Màschera o, anticamente, màscara: di etimologia incerta, forse da una voce preindoeuropea masca ‘fuliggine, fantasma nero’. Stando allo Zingarelli 2022, la parola oggi è impiegata in primis con il significato di ‘finto volto fatto di vario materiale, generalmente provvisto di fori per gli occhi e per la bocca, che viene portato per alterare i lineamenti o per non farsi riconoscere, specialmente per motivi rituali, di spettacolo oppure per divertimento e simili’; in tempi di pandemia, è aumentata a dismisura la nostra familiarità con la mascherina, ossia il ‘piccolo schermo di tela o altro materiale applicato davanti al naso e alla bocca per proteggere dalle infezioni, dalla polvere, eccetera’. A scorrere gli altri, numerosi significati del termine, emerge in maniera piuttosto chiara che a maschera vengono sovente assegnati significati tendenti al negativo. Nella vulgata, se una persona porta una maschera, vuol dire che non è sincera, che si nasconde, che non mostra le sue vere sembianze. Nel capolavoro di Neil Gaiman “Sandman”, in un episodio intitolato “Façade”, la protagonista, Urania “Rainie” Blackwell, una ex eroina conosciuta all’apice della sua carriera con il nome di Element Girl, non può uscire di casa se non con delle facce finte, giacché il suo vero viso spaventerebbe i passanti. Incapace di gettare i volti usati, li conserva in casa, usandoli come portacenere. Urania è profondamente infelice, incapace com’è di morire (essendo fatta di elementi eterni), e vive la necessità di indossare della facce finte come una vera e propria condanna. Spesso, al di là dell’estremizzazione della finzione, anche noi esseri umani pensiamo che portare delle maschere sia una limitazione, non una parte normale delle nostre vite. Il sociologo Erving Goffman, nel suo importantissimo testo degli anni Cinquanta “La vita quotidiana come rappresentazione”, afferma invece che noi esseri umani viviamo all’interno della società indossando continuamente delle maschere. Le variamo a seconda del contesto, delle persone con cui interagiamo, dei risultati che vogliamo ottenere, e spesso non le dismettiamo nemmeno guardandoci allo specchio: indossiamo maschere anche davanti a noi stessi. La vita come perenne recita teatrale, insomma. Per me, la risposta alla sofferenza di Rainie, e forse ciò a cui dovremmo tendere, non è dismettere ogni mascheramento, tendendo alla sincerità e trasparenza assolute, anche se molte persone sembrano pensarlo (come se indossare una maschera corrispondesse per forza a non essere sinceri); ma se ciò, come ci dice Goffman, non è possibile, non è piuttosto il caso di chiedersi come far convivere il nostro set di visi posticci con ciò che siamo dietro a essi? La mia idea è che non siano le façade il problema – anzi, sono pressoché necessarie per relazionarsi con le altre persone all’interno della società – quanto piuttosto l’eventuale eccessiva distanza tra esse e ciò che siamo. Il punto centrale è tenere ben presente chi siamo dietro alle coperture, in modo da mantenere un certo isomorfismo tra il nostro io e queste ultime: rimanere in controllo delle nostre maschere, non caderne in balia.

Mà-sche-ra / Vera Gheno. - In: LA CHIAVE DI SOPHIA. - ISSN 2531-954X. - STAMPA. - 17:(2022), pp. 22-22.

Mà-sche-ra

Vera Gheno
2022

Abstract

Màschera o, anticamente, màscara: di etimologia incerta, forse da una voce preindoeuropea masca ‘fuliggine, fantasma nero’. Stando allo Zingarelli 2022, la parola oggi è impiegata in primis con il significato di ‘finto volto fatto di vario materiale, generalmente provvisto di fori per gli occhi e per la bocca, che viene portato per alterare i lineamenti o per non farsi riconoscere, specialmente per motivi rituali, di spettacolo oppure per divertimento e simili’; in tempi di pandemia, è aumentata a dismisura la nostra familiarità con la mascherina, ossia il ‘piccolo schermo di tela o altro materiale applicato davanti al naso e alla bocca per proteggere dalle infezioni, dalla polvere, eccetera’. A scorrere gli altri, numerosi significati del termine, emerge in maniera piuttosto chiara che a maschera vengono sovente assegnati significati tendenti al negativo. Nella vulgata, se una persona porta una maschera, vuol dire che non è sincera, che si nasconde, che non mostra le sue vere sembianze. Nel capolavoro di Neil Gaiman “Sandman”, in un episodio intitolato “Façade”, la protagonista, Urania “Rainie” Blackwell, una ex eroina conosciuta all’apice della sua carriera con il nome di Element Girl, non può uscire di casa se non con delle facce finte, giacché il suo vero viso spaventerebbe i passanti. Incapace di gettare i volti usati, li conserva in casa, usandoli come portacenere. Urania è profondamente infelice, incapace com’è di morire (essendo fatta di elementi eterni), e vive la necessità di indossare della facce finte come una vera e propria condanna. Spesso, al di là dell’estremizzazione della finzione, anche noi esseri umani pensiamo che portare delle maschere sia una limitazione, non una parte normale delle nostre vite. Il sociologo Erving Goffman, nel suo importantissimo testo degli anni Cinquanta “La vita quotidiana come rappresentazione”, afferma invece che noi esseri umani viviamo all’interno della società indossando continuamente delle maschere. Le variamo a seconda del contesto, delle persone con cui interagiamo, dei risultati che vogliamo ottenere, e spesso non le dismettiamo nemmeno guardandoci allo specchio: indossiamo maschere anche davanti a noi stessi. La vita come perenne recita teatrale, insomma. Per me, la risposta alla sofferenza di Rainie, e forse ciò a cui dovremmo tendere, non è dismettere ogni mascheramento, tendendo alla sincerità e trasparenza assolute, anche se molte persone sembrano pensarlo (come se indossare una maschera corrispondesse per forza a non essere sinceri); ma se ciò, come ci dice Goffman, non è possibile, non è piuttosto il caso di chiedersi come far convivere il nostro set di visi posticci con ciò che siamo dietro a essi? La mia idea è che non siano le façade il problema – anzi, sono pressoché necessarie per relazionarsi con le altre persone all’interno della società – quanto piuttosto l’eventuale eccessiva distanza tra esse e ciò che siamo. Il punto centrale è tenere ben presente chi siamo dietro alle coperture, in modo da mantenere un certo isomorfismo tra il nostro io e queste ultime: rimanere in controllo delle nostre maschere, non caderne in balia.
2022
17
22
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Vera Gheno
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