Devo fare una confessione: sono una frana a quasi tutti i giochi; quelli di intelligenza, quelli di velocità, quelli che richiedono riflessioni. Fanno eccezione, per me, i giochi che richiedono di comporre parole di senso compiuto. Su quelli, stranamente, sono quasi imbattibile. Chissà come mai! Recentemente, ha attratto l’attenzione del largo pubblico la miniserie “La regina di scacchi” (in originale “The Queen’s Gambit”, ‘La mossa della Regina’). E io, pur venendo dall’Ungheria, paese che ha dato i natali a Judit Polgár, da molti giudicata la più grande scacchista mai esistita, anche sul fronte degli scacchi sono davvero poco competente: perdo la pazienza troppo presto, non ho la capacità di concentrazione necessaria per calcolare le mosse che mi converrebbe fare. Ciò non toglie che io possa parlare un po’ del lessico degli scacchi, sperando di non scrivere troppe inesattezze! Partiamo da scàcco: anticamente detto anche iscàcco, deriva dal provenzale escac, risalente, attraverso lo spagnolo e l’arabo, al persiano šāh ‘re’ (cfr. il termine italiano scià, 1287). Al plurale, scàcchi, indica l’“antichissimo gioco d’origine indiana, con trentadue pezzi che si muovono nelle sessantaquattro caselle della scacchièra”; al singolare, una volta si usava anche per indicare ciascuno dei pezzi del gioco degli scacchi e anche le singole caselle della scacchiera. Scacco indica anche “mossa della partita che minaccia un pezzo importante dell’avversario”, ad esempio scacco alla regina. Scàcco màtto o scaccomàtto, dal persiano arabo šāh māt ‘il re è morto’, è, negli scacchi, “mossa con cui si mette l’avversario nell’impossibilità di difendersi ponendo fine alla partita”. Quando il re non può più muoversi, la partita è finita (fin qui ci arrivo anche io!). Esiste anche il verbo corrispondente a questa azione, ossia mattàre (che significa “arrivare allo scacco matto”); di conseguenza, si può dire che un giocatore ha mattàto l’altro in tot mosse. I pèzzi intavolàti (cioè disposti in determinate posizioni) sulla scacchiera sono sedici bianchi e sedici neri: un re, una regìna (detta anche dònna), due alfièri, due cavàlli, due tórri e otto pedóni. Non starò qui a elencare i movimenti che ognuno di essi può compiere, perché rischierei davvero di avventurarmi su un territorio a me poco noto (la famosa terra incognita, come scrivevano i cartografi nel Seicento sulle mappe). Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni meramente linguistiche. Re e regina derivano dal latino rēx e regīna(m), di origine indoeuropea; alfiere dallo spagnolo alférez, dall’arabo al-fāris ‘cavaliere’, 1527; cavallo dal latino cabăllu(m) ‘cavallo castrato’, probabilmente di origine preindoeuropea (sec. XII); è il pezzo che si muove nella maniera più peculiare, perché traccia una L sulla scacchiera. Non a caso, il suo movimento è definito mòssa del cavallo e indica, in senso figurato, “iniziativa abile e inattesa, che permette di liberarsi da un impedimento o di uscire da una situazione critica”; torre dal latino tŭrri(m), probabilmente vocabolo proveniente dall’Asia Minore (1268); pedone dal latino pēs, genitivo pĕdis ‘piede’ (1282), come pure pedìna, che è il modo odierno di chiamare complessivamente i vari pezzi dislocati sulla scacchiera. La partita inizia con l’apertùra (dal latino apertūra(m), da aperīre, di etimologia incerta) ossia la prima fase di gioco. Poi si procede tramite una serie di mosse, magari mangiàndo i pezzi dell’avversario, in sostanza cercando di attirarlo in una tràppola (diminutivo di trappa, forse di origine onomatopeica), ossia indurlo a fare delle mosse che lo conducano verso una situazione senza via d’uscita. Tra le poche mosse che riconosco, esiste l’arròcco (da rocco, sinonimo di “torre”), “movimento simultaneo del re e della torre, generalmente per adottare una tattica difensiva”: una delle mosse che prevedono di muovere sulla scacchiera due pezzi invece che uno solo. Arrocco viene usato anche in senso figurato, per indicare una “chiusura in una posizione di difesa”. Il gambétto, invece, da gamba, consiste nel “sacrificio di un pedone, per ottenere una migliore possibilità di attacco” (la contromossa, va da sé, si chiama controgambétto). Si chiama fianchétto (da fianco, 1887, a sua volta dall’antico francese flanc, dal francone hlanka) la “posizione dell’alfiere collocato nella seconda casella di una delle diagonali principali della scacchiera”. La forchétta (da forca dal latino fŭrca(m), di etimologia incerta), invece, è il nome della “mossa con la quale si attaccano simultaneamente due pezzi avversari”. Viene definito inchiodàto un “pezzo che non può essere mosso perché altrimenti lascerebbe sotto scacco il re o un altro pezzo di valore”. Lo scacco doppio è un’inforcatùra. Esiste anche la possibilità che una partita finisca in parità. In quel caso di parla di pàtta (dal latino păcta, plurale di păctum ‘patto’, 1500). Questo può verificarsi in varie situazioni, tra le quali una delle più comuni è il cosiddetto stàllo (dal francone *stall ‘sosta, dimora’, 1266), “situazione del re che non può muoversi perché cadrebbe sotto scacco, mentre d’altra parte nessun altro pezzo è movibile”. Da scacco abbiamo scacchìsmo (1982) “insieme di attività, comportamenti, decisioni inerenti al gioco degli scacchi” e l’aggettivo scacchìstico (1922), “relativo al gioco degli scacchi”; scaccografìa (1930) è la “trascrizione con numeri e sigle delle mosse di una partita a scacchi” mentre si chiama scaccogràmma (1959) la “rappresentazione grafica di un determinato momento di una partita a scacchi”. Infine, uno dei termini più importanti: scacchìsta (1888), ossia “chi gioca a scacchi”: termine epiceno, ossia ambigenere, per cui basta cambiare l’articolo per fare maschile e femminile: lo scacchista, la scacchista. Per finire, sapevate che esistono anche persone che giocano più partite in contemporanea? Si chiamano simultaneìsti. Se volete saperne di più, vi consiglio di guardare la serie. E… beati loro, io non riesco a giocarne nemmeno una per volta!

Scacchi e strategie: una scacchiera di parole per destreggiarsi tra le pedine / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2020).

Scacchi e strategie: una scacchiera di parole per destreggiarsi tra le pedine

Vera Gheno
2020

Abstract

Devo fare una confessione: sono una frana a quasi tutti i giochi; quelli di intelligenza, quelli di velocità, quelli che richiedono riflessioni. Fanno eccezione, per me, i giochi che richiedono di comporre parole di senso compiuto. Su quelli, stranamente, sono quasi imbattibile. Chissà come mai! Recentemente, ha attratto l’attenzione del largo pubblico la miniserie “La regina di scacchi” (in originale “The Queen’s Gambit”, ‘La mossa della Regina’). E io, pur venendo dall’Ungheria, paese che ha dato i natali a Judit Polgár, da molti giudicata la più grande scacchista mai esistita, anche sul fronte degli scacchi sono davvero poco competente: perdo la pazienza troppo presto, non ho la capacità di concentrazione necessaria per calcolare le mosse che mi converrebbe fare. Ciò non toglie che io possa parlare un po’ del lessico degli scacchi, sperando di non scrivere troppe inesattezze! Partiamo da scàcco: anticamente detto anche iscàcco, deriva dal provenzale escac, risalente, attraverso lo spagnolo e l’arabo, al persiano šāh ‘re’ (cfr. il termine italiano scià, 1287). Al plurale, scàcchi, indica l’“antichissimo gioco d’origine indiana, con trentadue pezzi che si muovono nelle sessantaquattro caselle della scacchièra”; al singolare, una volta si usava anche per indicare ciascuno dei pezzi del gioco degli scacchi e anche le singole caselle della scacchiera. Scacco indica anche “mossa della partita che minaccia un pezzo importante dell’avversario”, ad esempio scacco alla regina. Scàcco màtto o scaccomàtto, dal persiano arabo šāh māt ‘il re è morto’, è, negli scacchi, “mossa con cui si mette l’avversario nell’impossibilità di difendersi ponendo fine alla partita”. Quando il re non può più muoversi, la partita è finita (fin qui ci arrivo anche io!). Esiste anche il verbo corrispondente a questa azione, ossia mattàre (che significa “arrivare allo scacco matto”); di conseguenza, si può dire che un giocatore ha mattàto l’altro in tot mosse. I pèzzi intavolàti (cioè disposti in determinate posizioni) sulla scacchiera sono sedici bianchi e sedici neri: un re, una regìna (detta anche dònna), due alfièri, due cavàlli, due tórri e otto pedóni. Non starò qui a elencare i movimenti che ognuno di essi può compiere, perché rischierei davvero di avventurarmi su un territorio a me poco noto (la famosa terra incognita, come scrivevano i cartografi nel Seicento sulle mappe). Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni meramente linguistiche. Re e regina derivano dal latino rēx e regīna(m), di origine indoeuropea; alfiere dallo spagnolo alférez, dall’arabo al-fāris ‘cavaliere’, 1527; cavallo dal latino cabăllu(m) ‘cavallo castrato’, probabilmente di origine preindoeuropea (sec. XII); è il pezzo che si muove nella maniera più peculiare, perché traccia una L sulla scacchiera. Non a caso, il suo movimento è definito mòssa del cavallo e indica, in senso figurato, “iniziativa abile e inattesa, che permette di liberarsi da un impedimento o di uscire da una situazione critica”; torre dal latino tŭrri(m), probabilmente vocabolo proveniente dall’Asia Minore (1268); pedone dal latino pēs, genitivo pĕdis ‘piede’ (1282), come pure pedìna, che è il modo odierno di chiamare complessivamente i vari pezzi dislocati sulla scacchiera. La partita inizia con l’apertùra (dal latino apertūra(m), da aperīre, di etimologia incerta) ossia la prima fase di gioco. Poi si procede tramite una serie di mosse, magari mangiàndo i pezzi dell’avversario, in sostanza cercando di attirarlo in una tràppola (diminutivo di trappa, forse di origine onomatopeica), ossia indurlo a fare delle mosse che lo conducano verso una situazione senza via d’uscita. Tra le poche mosse che riconosco, esiste l’arròcco (da rocco, sinonimo di “torre”), “movimento simultaneo del re e della torre, generalmente per adottare una tattica difensiva”: una delle mosse che prevedono di muovere sulla scacchiera due pezzi invece che uno solo. Arrocco viene usato anche in senso figurato, per indicare una “chiusura in una posizione di difesa”. Il gambétto, invece, da gamba, consiste nel “sacrificio di un pedone, per ottenere una migliore possibilità di attacco” (la contromossa, va da sé, si chiama controgambétto). Si chiama fianchétto (da fianco, 1887, a sua volta dall’antico francese flanc, dal francone hlanka) la “posizione dell’alfiere collocato nella seconda casella di una delle diagonali principali della scacchiera”. La forchétta (da forca dal latino fŭrca(m), di etimologia incerta), invece, è il nome della “mossa con la quale si attaccano simultaneamente due pezzi avversari”. Viene definito inchiodàto un “pezzo che non può essere mosso perché altrimenti lascerebbe sotto scacco il re o un altro pezzo di valore”. Lo scacco doppio è un’inforcatùra. Esiste anche la possibilità che una partita finisca in parità. In quel caso di parla di pàtta (dal latino păcta, plurale di păctum ‘patto’, 1500). Questo può verificarsi in varie situazioni, tra le quali una delle più comuni è il cosiddetto stàllo (dal francone *stall ‘sosta, dimora’, 1266), “situazione del re che non può muoversi perché cadrebbe sotto scacco, mentre d’altra parte nessun altro pezzo è movibile”. Da scacco abbiamo scacchìsmo (1982) “insieme di attività, comportamenti, decisioni inerenti al gioco degli scacchi” e l’aggettivo scacchìstico (1922), “relativo al gioco degli scacchi”; scaccografìa (1930) è la “trascrizione con numeri e sigle delle mosse di una partita a scacchi” mentre si chiama scaccogràmma (1959) la “rappresentazione grafica di un determinato momento di una partita a scacchi”. Infine, uno dei termini più importanti: scacchìsta (1888), ossia “chi gioca a scacchi”: termine epiceno, ossia ambigenere, per cui basta cambiare l’articolo per fare maschile e femminile: lo scacchista, la scacchista. Per finire, sapevate che esistono anche persone che giocano più partite in contemporanea? Si chiamano simultaneìsti. Se volete saperne di più, vi consiglio di guardare la serie. E… beati loro, io non riesco a giocarne nemmeno una per volta!
2020
Vera Gheno
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