“L’aspirazione al tipo è il primo carattere distintivo della teoria; significa riconoscere a ogni genere di edificio una propria identità”, rappresentata con elementi fissi e ripetuti, “appunto con elementi tipizzati”. E’ questo il primo momento in cui si manifesta la volontà di definire un ordine razionale “per costruire e rendere riconoscibile un aspetto del reale, un’istituzione” . E l’ospedale è soprattutto un’istituzione per la quale dovrebbero sempre essere evidenti i temi fondamentali della teoria d’architettura. La connessione “tipologia–morfologia” (cioè il rapporto architettura - città), l’aspetto della costruzione come definizione degli elementi solo necessari e la questione dell’appropriatezza del linguaggio . Sul primo tema è da rilevare come l’inserimento delle opere ospedaliere nel territorio è strumentale per il recupero e la rivitalizzazione di quella parte di città su cui insiste la struttura. Tale attenzione è disattesa, nella stragrande maggioranza dei casi, per una duplice serie di motivazioni. Da un lato la progettazione di tali opere è stata ed è affidata ai cosiddetti specialisti di settore che in nome di esigenze specificatamente peculiari, contribuiscono alla concretizzazione di quei volumi amorfi e indifferenziati che tanta responsabilità hanno avuto e hanno nei confronti della qualità dell’architettura. Dall’altro la mancanza della costruzione di una base teorica unitaria sui problemi del contesto e in particolare la mai sufficiente presa di coscienza sui risvolti ambientali sempre connessi con l’edificazione di macrostrutture specializzate come l’ospedale, ha impedito, salvo qualche eccezione, la costruzione di un metodo progettuale estensibile al territorio partendo da una tipologia specifica. Sarebbe oltremodo indispensabile riattualizzare il binomio teoria-metodo progettuale, soprattutto in ambito sanitario, per riportare l’attenzione sul concetto di morfologia urbana troppo sovente dato per acquisito o, peggio, per superfluo. Ciò accade non perché tipologia e morfologia avessero mostrato segni di debolezza nei confronti del già teorizzato “principio insediativo” ma in nome di esigenze funzionali che finiscono per assumere ruolo inessenziale nei riguardi della morfologia e ruolo marginale anche per la composizione architettonica del manufatto (il variare temporale dell’esigenza funzionale finisce con il compromettere la scelta iniziale indipendentemente dalla maggiore o minore flessibilità d’uso del tipo edilizio). L’importanza troppo sovente elusa di questo aspetto risiede nel fatto che l’intervento progettuale a carattere ospedaliero si inserisce a pieno titolo, e in un gran numero di casi, nel più ampio capitolo del “restauro urbano”. I progetti, e successivamente le realizzazioni, riguarderanno l’edificazione di nuovi complessi o il miglioramento e il completamento di complessi esistenti. Si concretizzeranno in forme che dovrebbero essere sostenute da necessità ineludibili che nulla hanno a che vedere con le cosiddette esigenze funzionali che, secondo taluni, dovrebbero costituire da sole il back ground del progetto. In altri termini se non è impossibile trovare una struttura ospedaliera che funzioni, che non significa peraltro che soddisfi in ogni parte i suoi operatori (ma all’architettura poco dovrebbero importare le logiche di potere all’interno di tali strutture), è difficile trovarne una la cui tipologia complessiva sia in sintonia con la morfologia urbana preesistente, e ancor più difficile trovarne una la cui morfologia si possa porre come momento di sintesi di un processo analitico più generale di cui il progetto specifico costituisce solo l’atto finale. L’esempio brunelleschiano dell’Ospedale degli Innocenti, del primo quattrocento fiorentino, costituisce ancor oggi la migliore sintesi tra progetto architettonico e inserimento urbanistico, ossia tra specificità del tema e morfologia urbana. Il celebre porticato (costituito dalla ripetizione di elementi fissi e ripetuti con la tipizzazione del “dado” brunelleschiano), vero e proprio filtro tra città dei sani e città dei malati con la sottostante gradinata “albertiana” di cerniera e di raccordo tra la piazza urbana e la struttura specializzata, sono allineati lungo l’asse, visivo e ideale, coincidente con via dei Servi, di congiunzione tra la Chiesa dell’Annunziata e la Cupola del Duomo. Attenzioni così forti per rapportare una tipologia edilizia specializzata a una morfologia complessiva per sua natura non specializzata, difficilmente sono state poste in essere nel disciplinare moderno delle costruzioni ospedaliere. Per esse ha sempre funzionato l’alibi, ormai insostenibile, che le forme architettoniche prodotte da esigenze così complesse dovrebbero essere accettate tout court in nome di quelle già ampiamente citate esigenze funzionali che da sole comunque disattendono le esigenze dell’architettura e le istanze dell’urbanistica. Situazione non più accettabile perché causa di ulteriore impauperimento della qualità urbana a fronte di un impiego di risorse sempre più consistente. L’unico parametro di riferimento era, e alla fine lo è ancora in molti casi, la cosiddetta forma tipologica istituzionale che trova le proprie motivazioni storiche indietro nel tempo. Come il modello di Bentham per il “Panopticon”, un tipo di carcere ideale che diede origine a un’ampia serie di istituzioni vittoriane senza preoccupazione per il contesto. E’ la storia della composizione architettonica non solo dell’ospedale generale ma anche dell’ospedale psichiatrico e del carcere. Tali forme istituzionali si riproducono infatti secondo vicende parallele perchè la loro matrice comune è quella del controllo esclusivo della tutela della salute fisica (ospedale generale), della salute mentale (ospedale psichiatrico) o del più ampio ventaglio dei comportamenti (carcere). Le eccezioni non mancano e sono quelle in cui le complessità gestionali e funzionali (l’ospedale è forse il tema più complesso per l’architetto) sono sempre e comunque sottomesse alle esigenze dell’architettura. Per quanto concerne l’aspetto della costruzione non ci è possibile soffermare. Sul terzo tema, invece, quello dell’appropriatezza del linguaggio, vale la pena di accennare alle problematiche dell’involucro nelle sue membrature esterne. “Ogni teoria del rivestimento da Semper a Ungers ha sostenuto che la ricchezza è variabilità compositiva nel progetto della facciata e proviene dalla doppia possibilità concessa all’architetto: quella di rivestire per occultare e quella opposta di rivestire per chiarire la reale struttura tettonica dell’edificio” . Situazione che si ritrova costantemente nelle mutazioni del linguaggio architettonico. Dal rivestimento in pietra o in laterizio, talvolta intonacato, dalla differenza tra ciiò che è portante e ciò che è portato sino alla contemporanea evoluzione dei materiali che ha prodotto un utilizzo dell’involucro come membrana sensibile. Si è assistito al passaggio da involucri semplici a involucri sempre più complessi e performanti per meglio aderire a oggettive esigenze di risparmio energetico, di isolamento termico, di attenzione dialettica ai temi dlla luce, di resistenza alle azioni sismiche, di curabilità dei paramenti per conetnere le opere manutentive, ecc., di scelta dell’involucro in rapporto alle preesistenze (naturali e artificiali), di legame con l’architettura prossima e conseguentemente ancora una volta (è il primo tema) di rapporto architettura-città. Ognuno di questi punti sommariamente indicati è stato tradotto dai diversi autori in una molteplicità di declinazioni (involucri “classici”, “vivi”, “multimediali”, all’interno dei quali un gran ventaglio di tecnologie per isolamento, di facciate ventilate, di sistemi grigliati, di frangisole in laterizio, metallo ecc., tessuti in plastica, in lamiera sottile, in fibra di vetro, pannelli in resina di ogni genere (traslucida o opaca), vetro (nelle svariate e quasi infinite gamme tipologiche), ecc. Ognuna delle quali, ovviamente, con costi di realizzazione differenti. Pure la tipologia ospedaliera non è stata immune a questo tipo di ricerca, e gli esempi di strutture presenti in queste pagine vanno a direzione di approfondire in maniera concreta gli enunciati sopraesposti, riuscendo a evidenziare (per usare la metafora di Carlos Martì Arìs) la relazione che esiste tra “centina” e “arco” in un processo costruttivo, analoga a quella che si dovrebbe stabilire tra “teoria” e “pratica” nel progetto di architettura. La centina è una costruzione ausiliaria strumentale alla realizzazione dell’arco ma destinata a scomparire discretamente. Si deve riscoprire, soprattutto in ambito ospedaliero, un sistema di norme razionali derivate dall’apparato teorico dell’architettura in grado di garantire che la forma dell’ospedale sia rappresentativa dell’identità dell’edificio nell’approfondimento del rapporto forma-destinazione. Nessuno mette in dubbio che l’ospedale debba funzionare e osservare le normative, ma la riappropriazione della teoria e della pratica architettonica è, per questa tipologia, urgente e indilazionabile.

"Ospedali tra teoria e pratica architettonica" in Costruire in Laterizio n. 182, marzo 2020 / Alberto Manfredini. - In: COSTRUIRE IN LATERIZIO. - ISSN 0394-1590. - STAMPA. - (2020), pp. 12-13.

"Ospedali tra teoria e pratica architettonica" in Costruire in Laterizio n. 182, marzo 2020

Alberto Manfredini
2020

Abstract

“L’aspirazione al tipo è il primo carattere distintivo della teoria; significa riconoscere a ogni genere di edificio una propria identità”, rappresentata con elementi fissi e ripetuti, “appunto con elementi tipizzati”. E’ questo il primo momento in cui si manifesta la volontà di definire un ordine razionale “per costruire e rendere riconoscibile un aspetto del reale, un’istituzione” . E l’ospedale è soprattutto un’istituzione per la quale dovrebbero sempre essere evidenti i temi fondamentali della teoria d’architettura. La connessione “tipologia–morfologia” (cioè il rapporto architettura - città), l’aspetto della costruzione come definizione degli elementi solo necessari e la questione dell’appropriatezza del linguaggio . Sul primo tema è da rilevare come l’inserimento delle opere ospedaliere nel territorio è strumentale per il recupero e la rivitalizzazione di quella parte di città su cui insiste la struttura. Tale attenzione è disattesa, nella stragrande maggioranza dei casi, per una duplice serie di motivazioni. Da un lato la progettazione di tali opere è stata ed è affidata ai cosiddetti specialisti di settore che in nome di esigenze specificatamente peculiari, contribuiscono alla concretizzazione di quei volumi amorfi e indifferenziati che tanta responsabilità hanno avuto e hanno nei confronti della qualità dell’architettura. Dall’altro la mancanza della costruzione di una base teorica unitaria sui problemi del contesto e in particolare la mai sufficiente presa di coscienza sui risvolti ambientali sempre connessi con l’edificazione di macrostrutture specializzate come l’ospedale, ha impedito, salvo qualche eccezione, la costruzione di un metodo progettuale estensibile al territorio partendo da una tipologia specifica. Sarebbe oltremodo indispensabile riattualizzare il binomio teoria-metodo progettuale, soprattutto in ambito sanitario, per riportare l’attenzione sul concetto di morfologia urbana troppo sovente dato per acquisito o, peggio, per superfluo. Ciò accade non perché tipologia e morfologia avessero mostrato segni di debolezza nei confronti del già teorizzato “principio insediativo” ma in nome di esigenze funzionali che finiscono per assumere ruolo inessenziale nei riguardi della morfologia e ruolo marginale anche per la composizione architettonica del manufatto (il variare temporale dell’esigenza funzionale finisce con il compromettere la scelta iniziale indipendentemente dalla maggiore o minore flessibilità d’uso del tipo edilizio). L’importanza troppo sovente elusa di questo aspetto risiede nel fatto che l’intervento progettuale a carattere ospedaliero si inserisce a pieno titolo, e in un gran numero di casi, nel più ampio capitolo del “restauro urbano”. I progetti, e successivamente le realizzazioni, riguarderanno l’edificazione di nuovi complessi o il miglioramento e il completamento di complessi esistenti. Si concretizzeranno in forme che dovrebbero essere sostenute da necessità ineludibili che nulla hanno a che vedere con le cosiddette esigenze funzionali che, secondo taluni, dovrebbero costituire da sole il back ground del progetto. In altri termini se non è impossibile trovare una struttura ospedaliera che funzioni, che non significa peraltro che soddisfi in ogni parte i suoi operatori (ma all’architettura poco dovrebbero importare le logiche di potere all’interno di tali strutture), è difficile trovarne una la cui tipologia complessiva sia in sintonia con la morfologia urbana preesistente, e ancor più difficile trovarne una la cui morfologia si possa porre come momento di sintesi di un processo analitico più generale di cui il progetto specifico costituisce solo l’atto finale. L’esempio brunelleschiano dell’Ospedale degli Innocenti, del primo quattrocento fiorentino, costituisce ancor oggi la migliore sintesi tra progetto architettonico e inserimento urbanistico, ossia tra specificità del tema e morfologia urbana. Il celebre porticato (costituito dalla ripetizione di elementi fissi e ripetuti con la tipizzazione del “dado” brunelleschiano), vero e proprio filtro tra città dei sani e città dei malati con la sottostante gradinata “albertiana” di cerniera e di raccordo tra la piazza urbana e la struttura specializzata, sono allineati lungo l’asse, visivo e ideale, coincidente con via dei Servi, di congiunzione tra la Chiesa dell’Annunziata e la Cupola del Duomo. Attenzioni così forti per rapportare una tipologia edilizia specializzata a una morfologia complessiva per sua natura non specializzata, difficilmente sono state poste in essere nel disciplinare moderno delle costruzioni ospedaliere. Per esse ha sempre funzionato l’alibi, ormai insostenibile, che le forme architettoniche prodotte da esigenze così complesse dovrebbero essere accettate tout court in nome di quelle già ampiamente citate esigenze funzionali che da sole comunque disattendono le esigenze dell’architettura e le istanze dell’urbanistica. Situazione non più accettabile perché causa di ulteriore impauperimento della qualità urbana a fronte di un impiego di risorse sempre più consistente. L’unico parametro di riferimento era, e alla fine lo è ancora in molti casi, la cosiddetta forma tipologica istituzionale che trova le proprie motivazioni storiche indietro nel tempo. Come il modello di Bentham per il “Panopticon”, un tipo di carcere ideale che diede origine a un’ampia serie di istituzioni vittoriane senza preoccupazione per il contesto. E’ la storia della composizione architettonica non solo dell’ospedale generale ma anche dell’ospedale psichiatrico e del carcere. Tali forme istituzionali si riproducono infatti secondo vicende parallele perchè la loro matrice comune è quella del controllo esclusivo della tutela della salute fisica (ospedale generale), della salute mentale (ospedale psichiatrico) o del più ampio ventaglio dei comportamenti (carcere). Le eccezioni non mancano e sono quelle in cui le complessità gestionali e funzionali (l’ospedale è forse il tema più complesso per l’architetto) sono sempre e comunque sottomesse alle esigenze dell’architettura. Per quanto concerne l’aspetto della costruzione non ci è possibile soffermare. Sul terzo tema, invece, quello dell’appropriatezza del linguaggio, vale la pena di accennare alle problematiche dell’involucro nelle sue membrature esterne. “Ogni teoria del rivestimento da Semper a Ungers ha sostenuto che la ricchezza è variabilità compositiva nel progetto della facciata e proviene dalla doppia possibilità concessa all’architetto: quella di rivestire per occultare e quella opposta di rivestire per chiarire la reale struttura tettonica dell’edificio” . Situazione che si ritrova costantemente nelle mutazioni del linguaggio architettonico. Dal rivestimento in pietra o in laterizio, talvolta intonacato, dalla differenza tra ciiò che è portante e ciò che è portato sino alla contemporanea evoluzione dei materiali che ha prodotto un utilizzo dell’involucro come membrana sensibile. Si è assistito al passaggio da involucri semplici a involucri sempre più complessi e performanti per meglio aderire a oggettive esigenze di risparmio energetico, di isolamento termico, di attenzione dialettica ai temi dlla luce, di resistenza alle azioni sismiche, di curabilità dei paramenti per conetnere le opere manutentive, ecc., di scelta dell’involucro in rapporto alle preesistenze (naturali e artificiali), di legame con l’architettura prossima e conseguentemente ancora una volta (è il primo tema) di rapporto architettura-città. Ognuno di questi punti sommariamente indicati è stato tradotto dai diversi autori in una molteplicità di declinazioni (involucri “classici”, “vivi”, “multimediali”, all’interno dei quali un gran ventaglio di tecnologie per isolamento, di facciate ventilate, di sistemi grigliati, di frangisole in laterizio, metallo ecc., tessuti in plastica, in lamiera sottile, in fibra di vetro, pannelli in resina di ogni genere (traslucida o opaca), vetro (nelle svariate e quasi infinite gamme tipologiche), ecc. Ognuna delle quali, ovviamente, con costi di realizzazione differenti. Pure la tipologia ospedaliera non è stata immune a questo tipo di ricerca, e gli esempi di strutture presenti in queste pagine vanno a direzione di approfondire in maniera concreta gli enunciati sopraesposti, riuscendo a evidenziare (per usare la metafora di Carlos Martì Arìs) la relazione che esiste tra “centina” e “arco” in un processo costruttivo, analoga a quella che si dovrebbe stabilire tra “teoria” e “pratica” nel progetto di architettura. La centina è una costruzione ausiliaria strumentale alla realizzazione dell’arco ma destinata a scomparire discretamente. Si deve riscoprire, soprattutto in ambito ospedaliero, un sistema di norme razionali derivate dall’apparato teorico dell’architettura in grado di garantire che la forma dell’ospedale sia rappresentativa dell’identità dell’edificio nell’approfondimento del rapporto forma-destinazione. Nessuno mette in dubbio che l’ospedale debba funzionare e osservare le normative, ma la riappropriazione della teoria e della pratica architettonica è, per questa tipologia, urgente e indilazionabile.
2020
12
13
Alberto Manfredini
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