La Psicologia Clinica (e la psicologia in genere) è caratterizzata da antinomie, cioè da posizioni opposte che considerate singolarmente mostrano comunque una certa validità in termini esplicativi. In concreto ciò ha comportato che singole scuole di pensiero, apparentemente o sostanzialmente agli antipodi, si siano periodicamente avvicendate come “paradigma” dominante per la spiegazione e la cura dei fenomeni psicopatologici. Il riconoscimento (lento e faticoso) dell’impossibilità di rendere conto della sofferenza umana da un unico o limitato punto di vista, ha avuto come conseguenza l’attuale eterogeneità di posizioni che è possibile osservare sia nell’insegnamento della disciplina sia nella pratica dei professionisti. In una situazione ideale, l’eterogeneità delle posizioni costituisce senza dubbio un valore, purché ciascun punto di vista venga presentato come tale, esplicitandone le possibilità e i limiti e gli ipotetici collegamenti (e le differenze) con altre posizioni. Ma le persone, e quindi anche gli psicologi, sono soggette a pregiudizi, interessi, preferenze di tipo estetico-filosofico o più semplicemente a limiti culturali che rendono difficile, da una parte, una sostanziale obiettività circa i pregi e i difetti dei modelli teorici adottati e, dall’altra, la realizzazione di un accordo su quale debbano essere le conoscenze fondamentali di uno psicologo clinico. A confondere ulteriormente le cose, vi sono oggi dei tentativi di ipersemplificazione nell’interpretazione della sofferenza psicologica quale risposta (ovviamente errata) alla complessità e irriducibilità inerente i fenomeni umani. Mi riferisco al ripiegamento sulla nosografia come elemento unificante della Psicologia Clinica e al ritorno del massiccio investimento sulle spiegazioni organiche (o organiciste) favorito dall’impressionante sviluppo delle neuroscienze. Nel primo caso assistiamo ad una Psicologia Clinica che, nel peggiore dei casi, baratta l’uomo e la sua sofferenza (elementi che costituiscono, lo ricordo ai colleghi un po’ distratti, la ragione del nostro esistere) con un elenco di categorie sintomatiche e con una banalizzazione dei meccanismi esplicativi che favoriscono lo sviluppo del disagio psicologico. Di qua davvero non si va da nessuna parte, anche se ho pochi dubbi sul fatto che sia più facile fare l’elenco dei sintomi depressivi piuttosto che tentare di spiegare (agli studenti, per esempio) in cosa consiste il dolore psicologico legato allo stato di prostrazione, vuoto e disperazione di una persona che è sprofondata in un buco nero senza ieri, oggi o domani. Nel secondo caso si prende a prestito il mantra della “Psicologia come Scienza” (stiracchiato qua e là, al solito, a seconda degli interessi del momento) e si risolve il mistero della sofferenza umana con il riferimento al malfunzionamento di ipotetici circuiti cerebrali, capitalizzando sulla presunta maggiore chiarezza della terminologia di stampo medico e sulla superiorità esplicativa (sic!) delle spiegazioni organiche. Vorrei essere chiaro però su questo punto. La maggior parte dei neuroscienziati fa il proprio mestiere: sono alcuni psicologici clinici che si sono dimenticati di come si fa il loro. Come se ne esce? Il volume di Castonguay e Oltmanns mi sembra proponga un punto di vista interessante, in quanto riconosce la complessità dell’essere umano ma non china il capo di fronte all’immensa sfida di darne una spiegazione. Ho conosciuto gli autori in occasione di qualche seminario clinico che ho frequentato negli Stati Uniti e sono rimasto colpito dalla loro scelta di ricorrere alla integrazione di varie nozioni e meccanismi allo scopo di essere davvero di aiuto ai pazienti. Questo è il “filo rosso” del volume che ho il piacere di presentare: non l’adesione a modelli predefiniti, non la stanca ripetizione di formule e concetti mai verificati fino in fondo ma la volontà esplicita di essere utili ai pazienti, il desiderio ultimo, credo, di ogni psicologo clinico. Tale obiettivo è perseguito con un apparente semplice stratagemma: chiedere agli esperti di un determinato problema o disturbo di illustrare i principi che guidano il trattamento senza legarli ad un approccio teorico specifico; in altre parole, indicare la strada lasciando libero il clinico (così come dovrebbe essere) di scegliere il mezzo più consono per percorrerla. A questo proposito, invito i lettori a consultare con grande attenzione l’ultimo capitolo del volume: in tutta la mia carriera non ho mai visto sintetizzare in maniera così semplice ed efficace gli elementi chiave di cui lo psicologo clinico dovrebbe tenere conto nell’affrontare il disagio umano. Ma lo sforzo di integrazione degli autori non finisce qui. Infatti, il loro manuale è innanzitutto un “classico” manuale di Psicologia Clinica, modernissimo e aggiornato. Descrive le sindromi principali, fornisce dati epidemiologici, i problemi associati a ciascuna sindrome, l’eziologia, i fattori socio-culturali collegati e, come già ricordato, gli elementi principali sui quali si dovrebbe focalizzare il trattamento. Interessantissimi e certamente nuovi, i capitoli dedicati rispettivamente ai sintomi positivi della schizofrenia e ai conflitti di coppia. Nel primo caso è da apprezzare il taglio finalizzato a smantellare la nomea di incomprensibilità di allucinazioni e deliri: i fenomenologi non potranno che essere grati a questi autori. Nel secondo, viene ribadita la necessità di valutare sempre la vita di relazione delle persone: come viene sottolineato è impressionante quanto poco siano trattati questi problemi a fronte del disagio che causano. Gli autori, inoltre, non disdegnano, coerentemente al loro progetto, il confronto con la nosografia e le neuroscienze ma non cadono negli errori descritti in precedenza: cercano di prendere il meglio di queste posizioni, sottolineandone contemporaneamente i limiti e i difetti. In definitiva, il volume di Castonguay e Oltmanns non cade nel comune errore di appiattire l’illustrazione della sofferenza umana scegliendo la facile strada del paradigma incontestato o della semplicistica spiegazione. Sono queste caratteristiche che mi hanno spinto, assieme alla collega Antonella Orsucci e al sostegno di Raffaello Cortina e della sua redazione, a intraprendere il complicato lavoro di traduzione e adattamento di questo libro. Credo che il messaggio più importante contenuto in questo volume sia che tollerare la complessità, l’ambiguità, l’irriducibilità e la difficoltà costituisce l’essenza del lavoro dello psicologo clinico: Castonguay e Oltmanns ci offrono un aiuto in più che ci sostiene in questo difficile ruolo. Firenze, 04/01/2016 Claudio Sica
Psicologia clinica e psicopatologia. Un approccio integrato / Sica Claudio. - STAMPA. - (2016), pp. 1-589.
Psicologia clinica e psicopatologia. Un approccio integrato.
SICA, CLAUDIO
2016
Abstract
La Psicologia Clinica (e la psicologia in genere) è caratterizzata da antinomie, cioè da posizioni opposte che considerate singolarmente mostrano comunque una certa validità in termini esplicativi. In concreto ciò ha comportato che singole scuole di pensiero, apparentemente o sostanzialmente agli antipodi, si siano periodicamente avvicendate come “paradigma” dominante per la spiegazione e la cura dei fenomeni psicopatologici. Il riconoscimento (lento e faticoso) dell’impossibilità di rendere conto della sofferenza umana da un unico o limitato punto di vista, ha avuto come conseguenza l’attuale eterogeneità di posizioni che è possibile osservare sia nell’insegnamento della disciplina sia nella pratica dei professionisti. In una situazione ideale, l’eterogeneità delle posizioni costituisce senza dubbio un valore, purché ciascun punto di vista venga presentato come tale, esplicitandone le possibilità e i limiti e gli ipotetici collegamenti (e le differenze) con altre posizioni. Ma le persone, e quindi anche gli psicologi, sono soggette a pregiudizi, interessi, preferenze di tipo estetico-filosofico o più semplicemente a limiti culturali che rendono difficile, da una parte, una sostanziale obiettività circa i pregi e i difetti dei modelli teorici adottati e, dall’altra, la realizzazione di un accordo su quale debbano essere le conoscenze fondamentali di uno psicologo clinico. A confondere ulteriormente le cose, vi sono oggi dei tentativi di ipersemplificazione nell’interpretazione della sofferenza psicologica quale risposta (ovviamente errata) alla complessità e irriducibilità inerente i fenomeni umani. Mi riferisco al ripiegamento sulla nosografia come elemento unificante della Psicologia Clinica e al ritorno del massiccio investimento sulle spiegazioni organiche (o organiciste) favorito dall’impressionante sviluppo delle neuroscienze. Nel primo caso assistiamo ad una Psicologia Clinica che, nel peggiore dei casi, baratta l’uomo e la sua sofferenza (elementi che costituiscono, lo ricordo ai colleghi un po’ distratti, la ragione del nostro esistere) con un elenco di categorie sintomatiche e con una banalizzazione dei meccanismi esplicativi che favoriscono lo sviluppo del disagio psicologico. Di qua davvero non si va da nessuna parte, anche se ho pochi dubbi sul fatto che sia più facile fare l’elenco dei sintomi depressivi piuttosto che tentare di spiegare (agli studenti, per esempio) in cosa consiste il dolore psicologico legato allo stato di prostrazione, vuoto e disperazione di una persona che è sprofondata in un buco nero senza ieri, oggi o domani. Nel secondo caso si prende a prestito il mantra della “Psicologia come Scienza” (stiracchiato qua e là, al solito, a seconda degli interessi del momento) e si risolve il mistero della sofferenza umana con il riferimento al malfunzionamento di ipotetici circuiti cerebrali, capitalizzando sulla presunta maggiore chiarezza della terminologia di stampo medico e sulla superiorità esplicativa (sic!) delle spiegazioni organiche. Vorrei essere chiaro però su questo punto. La maggior parte dei neuroscienziati fa il proprio mestiere: sono alcuni psicologici clinici che si sono dimenticati di come si fa il loro. Come se ne esce? Il volume di Castonguay e Oltmanns mi sembra proponga un punto di vista interessante, in quanto riconosce la complessità dell’essere umano ma non china il capo di fronte all’immensa sfida di darne una spiegazione. Ho conosciuto gli autori in occasione di qualche seminario clinico che ho frequentato negli Stati Uniti e sono rimasto colpito dalla loro scelta di ricorrere alla integrazione di varie nozioni e meccanismi allo scopo di essere davvero di aiuto ai pazienti. Questo è il “filo rosso” del volume che ho il piacere di presentare: non l’adesione a modelli predefiniti, non la stanca ripetizione di formule e concetti mai verificati fino in fondo ma la volontà esplicita di essere utili ai pazienti, il desiderio ultimo, credo, di ogni psicologo clinico. Tale obiettivo è perseguito con un apparente semplice stratagemma: chiedere agli esperti di un determinato problema o disturbo di illustrare i principi che guidano il trattamento senza legarli ad un approccio teorico specifico; in altre parole, indicare la strada lasciando libero il clinico (così come dovrebbe essere) di scegliere il mezzo più consono per percorrerla. A questo proposito, invito i lettori a consultare con grande attenzione l’ultimo capitolo del volume: in tutta la mia carriera non ho mai visto sintetizzare in maniera così semplice ed efficace gli elementi chiave di cui lo psicologo clinico dovrebbe tenere conto nell’affrontare il disagio umano. Ma lo sforzo di integrazione degli autori non finisce qui. Infatti, il loro manuale è innanzitutto un “classico” manuale di Psicologia Clinica, modernissimo e aggiornato. Descrive le sindromi principali, fornisce dati epidemiologici, i problemi associati a ciascuna sindrome, l’eziologia, i fattori socio-culturali collegati e, come già ricordato, gli elementi principali sui quali si dovrebbe focalizzare il trattamento. Interessantissimi e certamente nuovi, i capitoli dedicati rispettivamente ai sintomi positivi della schizofrenia e ai conflitti di coppia. Nel primo caso è da apprezzare il taglio finalizzato a smantellare la nomea di incomprensibilità di allucinazioni e deliri: i fenomenologi non potranno che essere grati a questi autori. Nel secondo, viene ribadita la necessità di valutare sempre la vita di relazione delle persone: come viene sottolineato è impressionante quanto poco siano trattati questi problemi a fronte del disagio che causano. Gli autori, inoltre, non disdegnano, coerentemente al loro progetto, il confronto con la nosografia e le neuroscienze ma non cadono negli errori descritti in precedenza: cercano di prendere il meglio di queste posizioni, sottolineandone contemporaneamente i limiti e i difetti. In definitiva, il volume di Castonguay e Oltmanns non cade nel comune errore di appiattire l’illustrazione della sofferenza umana scegliendo la facile strada del paradigma incontestato o della semplicistica spiegazione. Sono queste caratteristiche che mi hanno spinto, assieme alla collega Antonella Orsucci e al sostegno di Raffaello Cortina e della sua redazione, a intraprendere il complicato lavoro di traduzione e adattamento di questo libro. Credo che il messaggio più importante contenuto in questo volume sia che tollerare la complessità, l’ambiguità, l’irriducibilità e la difficoltà costituisce l’essenza del lavoro dello psicologo clinico: Castonguay e Oltmanns ci offrono un aiuto in più che ci sostiene in questo difficile ruolo. Firenze, 04/01/2016 Claudio SicaI documenti in FLORE sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.