Il 25 aprile ricorrono i centodieci anni dalla morte di Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari, meglio conosciuto semplicemente come Emilio Salgari, nato a Verona il 21 agosto 1862 e deceduto a Torino il 25 aprile 1911. Il cognome deriva da un fitònimo (cioè dal nome di una pianta), ossia dalla forma anticamente in uso in Veneto per salice: salgàro o saligàro; motivo per cui l’accentazione corretta è Salgàri, pur essendo molto diffusa quella sdrucciola Sàlgari. Autore di moltissimi libri di avventùra (dal francese aventure, dal latino adventura, participio futuro neutro plurale di advenīre ‘avvenire’, 1261 circa), leggendo i quali sono cresciute generazioni di ragazzi, è ricordato soprattutto per avere creato la Tigre di Mompracem, ossia Sandokan (da molte persone amato con le sembianze dell’attore Kabir Bedi, che ha interpretato l’eroe in svariati film e telefilm). Tra le creazioni della sua fervida immaginazione, nel ciclo dei piràti della Malesia (dal latino pirāta(m), dal gr. peiratḗs, da peirân ‘tentare, assalire’, da pêira ‘tentativo’, di origine indoeuropea, 1313), detto anche ciclo indo-malese per via dell’ambientazione, troviamo, a fianco del protagonista, anche l’avventurièro portoghese (dal francese aventurier, 1571) Yanez de Gomera e il cacciatore bengalese Tremal Naik. Le gesta dei tre si snodano per un periodo di tempo non sempre ben identificabile, con incongruenze temporali dovute alla necessità dell’autore di revisionare in fretta i propri testi a causa dei ristretti tempi di pubblicazione: basti sapere che dal 1883 alla sua morte scrisse 80 romanzi e un centinaio di racconti. Il dato certo, fornito dall’autore stesso, è che le storie hanno inizio nel 1849 in Malesia e continuano all’incirca per venti-trent’anni. Queste imprecisioni, alla fine, contano poco, perché le storie nate dalla fantasìa (dal latino phantăsia(m), dal greco phantasía, da pháinō ‘io mostro’, 1294) di Salgari sono così vivide da far dimenticare anche i salti cronologici. 2020_10_23_lemma_fantasia Il mondo descritto dall’autore veronese è talmente variopinto e vivido da far sembrare quasi incredibile che Salgari non si sia mai mosso dall’Italia; in realtà, tutte le sue ambientazioni sono frutto di letture, studi e approfondimenti compiuti con attenzione meticolosa: una vera e propria geografia della fantasia, arricchita dalla sua immaginazióne (dal latino imaginatiōne(m), da imaginātus, participio passato di imagināre ‘immaginare’, 1268). Salgari, nel corso della sua vita, aveva messo insieme una corposa biblioteca da usare come riferimento per descrivere luoghi, flora, fauna, usi e costumi dei luoghi che poi narrava come se li avesse davvero visitati, come se li avesse visti con i suoi propri occhi. In questo modo, diventò un vero e proprio divulgatore: spesso i suoi libri contengono approfondite digressioni dedicate a una pianta, un animale, un oggetto o magari un’usanza, come in questo brano, tratto dal romanzo La tigre della Malesia (1883), nel quale viene descritto un sagù, un albero dal quale si può trarre una sorta di farina commestibile. È una delle piante più utili che oltre crescere spontaneamente nelle foreste, viene con premura coltivata dagli indigeni, somministrando essa una fecola nutritiva al sommo grado che fa le veci della farina. Non viene molto alta, tre o quattro metri al più, fa parte della gran famiglia delle palme, alle quali occorrono ben sette anni per giungere al loro pieno sviluppo e che amano i luoghi paludosi o almeno umidicci. Il sagù, la sostanza farinosa e piacevole che essa dà e che viene smerciata in gran quantità su tutte le isole della Malesia, non è che la midolla della pianta, bianca di colore, umida, nicchiata fra gl’interstizi di una fitta rete fibrosa, che si taglia a pezzetti rammollendola nell’acqua ottenendone ben un cento o centocinquanta chilogrammi. Era una vera fortuna pel ferito l’incontro di un albero sì prezioso. La polvere biancastra sparsa sulle foglie indicava che la fecola era giunta a perfetta maturanza; nulla di più facile che cibarsene. Proprio grazie a Salgari entrano, in italiano, svariati termini esotici: è con i suoi scritti che facciamo la conoscenza del succitato sagù, ma anche del babirùssa (dal francese babiroussa, dal malese bābī ‘maiale’ e rūs a‘cervo’, 1802), una sorta di piccolo maiale con le zanne che Sandokan sgranocchia arrosto nel romanzo La Tigre della Malesia con grande appetito: «mangiava per due come un uomo che non è sicuro all’indomani di fare il medesimo pasto»; all’autore dobbiamo anche la conoscenza del kriss (dal malese kĕris, di origine giavanese kerés, av. 1636), un corto pugnale a lama serpeggiante, dell’area indo-malese (nota a latere: la prima classe, sui voli della Singapore Airlines, è chiamata Kris Class proprio in riferimento a tale pugnale); anche il praho (voce di origine malese, 1525), una “nave a vela e a remi di vario tipo e lunghezza, maneggevole, veloce, di origine malese”, altro termine registrato nello Zingarelli, è diventato popolare grazie a Salgari: I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì. Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra. Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate. Altrettanto famoso, tra gli scritti di Salgari, è il ciclo dei corsari delle Antille, il cui romanzo più famoso è il primo, Il Corsaro nero. Corsàro, derivato da corsa (dal latino cŭrsu(m), da cŭrrere ‘correre’, av. 1257), originariamente indicava “capitano di nave privata che veniva autorizzato dal proprio Stato a condurre la guerra di corsa”, ma correntemente viene usato anche nel significato di “pirata, filibustiere, bucaniere”. Il Corsaro Nero, protagonista della serie di romanzi salgariana, è Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia, le cui vicende si svolgono alla fine del Seicento. Questi due cicli non esauriscono però la ricchissima produzione del veronese: molti ricorderanno anche I predoni del Sahara (1903), I predoni del Gran Deserto (1911; predóne deriva dal latino praedōne(m), da praedāri ‘predare’, 1313) e Le meraviglie del Duemila (1907), considerato romanzo precursore della fantascienza in Italia. La grandezza di Salgari non venne riconosciuta mentre lui era vivo: veniva considerato uno scrittore nazionalpopolàre (composto nazionale e popolare, 1937 circa, usato nel linguaggio giornalistico per indicare un’opera che asseconda i gusti di un pubblico poco esigente, non di rado con connotazione negativa) e sicuramente lui, nella sua eccentricità, non aiutava la sua stessa causa: la necessità di scrivere tre libri all’anno per stare dietro ai capestri editoriali ai quali si era lui stesso condannato, nonché le sue stranezze comportamentali, contribuirono a relegarlo ai margini del mondo letterario. Il 3 aprile 1897, su proposta della regina Margherita di Savoia, a Salgari venne assegnato il titolo di “Cavalière dell’Ordine della Corona d’Italia” (cavaliere deriva dal provenzale cavalier, dal latino tardo caballāriu(m) ‘palafreniere’, sec. XII). Questo però non bastò a sollevarlo dalle ristrettezze economiche, peggiorate dal fatto che la moglie, Ida Peruzzi, iniziò a dare segni di malattia mentale fino a venire internata in manicomio nel 1910. Sposato il 30 gennaio 1892, lo scrittore ebbe con la moglie, attrice teatrale, quattro figli, i cui nomi testimoniano la sua passione per l’esotìsmo (da esotico, a sua volta dal latino exōticu(m), dal greco exōtikós ‘che viene da fuori (éxō)’, 1499): Fatima, Nadir, Romero e Omar, tutti, peraltro, morti prematuramente. I nervi dello scrittore non ressero allo stress lavorativo e, a causa anche della tragica situazione della moglie, tentò il suicidio una prima volta nel 1909 gettandosi su una spada, in una specie di harakiri (voce giapponese, propriamente‘tagliare (kiri) il ventre (hara)’, 1876); fu salvato in tempo dalla figlia Fatima. Purtroppo, i suoi intenti suicidi riuscirono due anni dopo: martedì 25 aprile 1911 uscì di casa, a Torino, con un rasoio in tasca. Lasciò ai figli indicazioni per trovare il suo cadavere, che venne invece rinvenuto da una giovane donna, Luigia Quirico, andata a fare legna nel bosco sulle colline adiacenti a corso Casale, dove abitava lo scrittore con la sua famiglia. Lo scrittore era morto commettendo, di fatto, seppuku (composto della radice sino-giapponese set(su)– ‘tagliare’ e puku‘ventre’, 1905), in una specie di omaggio estremo al suo orientalìsmo (dal francese orientalisme, da oriental‘orientale’, 1832).

Emilio Salgari: l’uomo che viaggiava con le parole / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2021).

Emilio Salgari: l’uomo che viaggiava con le parole

Vera Gheno
2021

Abstract

Il 25 aprile ricorrono i centodieci anni dalla morte di Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari, meglio conosciuto semplicemente come Emilio Salgari, nato a Verona il 21 agosto 1862 e deceduto a Torino il 25 aprile 1911. Il cognome deriva da un fitònimo (cioè dal nome di una pianta), ossia dalla forma anticamente in uso in Veneto per salice: salgàro o saligàro; motivo per cui l’accentazione corretta è Salgàri, pur essendo molto diffusa quella sdrucciola Sàlgari. Autore di moltissimi libri di avventùra (dal francese aventure, dal latino adventura, participio futuro neutro plurale di advenīre ‘avvenire’, 1261 circa), leggendo i quali sono cresciute generazioni di ragazzi, è ricordato soprattutto per avere creato la Tigre di Mompracem, ossia Sandokan (da molte persone amato con le sembianze dell’attore Kabir Bedi, che ha interpretato l’eroe in svariati film e telefilm). Tra le creazioni della sua fervida immaginazione, nel ciclo dei piràti della Malesia (dal latino pirāta(m), dal gr. peiratḗs, da peirân ‘tentare, assalire’, da pêira ‘tentativo’, di origine indoeuropea, 1313), detto anche ciclo indo-malese per via dell’ambientazione, troviamo, a fianco del protagonista, anche l’avventurièro portoghese (dal francese aventurier, 1571) Yanez de Gomera e il cacciatore bengalese Tremal Naik. Le gesta dei tre si snodano per un periodo di tempo non sempre ben identificabile, con incongruenze temporali dovute alla necessità dell’autore di revisionare in fretta i propri testi a causa dei ristretti tempi di pubblicazione: basti sapere che dal 1883 alla sua morte scrisse 80 romanzi e un centinaio di racconti. Il dato certo, fornito dall’autore stesso, è che le storie hanno inizio nel 1849 in Malesia e continuano all’incirca per venti-trent’anni. Queste imprecisioni, alla fine, contano poco, perché le storie nate dalla fantasìa (dal latino phantăsia(m), dal greco phantasía, da pháinō ‘io mostro’, 1294) di Salgari sono così vivide da far dimenticare anche i salti cronologici. 2020_10_23_lemma_fantasia Il mondo descritto dall’autore veronese è talmente variopinto e vivido da far sembrare quasi incredibile che Salgari non si sia mai mosso dall’Italia; in realtà, tutte le sue ambientazioni sono frutto di letture, studi e approfondimenti compiuti con attenzione meticolosa: una vera e propria geografia della fantasia, arricchita dalla sua immaginazióne (dal latino imaginatiōne(m), da imaginātus, participio passato di imagināre ‘immaginare’, 1268). Salgari, nel corso della sua vita, aveva messo insieme una corposa biblioteca da usare come riferimento per descrivere luoghi, flora, fauna, usi e costumi dei luoghi che poi narrava come se li avesse davvero visitati, come se li avesse visti con i suoi propri occhi. In questo modo, diventò un vero e proprio divulgatore: spesso i suoi libri contengono approfondite digressioni dedicate a una pianta, un animale, un oggetto o magari un’usanza, come in questo brano, tratto dal romanzo La tigre della Malesia (1883), nel quale viene descritto un sagù, un albero dal quale si può trarre una sorta di farina commestibile. È una delle piante più utili che oltre crescere spontaneamente nelle foreste, viene con premura coltivata dagli indigeni, somministrando essa una fecola nutritiva al sommo grado che fa le veci della farina. Non viene molto alta, tre o quattro metri al più, fa parte della gran famiglia delle palme, alle quali occorrono ben sette anni per giungere al loro pieno sviluppo e che amano i luoghi paludosi o almeno umidicci. Il sagù, la sostanza farinosa e piacevole che essa dà e che viene smerciata in gran quantità su tutte le isole della Malesia, non è che la midolla della pianta, bianca di colore, umida, nicchiata fra gl’interstizi di una fitta rete fibrosa, che si taglia a pezzetti rammollendola nell’acqua ottenendone ben un cento o centocinquanta chilogrammi. Era una vera fortuna pel ferito l’incontro di un albero sì prezioso. La polvere biancastra sparsa sulle foglie indicava che la fecola era giunta a perfetta maturanza; nulla di più facile che cibarsene. Proprio grazie a Salgari entrano, in italiano, svariati termini esotici: è con i suoi scritti che facciamo la conoscenza del succitato sagù, ma anche del babirùssa (dal francese babiroussa, dal malese bābī ‘maiale’ e rūs a‘cervo’, 1802), una sorta di piccolo maiale con le zanne che Sandokan sgranocchia arrosto nel romanzo La Tigre della Malesia con grande appetito: «mangiava per due come un uomo che non è sicuro all’indomani di fare il medesimo pasto»; all’autore dobbiamo anche la conoscenza del kriss (dal malese kĕris, di origine giavanese kerés, av. 1636), un corto pugnale a lama serpeggiante, dell’area indo-malese (nota a latere: la prima classe, sui voli della Singapore Airlines, è chiamata Kris Class proprio in riferimento a tale pugnale); anche il praho (voce di origine malese, 1525), una “nave a vela e a remi di vario tipo e lunghezza, maneggevole, veloce, di origine malese”, altro termine registrato nello Zingarelli, è diventato popolare grazie a Salgari: I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì. Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra. Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate. Altrettanto famoso, tra gli scritti di Salgari, è il ciclo dei corsari delle Antille, il cui romanzo più famoso è il primo, Il Corsaro nero. Corsàro, derivato da corsa (dal latino cŭrsu(m), da cŭrrere ‘correre’, av. 1257), originariamente indicava “capitano di nave privata che veniva autorizzato dal proprio Stato a condurre la guerra di corsa”, ma correntemente viene usato anche nel significato di “pirata, filibustiere, bucaniere”. Il Corsaro Nero, protagonista della serie di romanzi salgariana, è Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia, le cui vicende si svolgono alla fine del Seicento. Questi due cicli non esauriscono però la ricchissima produzione del veronese: molti ricorderanno anche I predoni del Sahara (1903), I predoni del Gran Deserto (1911; predóne deriva dal latino praedōne(m), da praedāri ‘predare’, 1313) e Le meraviglie del Duemila (1907), considerato romanzo precursore della fantascienza in Italia. La grandezza di Salgari non venne riconosciuta mentre lui era vivo: veniva considerato uno scrittore nazionalpopolàre (composto nazionale e popolare, 1937 circa, usato nel linguaggio giornalistico per indicare un’opera che asseconda i gusti di un pubblico poco esigente, non di rado con connotazione negativa) e sicuramente lui, nella sua eccentricità, non aiutava la sua stessa causa: la necessità di scrivere tre libri all’anno per stare dietro ai capestri editoriali ai quali si era lui stesso condannato, nonché le sue stranezze comportamentali, contribuirono a relegarlo ai margini del mondo letterario. Il 3 aprile 1897, su proposta della regina Margherita di Savoia, a Salgari venne assegnato il titolo di “Cavalière dell’Ordine della Corona d’Italia” (cavaliere deriva dal provenzale cavalier, dal latino tardo caballāriu(m) ‘palafreniere’, sec. XII). Questo però non bastò a sollevarlo dalle ristrettezze economiche, peggiorate dal fatto che la moglie, Ida Peruzzi, iniziò a dare segni di malattia mentale fino a venire internata in manicomio nel 1910. Sposato il 30 gennaio 1892, lo scrittore ebbe con la moglie, attrice teatrale, quattro figli, i cui nomi testimoniano la sua passione per l’esotìsmo (da esotico, a sua volta dal latino exōticu(m), dal greco exōtikós ‘che viene da fuori (éxō)’, 1499): Fatima, Nadir, Romero e Omar, tutti, peraltro, morti prematuramente. I nervi dello scrittore non ressero allo stress lavorativo e, a causa anche della tragica situazione della moglie, tentò il suicidio una prima volta nel 1909 gettandosi su una spada, in una specie di harakiri (voce giapponese, propriamente‘tagliare (kiri) il ventre (hara)’, 1876); fu salvato in tempo dalla figlia Fatima. Purtroppo, i suoi intenti suicidi riuscirono due anni dopo: martedì 25 aprile 1911 uscì di casa, a Torino, con un rasoio in tasca. Lasciò ai figli indicazioni per trovare il suo cadavere, che venne invece rinvenuto da una giovane donna, Luigia Quirico, andata a fare legna nel bosco sulle colline adiacenti a corso Casale, dove abitava lo scrittore con la sua famiglia. Lo scrittore era morto commettendo, di fatto, seppuku (composto della radice sino-giapponese set(su)– ‘tagliare’ e puku‘ventre’, 1905), in una specie di omaggio estremo al suo orientalìsmo (dal francese orientalisme, da oriental‘orientale’, 1832).
2021
Vera Gheno
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258679
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