Sicurezza: dal latino securum, da se(d) ‘senza’ cura ‘preoccupazione’. Dunque, sentirsi sicuri vuol dire essere privi di preoccupazioni, spensierati. Vuol dire non avere paura, non temere per la propria vita e per il proprio benessere. Ma sicuri rispetto a chi, a cosa? Spesso, rispetto agli altri, a chi potrebbe farci del male. E chi sono questi altri? Il modo migliore per individuarli è notare ciò che ci differenzia, ci divide. Guardarsi dallo xénos, da chi non si conosce, se non riconoscendolo come diverso da sé (perché ha la pelle nera, o gli occhi a mandorla, o ha una disabilità o una neurotipicità; perché ha un corpo non conforme, perché porta su di sé i segni della povertà; perché non è eterosessuale e non è cisgender, cioè non si riconosce nel sesso biologico assegnato alla nascita; perché non parla la nostra lingua, o perché si copre i capelli per questioni religiose) è naturale, nel senso che nell’essere umano esiste una potente parte biologica programmata per provare avversione per la diversità e per considerarla come potenziale fonte di pericolo. La xenofobia è connaturata all’umano perché risale a un momento evolutivo in cui l’altro era davvero soprattutto fonte di guai. E così, sopravvivendo all’evoluzione, quel pezzettino di istinto ci sussurra – o ci urla – di guardarci dall’altro. L’operazione di othering, o altrizzazione, permette contemporaneamente di individuare il nemico, ma anche di sollevarsi da ogni responsabilità: sono gli altri a essere diversi, non è mica colpa mia. Io sono una mera vittima di questa situazione. Sono gli altri a essere cattivi, a sbagliare, a fare affermazioni pericolose, a essere ignoranti. Sono loro a sbagliare, non io. Se si alimenta una psicosi collettiva – basata su un sentire istintivo – che altrizza il problema della sicurezza, che gli dà un nome, lo identifica nell’altro da sé, inevitabilmente ci scopriremo in un mondo di nemici; contro i quali, ovviamente, va fatta una guerra. Bisogna difendersi, bisogna scendere in trincea, bisogna resistere all’invasione. Ecco che si viene a creare, quasi senza accorgercene e grazie a un linguaggio esplicitamente bellico, uno stato di insicurezza perenne. All’inizio della pandemia da COVID-19, i primi – di una lunga sequela, a oggi non conclusa – a venire altrizzati furono i cinesi. Non importa se persone di seconda o terza generazione, che magari la Cina l’avevano vista al massimo in un documentario; il solo fatto di essere cinesi bastava per additarli come untori (figura, ricordo, leggendaria, ma la cui esistenza non è mai stata confermata storicamente: non ci sono prove del fatto che esistessero persone che andavano in giro a ungere le porte con un unguento infetto, in modo da spargere il contagio della peste bubbonica). Mi trovavo, in quei giorni, in giro per scuole del territorio fiorentino. In una di queste, presenti in aula alcuni ragazzi di origine asiatica, nacque una discussione: “Non capisco”, commentava un ragazzino bianco, “il senso di prendersela con un cinese a caso: mica sono stati tutti in Cina”. “Ma è semplice”, rispose uno dei ragazzini cinesi; “siamo identificabili”. A dodici anni, aveva già compreso il senso dell’othering, ma anche di essere lui, il diverso. Ma diverso rispetto a chi, a cosa? L’altrizzazione funziona dunque in modo ottimale quando la differenza è evidente. E quella differenza è tale rispetto a una presunta “normalità”, che è a sua volta definita in maniera assolutamente aleatoria. I “normali” non ritengono di avere bisogno di etichette, ma le applicano ai “diversi”. I “normali” si spingono al punto di decidere per cosa dovrebbero e non dovrebbero offendersi i “diversi” (per esempio, se due comici bianchi ed eterosessuali vanno in televisione a usare i termini ne*ro e fro*io, hanno il potere di spiegare alle persone a cui vengono abitualmente rivolti quegli epiteti che no, non c’è alcun motivo per offendersi, perché le intenzioni non sono quelle. Vaglielo a spiegare che cosa voglia dire sentirsele dire tutti i giorni, quelle parole. Vai a spiegare loro cosa significhi il concetto di microaggressione). La linguista e attivista tedesca di origine turka Kübra Gümüsay descrive così il “museo della lingua”: ci sono gli innominati – i normali – che gironzolano liberamente e gaiamemte per il museo e guardano i nominati sistemati dentro alle teche, etichettati in modo da essere facilmente riconoscibili. E finché gli altri stanno belli tranquilli nelle teche che gli innominati hanno preparato per loro, tutto pare funzionare in maniera ottimale. Siamo sicuri, siamo al sicuro. Sine cura. Se, però, i nominati iniziano ad agitarsi, ecco che ci sono agitazioni, tafferugli; la sicurezza è messa a rischio. Ma la sicurezza di chi, se non di quella piccola parte di presunti “normali” la cui tranquillità, a ben guardare, era preservata a scapito del benessere di tutti gli altri? Personalmente, io non ci sto, come diceva in un altro tempo Oscar Luigi Scalfaro. Rifuggo una società in cui la sicurezza sembra essere esclusivo appannaggio di una minoranza; priva di particolari meriti, ma che possiede caratteristiche intrinseche definite in maniera del tutto aleatoria. Occorre superare il paradigma di una società normocentrica, in cui chi non corrisponde ai parametri di una presunta normalità è di per sé un pericolo per la “sicurezza pubblica”. Se non altro, perché potrebbe esserci un momento in cui improvvisamente si modifica il paradigma stesso di ciò che è normale, ritrovandosi senza preavviso dalla parte dei diversi, del “pericolo pubblico”. E allora, perché non ragionare già ora su una società in cui le diversità abbiano il compito di impegnarsi a convivere reciprocamente? I privilegi dei “normali” sono costruiti su basi assai friabili: forse è ora di prenderne atto, invece che cercare spasmodicamente di preservarli. Magari ci si renderebbe finalmente conto che la parte che ci accomuna è molto più grande di quanto ci differenzia.

Quella diversità che ci arricchisce / Vera Gheno. - In: LEFT. - STAMPA. - 42:(2021), pp. 52-53.

Quella diversità che ci arricchisce

Vera Gheno
2021

Abstract

Sicurezza: dal latino securum, da se(d) ‘senza’ cura ‘preoccupazione’. Dunque, sentirsi sicuri vuol dire essere privi di preoccupazioni, spensierati. Vuol dire non avere paura, non temere per la propria vita e per il proprio benessere. Ma sicuri rispetto a chi, a cosa? Spesso, rispetto agli altri, a chi potrebbe farci del male. E chi sono questi altri? Il modo migliore per individuarli è notare ciò che ci differenzia, ci divide. Guardarsi dallo xénos, da chi non si conosce, se non riconoscendolo come diverso da sé (perché ha la pelle nera, o gli occhi a mandorla, o ha una disabilità o una neurotipicità; perché ha un corpo non conforme, perché porta su di sé i segni della povertà; perché non è eterosessuale e non è cisgender, cioè non si riconosce nel sesso biologico assegnato alla nascita; perché non parla la nostra lingua, o perché si copre i capelli per questioni religiose) è naturale, nel senso che nell’essere umano esiste una potente parte biologica programmata per provare avversione per la diversità e per considerarla come potenziale fonte di pericolo. La xenofobia è connaturata all’umano perché risale a un momento evolutivo in cui l’altro era davvero soprattutto fonte di guai. E così, sopravvivendo all’evoluzione, quel pezzettino di istinto ci sussurra – o ci urla – di guardarci dall’altro. L’operazione di othering, o altrizzazione, permette contemporaneamente di individuare il nemico, ma anche di sollevarsi da ogni responsabilità: sono gli altri a essere diversi, non è mica colpa mia. Io sono una mera vittima di questa situazione. Sono gli altri a essere cattivi, a sbagliare, a fare affermazioni pericolose, a essere ignoranti. Sono loro a sbagliare, non io. Se si alimenta una psicosi collettiva – basata su un sentire istintivo – che altrizza il problema della sicurezza, che gli dà un nome, lo identifica nell’altro da sé, inevitabilmente ci scopriremo in un mondo di nemici; contro i quali, ovviamente, va fatta una guerra. Bisogna difendersi, bisogna scendere in trincea, bisogna resistere all’invasione. Ecco che si viene a creare, quasi senza accorgercene e grazie a un linguaggio esplicitamente bellico, uno stato di insicurezza perenne. All’inizio della pandemia da COVID-19, i primi – di una lunga sequela, a oggi non conclusa – a venire altrizzati furono i cinesi. Non importa se persone di seconda o terza generazione, che magari la Cina l’avevano vista al massimo in un documentario; il solo fatto di essere cinesi bastava per additarli come untori (figura, ricordo, leggendaria, ma la cui esistenza non è mai stata confermata storicamente: non ci sono prove del fatto che esistessero persone che andavano in giro a ungere le porte con un unguento infetto, in modo da spargere il contagio della peste bubbonica). Mi trovavo, in quei giorni, in giro per scuole del territorio fiorentino. In una di queste, presenti in aula alcuni ragazzi di origine asiatica, nacque una discussione: “Non capisco”, commentava un ragazzino bianco, “il senso di prendersela con un cinese a caso: mica sono stati tutti in Cina”. “Ma è semplice”, rispose uno dei ragazzini cinesi; “siamo identificabili”. A dodici anni, aveva già compreso il senso dell’othering, ma anche di essere lui, il diverso. Ma diverso rispetto a chi, a cosa? L’altrizzazione funziona dunque in modo ottimale quando la differenza è evidente. E quella differenza è tale rispetto a una presunta “normalità”, che è a sua volta definita in maniera assolutamente aleatoria. I “normali” non ritengono di avere bisogno di etichette, ma le applicano ai “diversi”. I “normali” si spingono al punto di decidere per cosa dovrebbero e non dovrebbero offendersi i “diversi” (per esempio, se due comici bianchi ed eterosessuali vanno in televisione a usare i termini ne*ro e fro*io, hanno il potere di spiegare alle persone a cui vengono abitualmente rivolti quegli epiteti che no, non c’è alcun motivo per offendersi, perché le intenzioni non sono quelle. Vaglielo a spiegare che cosa voglia dire sentirsele dire tutti i giorni, quelle parole. Vai a spiegare loro cosa significhi il concetto di microaggressione). La linguista e attivista tedesca di origine turka Kübra Gümüsay descrive così il “museo della lingua”: ci sono gli innominati – i normali – che gironzolano liberamente e gaiamemte per il museo e guardano i nominati sistemati dentro alle teche, etichettati in modo da essere facilmente riconoscibili. E finché gli altri stanno belli tranquilli nelle teche che gli innominati hanno preparato per loro, tutto pare funzionare in maniera ottimale. Siamo sicuri, siamo al sicuro. Sine cura. Se, però, i nominati iniziano ad agitarsi, ecco che ci sono agitazioni, tafferugli; la sicurezza è messa a rischio. Ma la sicurezza di chi, se non di quella piccola parte di presunti “normali” la cui tranquillità, a ben guardare, era preservata a scapito del benessere di tutti gli altri? Personalmente, io non ci sto, come diceva in un altro tempo Oscar Luigi Scalfaro. Rifuggo una società in cui la sicurezza sembra essere esclusivo appannaggio di una minoranza; priva di particolari meriti, ma che possiede caratteristiche intrinseche definite in maniera del tutto aleatoria. Occorre superare il paradigma di una società normocentrica, in cui chi non corrisponde ai parametri di una presunta normalità è di per sé un pericolo per la “sicurezza pubblica”. Se non altro, perché potrebbe esserci un momento in cui improvvisamente si modifica il paradigma stesso di ciò che è normale, ritrovandosi senza preavviso dalla parte dei diversi, del “pericolo pubblico”. E allora, perché non ragionare già ora su una società in cui le diversità abbiano il compito di impegnarsi a convivere reciprocamente? I privilegi dei “normali” sono costruiti su basi assai friabili: forse è ora di prenderne atto, invece che cercare spasmodicamente di preservarli. Magari ci si renderebbe finalmente conto che la parte che ci accomuna è molto più grande di quanto ci differenzia.
2021
42
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53
Vera Gheno
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258435
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