In un recente Glossario abbiamo passato in rassegna i modi di dire di Dante in uso ancora oggi; qui ne vedremo alcuni altri forse meno proverbiali, ma che appartengono all’“enciclopedia dei saperi” che condividiamo: sono versi della Commedia particolarmente noti, forse anche orecchiabili, che molti italiani usano citare nei loro discorsi con una certa naturalezza; non per fare sfoggio di cultura, ma attingendo a un patrimonio letterario sentito come comune, come la lingua della nostra “tribù” di italofoni. Nel mezzo del cammin di nostra vita…: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». È la prima terzina dell’Inferno, la prima cantica della Commedia: Dante inizia a narrare il suo viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso spiegando che il tutto ha origine in un momento per lui difficile, in cui era confuso e non sapeva bene cosa fare. Impieghiamo sovente il primo verso di questa terzina in maniera formulaica quando stiamo raccontando qualcosa che vorremmo suonasse epico. Selva Fa tremar le vene e i polsi: «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; / aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Siamo ai versi 88-90 del Canto I dell’Inferno. Dante chiede a Virgilio (il “famoso saggio”) aiuto di fronte alla Lupa, che lo atterrisce al punto da fargli venire le palpitazioni, cioè gli fa tremare sia le vene sia le arterie (i polsi, da pulsum, participio passato del verbo pello, ‘battere’). “Le vene e i polsi”, insomma, è una dittologia sinonimica: le due parole sono usate come sinonimi, a indicare che a Dante tremano proprio tutti i vasi sanguigni. Comprensibile, ma errata, la lectio facilior (termine che di solito indica la variante più facile di un passo nell’edizione critica) che circola nell’uso *le vene ai polsi: comprensibile perché polso per ‘arteria’ non è sicuramente molto diffuso, oggigiorno, e anche perché le vene sembrano particolarmente evidenti ai polsi; ciononostante, è bene ricordare che il verso di Dante non fa riferimento a una precisa collocazione delle vene. Vuolsi così colà dove si puote: spesso usata da sola, l’espressione fa parte dei versi 94-96 del Canto III dell’Inferno, rivolti a Caronte: «[…] Caron, non ti crucciare: Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». La stessa espressione viene usata da Virgilio anche più avanti, contro Pluto nel Canto V e contro Minosse nel Canto VII (sempre dell’Inferno): è un modo veloce, spiccio, per zittire le proteste dei guardiani, rifacendosi a una volontà superiore che vuole il compimento del viaggio di Dante: “Questo è il desiderio di chi ha il potere [cioè può fare ciò che desidera], quindi non chiedere altri chiarimenti”. Nella lingua comune il verso viene spesso usato per chiosare una richiesta, fatta magari da superiori, con la quale forse non si concorda in pieno, ma alla quale occorre sottostare perché così vogliono coloro che hanno l’autorità. Amor ch’a nullo amato amar perdona…: è il famosissimo verso 103 del V Canto dell’Inferno, quello nel quale Dante narra la storia di Paolo e Francesca. La terzina completa recita così: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona». Il verso 103 dice, in sostanza, che l’amore obbliga chi è amato ad amare a sua volta. Non è raro sentirlo usato in riferimento alle proprie pene d’amore. E caddi come corpo morto cade: è l’ultimo verso, isolato (il 142), sempre del V Canto. Dante è sopraffatto dall’emozione provocata da tutto ciò a cui ha assistito e sviene: cade come se fosse un cadavere, a peso morto. Non è raro sentirlo usato da chi desidera drammatizzare scherzosamente uno svenimento o una caduta. Pape Satàn, pape Satàn aleppe!: Canto VII dell’Inferno, verso 1: Pluto, messo da Dante a guardia del quarto Cerchio, pronuncia queste parole incomprensibili a Dante, ma che Virgilio, invece, capisce perfettamente (al v. 3 troviamo scritto: «e quel savio gentil, che tutto seppe…»). Il significato non viene svelato ai lettori della Commedia, e questo ha dato adito a settecento anni di interpretazioni che si interrogano sul senso di questa “lingua demoniaca” messa in bocca al dèmone da Dante: l’unico termine chiaro, infatti, è Satàn, uno dei nomi del Demonio. Il verso, che suona davvero minaccioso e misterioso – pur rimanendo incomprensibile, o forse proprio per quello – è stato spesso citato in scritti, canzoni e film. In Topolino compare una prima volta nel 1949, nella storia “L’inferno di Topolino”; qui Pluto è chiaramente il cane caro a Topolino e le parole a corredo dei disegni sono queste: “Papè Satan, Papè Satan aleppe: / queste parole dai concetti bui / per seicent’anni niun spegare seppe. / Solo Dante lo può; ragion per cui / chi vuol saper che cosa voglion dire / vada all’inferno e lo domandi a lui!”. Sempre in Topolino, nel numero 1996, compare la parodia “Panesalam, panesalam a fette”. Oggi questo verso viene spesso usato scherzosamente per scacciare il Maligno, similmente al “Vade retro!” pronunciato da Gesù nella Bibbia. E quindi uscimmo a riveder le stelle: è il verso finale della cantica dell’Inferno, il 139 del Canto XXXIV. L’avventura sotterranea di Dante finisce, e dopo l’ultima strettoia (la natural burella) che conduce dall’Inferno alla spiaggia dell’Antipurgatorio, il Sommo e Virgilio rivedono il cielo aperto con le sue stelle. Le stelle sono la meta di Dante (avete presente il detto Per aspera ad astra?), ed è per questo che ogni cantica si chiude con questa parola: l’ultimo verso del Purgatorio, forse meno noto ma ugualmente bello, è «puro e disposto a salir le stelle»; sulla chiusura del Paradiso ci soffermeremo poco oltre. L’ultimo verso dell’Inferno è pieno di sollievo e di gioia per rivedere, finalmente, il cielo aperto, dopo tanto tempo trascorso sottoterra. E similmente, con lo stesso senso di sollievo, si usa ancora oggi, a indicare la conclusione di un cammino tortuoso, una fatica, una prova difficile. L’ora che volge il disio: «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì ch’han detto ai dolci amici addio». Siamo nel Canto VIII del Purgatorio, versi 1-3. Dante descrive il tramonto, cioè l’ora che ispira nostalgia ai naviganti che ripensano al giorno in cui hanno salutato i loro cari. Questa espressione dantesca, spesso usata per indicare, sempre in maniera semiseria, l’intenzione di accomiatarsi, talvolta viene citata imprecisamente come *L’ora che volge al disio: anche in questo caso, è un’interpretazione comprensibile di termini oggi desueti (volgere il disio, letteralmente ‘mutare il desiderio’); comprensibile, ma sbagliata. viaggio Tetragono ai colpi di ventura: «dette mi fuor di mia vita futura / parole gravi, avvegna ch’io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura». Sono i versi 22-24 del Canto XVII del Paradiso. Dante è in conversazione con il suo avo Cacciaguida, che aveva già incontrato in precedenza, e gli chiede lumi sulle varie profezie che gli sono state fatte nel corso del suo viaggio, perché nonostante lui si senta fermo e risoluto di fronte ai rovesci della sorte, sa che «saetta previsa vien più lenta», cioè che una disgrazia attesa è meno scioccante. Tetragono è, normalmente, un poligono con quattro angoli. Se riferito a persona, come fa Dante, indica solidità, stabilità (come un poligono che è ben appoggiato a terra, insomma). L’espressione viene usata per indicare proprio questo, cioè dire che si è tranquilli e saldi nonostante le avversità. Attenzione: anche in questo caso gira una lectio facilior *Tetragono ai colpi di sventura, ovviamente errata: ventura significa qui ‘destino’, non ‘disgrazia’. Come sa di sale lo pane altrui: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Paradiso, Canto XVII, versi 58-60. Cacciaguida, accogliendo la richiesta precedentemente formulata da Dante, gli preconizza il suo esilio, dicendogli che dovrà mangiare del pane di altre città, non di Firenze (dove, com’è noto, il pane tradizionalmente è senza sale, cioè sciocco: il pane salato quindi indica l’“estero”, l’alterità) e dovrà anche sperimentare quanto sia gravoso stare al servizio di vari signori (e salire e scendere le scale dei loro palazzi). Anche in questo caso, l’uso attuale della frase è scherzoso, in riferimento a chi, per qualche ragione, è costretto a stare lontano da casa e si lamenta del cibo che non è quello a cui è abituato e affezionato. Fare parte per sé stessi: «Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova; sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso». Ancora una volta siamo nel Canto XVII, stavolta i versi sono 67-69. Cacciaguida racconta della “bestialità” di cui darà prova la parte dei Bianchi, dai quali Dante si allontanerà, giustamente: per lui sarà quindi un vantaggio essere uscito da quel gruppo. Nell’uso attuale, dire “preferisco fare parte per me stessa” o cose simili significa rinunciare, ad esempio, a un’affiliazione, cercando di non apparire troppo offensivi: vale all’incirca “preferisco rimanere indipendente”. L’amor che move ‘l sole e l’altre stelle: l’ultimo verso della Commedia (il 145 del Canto XXXIII del Paradiso). Dante – e noi con lui – comprende che l’amore è il meccanismo alla base della vita, e lo celebra con questa bellissima conclusione. Non c’è molto altro da dire: ne sono convinta anche io, e in base a questo principio cerco di vivere. Del resto, non sarà un caso se così tanti artisti hanno cantato la frase Love makes the world go ‘round: alla fine, l’ispirazione suprema è sempre Dante.

I versi della Divina Commedia diventati proverbiali / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2021).

I versi della Divina Commedia diventati proverbiali

Vera Gheno
2021

Abstract

In un recente Glossario abbiamo passato in rassegna i modi di dire di Dante in uso ancora oggi; qui ne vedremo alcuni altri forse meno proverbiali, ma che appartengono all’“enciclopedia dei saperi” che condividiamo: sono versi della Commedia particolarmente noti, forse anche orecchiabili, che molti italiani usano citare nei loro discorsi con una certa naturalezza; non per fare sfoggio di cultura, ma attingendo a un patrimonio letterario sentito come comune, come la lingua della nostra “tribù” di italofoni. Nel mezzo del cammin di nostra vita…: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». È la prima terzina dell’Inferno, la prima cantica della Commedia: Dante inizia a narrare il suo viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso spiegando che il tutto ha origine in un momento per lui difficile, in cui era confuso e non sapeva bene cosa fare. Impieghiamo sovente il primo verso di questa terzina in maniera formulaica quando stiamo raccontando qualcosa che vorremmo suonasse epico. Selva Fa tremar le vene e i polsi: «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; / aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Siamo ai versi 88-90 del Canto I dell’Inferno. Dante chiede a Virgilio (il “famoso saggio”) aiuto di fronte alla Lupa, che lo atterrisce al punto da fargli venire le palpitazioni, cioè gli fa tremare sia le vene sia le arterie (i polsi, da pulsum, participio passato del verbo pello, ‘battere’). “Le vene e i polsi”, insomma, è una dittologia sinonimica: le due parole sono usate come sinonimi, a indicare che a Dante tremano proprio tutti i vasi sanguigni. Comprensibile, ma errata, la lectio facilior (termine che di solito indica la variante più facile di un passo nell’edizione critica) che circola nell’uso *le vene ai polsi: comprensibile perché polso per ‘arteria’ non è sicuramente molto diffuso, oggigiorno, e anche perché le vene sembrano particolarmente evidenti ai polsi; ciononostante, è bene ricordare che il verso di Dante non fa riferimento a una precisa collocazione delle vene. Vuolsi così colà dove si puote: spesso usata da sola, l’espressione fa parte dei versi 94-96 del Canto III dell’Inferno, rivolti a Caronte: «[…] Caron, non ti crucciare: Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». La stessa espressione viene usata da Virgilio anche più avanti, contro Pluto nel Canto V e contro Minosse nel Canto VII (sempre dell’Inferno): è un modo veloce, spiccio, per zittire le proteste dei guardiani, rifacendosi a una volontà superiore che vuole il compimento del viaggio di Dante: “Questo è il desiderio di chi ha il potere [cioè può fare ciò che desidera], quindi non chiedere altri chiarimenti”. Nella lingua comune il verso viene spesso usato per chiosare una richiesta, fatta magari da superiori, con la quale forse non si concorda in pieno, ma alla quale occorre sottostare perché così vogliono coloro che hanno l’autorità. Amor ch’a nullo amato amar perdona…: è il famosissimo verso 103 del V Canto dell’Inferno, quello nel quale Dante narra la storia di Paolo e Francesca. La terzina completa recita così: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona». Il verso 103 dice, in sostanza, che l’amore obbliga chi è amato ad amare a sua volta. Non è raro sentirlo usato in riferimento alle proprie pene d’amore. E caddi come corpo morto cade: è l’ultimo verso, isolato (il 142), sempre del V Canto. Dante è sopraffatto dall’emozione provocata da tutto ciò a cui ha assistito e sviene: cade come se fosse un cadavere, a peso morto. Non è raro sentirlo usato da chi desidera drammatizzare scherzosamente uno svenimento o una caduta. Pape Satàn, pape Satàn aleppe!: Canto VII dell’Inferno, verso 1: Pluto, messo da Dante a guardia del quarto Cerchio, pronuncia queste parole incomprensibili a Dante, ma che Virgilio, invece, capisce perfettamente (al v. 3 troviamo scritto: «e quel savio gentil, che tutto seppe…»). Il significato non viene svelato ai lettori della Commedia, e questo ha dato adito a settecento anni di interpretazioni che si interrogano sul senso di questa “lingua demoniaca” messa in bocca al dèmone da Dante: l’unico termine chiaro, infatti, è Satàn, uno dei nomi del Demonio. Il verso, che suona davvero minaccioso e misterioso – pur rimanendo incomprensibile, o forse proprio per quello – è stato spesso citato in scritti, canzoni e film. In Topolino compare una prima volta nel 1949, nella storia “L’inferno di Topolino”; qui Pluto è chiaramente il cane caro a Topolino e le parole a corredo dei disegni sono queste: “Papè Satan, Papè Satan aleppe: / queste parole dai concetti bui / per seicent’anni niun spegare seppe. / Solo Dante lo può; ragion per cui / chi vuol saper che cosa voglion dire / vada all’inferno e lo domandi a lui!”. Sempre in Topolino, nel numero 1996, compare la parodia “Panesalam, panesalam a fette”. Oggi questo verso viene spesso usato scherzosamente per scacciare il Maligno, similmente al “Vade retro!” pronunciato da Gesù nella Bibbia. E quindi uscimmo a riveder le stelle: è il verso finale della cantica dell’Inferno, il 139 del Canto XXXIV. L’avventura sotterranea di Dante finisce, e dopo l’ultima strettoia (la natural burella) che conduce dall’Inferno alla spiaggia dell’Antipurgatorio, il Sommo e Virgilio rivedono il cielo aperto con le sue stelle. Le stelle sono la meta di Dante (avete presente il detto Per aspera ad astra?), ed è per questo che ogni cantica si chiude con questa parola: l’ultimo verso del Purgatorio, forse meno noto ma ugualmente bello, è «puro e disposto a salir le stelle»; sulla chiusura del Paradiso ci soffermeremo poco oltre. L’ultimo verso dell’Inferno è pieno di sollievo e di gioia per rivedere, finalmente, il cielo aperto, dopo tanto tempo trascorso sottoterra. E similmente, con lo stesso senso di sollievo, si usa ancora oggi, a indicare la conclusione di un cammino tortuoso, una fatica, una prova difficile. L’ora che volge il disio: «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì ch’han detto ai dolci amici addio». Siamo nel Canto VIII del Purgatorio, versi 1-3. Dante descrive il tramonto, cioè l’ora che ispira nostalgia ai naviganti che ripensano al giorno in cui hanno salutato i loro cari. Questa espressione dantesca, spesso usata per indicare, sempre in maniera semiseria, l’intenzione di accomiatarsi, talvolta viene citata imprecisamente come *L’ora che volge al disio: anche in questo caso, è un’interpretazione comprensibile di termini oggi desueti (volgere il disio, letteralmente ‘mutare il desiderio’); comprensibile, ma sbagliata. viaggio Tetragono ai colpi di ventura: «dette mi fuor di mia vita futura / parole gravi, avvegna ch’io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura». Sono i versi 22-24 del Canto XVII del Paradiso. Dante è in conversazione con il suo avo Cacciaguida, che aveva già incontrato in precedenza, e gli chiede lumi sulle varie profezie che gli sono state fatte nel corso del suo viaggio, perché nonostante lui si senta fermo e risoluto di fronte ai rovesci della sorte, sa che «saetta previsa vien più lenta», cioè che una disgrazia attesa è meno scioccante. Tetragono è, normalmente, un poligono con quattro angoli. Se riferito a persona, come fa Dante, indica solidità, stabilità (come un poligono che è ben appoggiato a terra, insomma). L’espressione viene usata per indicare proprio questo, cioè dire che si è tranquilli e saldi nonostante le avversità. Attenzione: anche in questo caso gira una lectio facilior *Tetragono ai colpi di sventura, ovviamente errata: ventura significa qui ‘destino’, non ‘disgrazia’. Come sa di sale lo pane altrui: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Paradiso, Canto XVII, versi 58-60. Cacciaguida, accogliendo la richiesta precedentemente formulata da Dante, gli preconizza il suo esilio, dicendogli che dovrà mangiare del pane di altre città, non di Firenze (dove, com’è noto, il pane tradizionalmente è senza sale, cioè sciocco: il pane salato quindi indica l’“estero”, l’alterità) e dovrà anche sperimentare quanto sia gravoso stare al servizio di vari signori (e salire e scendere le scale dei loro palazzi). Anche in questo caso, l’uso attuale della frase è scherzoso, in riferimento a chi, per qualche ragione, è costretto a stare lontano da casa e si lamenta del cibo che non è quello a cui è abituato e affezionato. Fare parte per sé stessi: «Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova; sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso». Ancora una volta siamo nel Canto XVII, stavolta i versi sono 67-69. Cacciaguida racconta della “bestialità” di cui darà prova la parte dei Bianchi, dai quali Dante si allontanerà, giustamente: per lui sarà quindi un vantaggio essere uscito da quel gruppo. Nell’uso attuale, dire “preferisco fare parte per me stessa” o cose simili significa rinunciare, ad esempio, a un’affiliazione, cercando di non apparire troppo offensivi: vale all’incirca “preferisco rimanere indipendente”. L’amor che move ‘l sole e l’altre stelle: l’ultimo verso della Commedia (il 145 del Canto XXXIII del Paradiso). Dante – e noi con lui – comprende che l’amore è il meccanismo alla base della vita, e lo celebra con questa bellissima conclusione. Non c’è molto altro da dire: ne sono convinta anche io, e in base a questo principio cerco di vivere. Del resto, non sarà un caso se così tanti artisti hanno cantato la frase Love makes the world go ‘round: alla fine, l’ispirazione suprema è sempre Dante.
2021
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258680
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