto di vista del dominus. Il saggio, basato su originali dati di ricerca, si prefigge di portare elementi che consentano di spostare la riflessione intorno al compenso dovuto ai praticanti oltre la sterile dialettica tra favorevoli e contrari evidenziando come, in realtà, dietro la scelta del dominus di non remunerare il si celino ragioni diverse e soprattutto modi differenti di intendere e regolare l'accesso alla professione. Il presupposto dal quale parte l’analisi è che quando l'avvocato afferma che ciò è "giusto", lo faccia sulla base di logiche di giustificazione riferite alla sua specifica esperienza. Queste vengono nel saggio individuate e analizzate a partire da una tipologia definita dall’incrocio tra due dimensioni; la prima riguarda la razionalità prevalente sulla quale si fonda la relazione che può essere di natura economica o etico-professionale; la seconda rinvia alla dinamica riconoscimento-negazione tipica della dialettica hegeliana servo-padrone.
2015
9788863158366
Le professioni intellettuali tra diritto e innovazione
169
190
Tonarelli, Annalisa; Bellini, Andrea
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