l 26 settembre si celebra la Giornata Europea delle Lingue. È stata proclamata il 6 dicembre 2001, a conclusione dell’anno europeo delle lingue, dal Consiglio d’Europa, con il patrocinio dell’Unione Europea. La sua istituzione vuole incoraggiare lo studio delle lingue in Europa, nella prospettiva di favorire il multilinguismo (la via migliore, secondo il compianto Tullio De Mauro, per rafforzare anche la competenza della propria lingua madre). Vista la ricorrenza, abbiamo pensato di tornare sulla questione delle contaminazioni tra una lingua e l’altra. Avevo precedentemente osservato che fare gli autarchici a tutti i costi vorrebbe dire “epurare” il nostro vocabolario di migliaia e migliaia di termini gentilmente donatici da tante altre lingue, con una grave perdita di parole bellissime. Chiaramente, questo non vuol dire accettare pedissequamente qualsiasi forestierismo – soprattutto anglismo, in questo periodo – senza prima chiedersi se aggiunge qualcosa alle nostre possibilità espressive o meno: come ci ricorda il mitico professore Francesco Sabatini, vale sempre la pena chiedersi “esiste un termine italiano altrettanto valido che potrei usare al posto di questa parola straniera?”. Questo eviterebbe il proliferare di certe frasi sul genere di “Lo how to del project di questo brand richiede il profiling del customer…”. Ma parliamo, piuttosto, di contaminazioni “felici”, esplorando altri termini – derivanti da tante lingue diverse – che non sembrano provenire dall’estero, almeno finché non se ne scopre l’origine. Eccone un piccolo florilegio, dalla A alla Z (o quasi). Alabàrda: dal medio alto tedesco helmbart, 1499, “arma in asta lunga da punta e da taglio con il ferro formato da una punta lanceolata, e sotto, da un lato, una scure e, dall’altro, una o più punte, introdotta in Italia nel XV secolo, usata come arma sussidiaria della picca” (immortale, per me, il grido “Alabarda spaziale!” di Goldrake). Azzeccàre: dal medio alto tedesco zecken, ‘menare un colpo’, av. 1704, “colpire nel segno” e figurativamente “indovinare”. Famosa l’espressione centromeridionale “che ci azzecca?” nel senso di “che c’entra?”, resa popolarissima da Antonio Di Pietro temporibus illis. Bìrra: dal tedesco Bier, a sua volta dal latino bĭbere ‘bere’ (o almeno, così si suppone: delle etimologie non sempre v’è certezza), 1521, “bevanda ottenuta per fermentazione alcolica di una decozione acquosa di malto di orzo, di frumento e di altri cereali, mescolata a sostanze aromatizzanti come il luppolo e contenente anidride carbonica”. Per quanto riguarda l’espressione a tutta birra, che significa “a grande velocità”, probabilmente è legata alla locuzione “a tutta briglia”, in francese à toute bride, deformata per analogia con le locuzioni ‘a tutto vapore, a tutto gas’ e con accostamento birra-benzina. a tutta birra Bistécca: dall’inglese beefsteak, composto di beef ‘carne di bue’ e steak ‘bistecca’, 1844, “fetta di carne di manzo o di vitello tagliata sulla costola, cotta sulla graticola o nel tegame”. Un forestierismo adattato nella pronuncia, insomma, come se oggi l’hot dog lo trasformassimo in oddògo! Borràccia: dallo spagnolo borracha, da borracho ‘ubriaco’, dal latino bŭrrus ‘rossiccio’, per il colore di chi ha bevuto, 1539 “recipiente di alluminio, plastica o altro materiale, atto a contenere acqua e altre bevande, usato specialmente da soldati, alpinisti, ciclisti e simili” (e da chi si sente in colpa a usare troppe bottiglie di plastica usa e getta, aggiungerei alla definizione dello Zingarelli). Bottìglia: dall’antico francese boteille, dal latino tardo but(t)ĭcula, diminutivo di bŭttis ‘botte’, 1365, “recipiente specialmente cilindrico, generalmente di vetro, con collo di diametro relativamente più ridotto del corpo e imboccatura adatta a chiusure di vario tipo, destinato a contenere vini, liquori, acque minerali, latte, olio e simili”. Da estimatrice di vini (spumanti e non), sono rimasta affascinata nel leggere la nomenclatura delle bottiglie contenuta nel nostro vocabolario. Le bottiglie comuni (0,75 litri) possono essere chiamate bordolese, borgognona, chiantigiana, renana, sciampagnotta; il fiasco generalmente è di due litri. Poi ci sono le bottiglie particolari: magnum (1,5 litri, cioè due bottiglie comuni), Marie-Jeanne (per vini fermi, 2,25 litri, 3 bottiglie comuni), doppio magnum (3 litri, 4 bottiglie comuni), Réhoboam (4,5 litri, 6 bottiglie comuni), imperiale (per vini fermi) o Mathusalem (per champagne o spumanti) (6 litri, 8 bottiglie comuni), Salmanazar (9 litri, 12 bottiglie comuni), Balthazar (12 litri, 16 bottiglie comuni), Nabuchodonosor (15 litri, 20 bottiglie comuni), Melchior (18 litri, 24 bottiglie comuni), Salomon (24 litri, 32 bottiglie comuni). Etichétta: dal francese étiquette, dall’antico francese estiquer ‘attaccare’, dal neerlandese stikken, 1797, “cartellino che si applica su un oggetto per indicarne il prezzo, il contenuto, il nome, l’anno, la collocazione in un ordine eccetera”, ma anche, figurativamente, “definizione sommaria con cui si attribuisce una qualità, una tipologia, un’appartenenza”. D’altro canto, etichetta nel senso di “cerimoniale degli usi e costumi da osservare nelle corti regali” e quindi, in senso lato, galateo, è un termine lemmatizzato a parte, dato che ha un’etimologia diversa: passa prima dallo spagnolo etiqueta, lingua nella quale il francese étiquette è stato assunto con il senso di ‘lista dei testimoni’, esteso da Carlo V al ‘protocollo di corte’. Troverete quindi due lemmi etichetta nel dizionario, differenziati dal numero 1 e 2: si tratta di due omògrafi, ossia lemmi con etimologia differente, ma con grafia identica. In questo caso i due termini sono anche omòfoni, cioè hanno la stessa pronuncia. Guarnìre: dal germanico *warnjan ‘avvertire (un pericolo o una minaccia)’, quindi ‘provvedere (alla difesa)’, 1261 circa, “munire, corredare di tutto quanto è necessario (+di)”; “ornare”. In ambito culinario, “inserire in un piatto alcuni elementi di contorno, anche per ottenere un effetto estetico (+di, +con)”. L’asterisco indica un termine ricostruito, di cui non esistono attestazioni dirette. Lìsta: dal germanico lîsta ‘striscia, frangia’, “striscia lunga e stretta di carta, stoffa o anche di materiale rigido o pieghevole” e “foglio di carta in cui si elencano cose o persone”. Uno dei motivi per cui da ragazzina rifuggivo le discoteche è che odiavo il (falso) privilegio di coloro che erano “in lista” e che venivano fatti subito entrare, mentre io e le mie amiche agonizzavamo in fila. Che buffo ricordo che mi ha fatto tornare in mente questa parola! Marmellàta: dal portoghese marmelada, da marmelo ‘cotogna’, dal latino melimēlu(m) dal greco melímēlon, comp. di méli ‘miele’ e mêlon ‘mela’ , 1579 (alla faccia della trafila etimologica!); “nella classificazione merceologica, conserva di agrumi lasciati cuocere, con aggiunta di molto zucchero, fino ad ottenere una buona consistenza” ma nel linguaggio comune “confettura di frutta”. Mitico il modo di dire beccare qualcuno con le dita nella marmellata, ossia coglierlo sul fatto. Sàla: dal longobardo sala ‘abitazione, sala’, come il tedesco Saal, av. 1292: “locale ampio e spazioso in edifici pubblici e privati, destinato ad usi di rappresentanza, riunione e simili”. Tra i molti significati, anche quello obsoleto di “casa di campagna”, che compare in nomi di luogo come Sala Biellese, Sala Bolognese o Sala Consilina. Sciàlle: dal francese châle, risalente al persiano sāl, 1621, “riquadro o triangolo di tessuto, seta o lana, che si indossa per ornare e proteggere le spalle”. Sìgaro: dallo spagnolo cigarro, da jigar della lingua Maia (Messico), 1824, “rotoletto di foglia di tabacco, da fumare”. Sono molto diffusi il sigaro toscano, fusiforme, il sigaro napoletano, cilindrico, il sigaro Virginia, lungo e sottile e il sigaro cubano, confezionato con tabacco avana. Vanìglia: dallo spagnolo vainilla, diminutivo di vaina, propriamente ‘vagina, guaina’, dalla forma di lunga guaina del frutto, 1485, “pianta delle Orchidacee originaria del Messico, coltivata per i frutti a capsula usati per ricavarne la sostanza aromatica dello stesso nome”, ma anche “frutti essiccati della pianta omonima, utilizzati in pasticceria, liquoreria, profumeria”. Vasìstas: voce francese, dall’espressione tedesca Was ist das? ‘che cosa è ciò?’, nome scherzoso dato a questo tipo di apertura, attraverso la quale ci si può rivolgere a qualcuno, 1918, “battente, girevole intorno al suo lato inferiore, posto nella parte alta di alcune finestre o porte per consentire la ventilazione”. Non sapendo come definire “quella roba lì”, il suo nome è diventato… la domanda stessa. Morale della favola? Attenzione a scagliarsi indiscriminatamente contro i forestierismi, perché senza di loro… l’italiano sarebbe assai più povero! Come dicevano i latini, est modus in rebus, cioè ‘esiste una misura nelle cose’.

Giornata europea delle lingue: il bello di condividere le origini / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2021).

Giornata europea delle lingue: il bello di condividere le origini

Vera Gheno
2021

Abstract

l 26 settembre si celebra la Giornata Europea delle Lingue. È stata proclamata il 6 dicembre 2001, a conclusione dell’anno europeo delle lingue, dal Consiglio d’Europa, con il patrocinio dell’Unione Europea. La sua istituzione vuole incoraggiare lo studio delle lingue in Europa, nella prospettiva di favorire il multilinguismo (la via migliore, secondo il compianto Tullio De Mauro, per rafforzare anche la competenza della propria lingua madre). Vista la ricorrenza, abbiamo pensato di tornare sulla questione delle contaminazioni tra una lingua e l’altra. Avevo precedentemente osservato che fare gli autarchici a tutti i costi vorrebbe dire “epurare” il nostro vocabolario di migliaia e migliaia di termini gentilmente donatici da tante altre lingue, con una grave perdita di parole bellissime. Chiaramente, questo non vuol dire accettare pedissequamente qualsiasi forestierismo – soprattutto anglismo, in questo periodo – senza prima chiedersi se aggiunge qualcosa alle nostre possibilità espressive o meno: come ci ricorda il mitico professore Francesco Sabatini, vale sempre la pena chiedersi “esiste un termine italiano altrettanto valido che potrei usare al posto di questa parola straniera?”. Questo eviterebbe il proliferare di certe frasi sul genere di “Lo how to del project di questo brand richiede il profiling del customer…”. Ma parliamo, piuttosto, di contaminazioni “felici”, esplorando altri termini – derivanti da tante lingue diverse – che non sembrano provenire dall’estero, almeno finché non se ne scopre l’origine. Eccone un piccolo florilegio, dalla A alla Z (o quasi). Alabàrda: dal medio alto tedesco helmbart, 1499, “arma in asta lunga da punta e da taglio con il ferro formato da una punta lanceolata, e sotto, da un lato, una scure e, dall’altro, una o più punte, introdotta in Italia nel XV secolo, usata come arma sussidiaria della picca” (immortale, per me, il grido “Alabarda spaziale!” di Goldrake). Azzeccàre: dal medio alto tedesco zecken, ‘menare un colpo’, av. 1704, “colpire nel segno” e figurativamente “indovinare”. Famosa l’espressione centromeridionale “che ci azzecca?” nel senso di “che c’entra?”, resa popolarissima da Antonio Di Pietro temporibus illis. Bìrra: dal tedesco Bier, a sua volta dal latino bĭbere ‘bere’ (o almeno, così si suppone: delle etimologie non sempre v’è certezza), 1521, “bevanda ottenuta per fermentazione alcolica di una decozione acquosa di malto di orzo, di frumento e di altri cereali, mescolata a sostanze aromatizzanti come il luppolo e contenente anidride carbonica”. Per quanto riguarda l’espressione a tutta birra, che significa “a grande velocità”, probabilmente è legata alla locuzione “a tutta briglia”, in francese à toute bride, deformata per analogia con le locuzioni ‘a tutto vapore, a tutto gas’ e con accostamento birra-benzina. a tutta birra Bistécca: dall’inglese beefsteak, composto di beef ‘carne di bue’ e steak ‘bistecca’, 1844, “fetta di carne di manzo o di vitello tagliata sulla costola, cotta sulla graticola o nel tegame”. Un forestierismo adattato nella pronuncia, insomma, come se oggi l’hot dog lo trasformassimo in oddògo! Borràccia: dallo spagnolo borracha, da borracho ‘ubriaco’, dal latino bŭrrus ‘rossiccio’, per il colore di chi ha bevuto, 1539 “recipiente di alluminio, plastica o altro materiale, atto a contenere acqua e altre bevande, usato specialmente da soldati, alpinisti, ciclisti e simili” (e da chi si sente in colpa a usare troppe bottiglie di plastica usa e getta, aggiungerei alla definizione dello Zingarelli). Bottìglia: dall’antico francese boteille, dal latino tardo but(t)ĭcula, diminutivo di bŭttis ‘botte’, 1365, “recipiente specialmente cilindrico, generalmente di vetro, con collo di diametro relativamente più ridotto del corpo e imboccatura adatta a chiusure di vario tipo, destinato a contenere vini, liquori, acque minerali, latte, olio e simili”. Da estimatrice di vini (spumanti e non), sono rimasta affascinata nel leggere la nomenclatura delle bottiglie contenuta nel nostro vocabolario. Le bottiglie comuni (0,75 litri) possono essere chiamate bordolese, borgognona, chiantigiana, renana, sciampagnotta; il fiasco generalmente è di due litri. Poi ci sono le bottiglie particolari: magnum (1,5 litri, cioè due bottiglie comuni), Marie-Jeanne (per vini fermi, 2,25 litri, 3 bottiglie comuni), doppio magnum (3 litri, 4 bottiglie comuni), Réhoboam (4,5 litri, 6 bottiglie comuni), imperiale (per vini fermi) o Mathusalem (per champagne o spumanti) (6 litri, 8 bottiglie comuni), Salmanazar (9 litri, 12 bottiglie comuni), Balthazar (12 litri, 16 bottiglie comuni), Nabuchodonosor (15 litri, 20 bottiglie comuni), Melchior (18 litri, 24 bottiglie comuni), Salomon (24 litri, 32 bottiglie comuni). Etichétta: dal francese étiquette, dall’antico francese estiquer ‘attaccare’, dal neerlandese stikken, 1797, “cartellino che si applica su un oggetto per indicarne il prezzo, il contenuto, il nome, l’anno, la collocazione in un ordine eccetera”, ma anche, figurativamente, “definizione sommaria con cui si attribuisce una qualità, una tipologia, un’appartenenza”. D’altro canto, etichetta nel senso di “cerimoniale degli usi e costumi da osservare nelle corti regali” e quindi, in senso lato, galateo, è un termine lemmatizzato a parte, dato che ha un’etimologia diversa: passa prima dallo spagnolo etiqueta, lingua nella quale il francese étiquette è stato assunto con il senso di ‘lista dei testimoni’, esteso da Carlo V al ‘protocollo di corte’. Troverete quindi due lemmi etichetta nel dizionario, differenziati dal numero 1 e 2: si tratta di due omògrafi, ossia lemmi con etimologia differente, ma con grafia identica. In questo caso i due termini sono anche omòfoni, cioè hanno la stessa pronuncia. Guarnìre: dal germanico *warnjan ‘avvertire (un pericolo o una minaccia)’, quindi ‘provvedere (alla difesa)’, 1261 circa, “munire, corredare di tutto quanto è necessario (+di)”; “ornare”. In ambito culinario, “inserire in un piatto alcuni elementi di contorno, anche per ottenere un effetto estetico (+di, +con)”. L’asterisco indica un termine ricostruito, di cui non esistono attestazioni dirette. Lìsta: dal germanico lîsta ‘striscia, frangia’, “striscia lunga e stretta di carta, stoffa o anche di materiale rigido o pieghevole” e “foglio di carta in cui si elencano cose o persone”. Uno dei motivi per cui da ragazzina rifuggivo le discoteche è che odiavo il (falso) privilegio di coloro che erano “in lista” e che venivano fatti subito entrare, mentre io e le mie amiche agonizzavamo in fila. Che buffo ricordo che mi ha fatto tornare in mente questa parola! Marmellàta: dal portoghese marmelada, da marmelo ‘cotogna’, dal latino melimēlu(m) dal greco melímēlon, comp. di méli ‘miele’ e mêlon ‘mela’ , 1579 (alla faccia della trafila etimologica!); “nella classificazione merceologica, conserva di agrumi lasciati cuocere, con aggiunta di molto zucchero, fino ad ottenere una buona consistenza” ma nel linguaggio comune “confettura di frutta”. Mitico il modo di dire beccare qualcuno con le dita nella marmellata, ossia coglierlo sul fatto. Sàla: dal longobardo sala ‘abitazione, sala’, come il tedesco Saal, av. 1292: “locale ampio e spazioso in edifici pubblici e privati, destinato ad usi di rappresentanza, riunione e simili”. Tra i molti significati, anche quello obsoleto di “casa di campagna”, che compare in nomi di luogo come Sala Biellese, Sala Bolognese o Sala Consilina. Sciàlle: dal francese châle, risalente al persiano sāl, 1621, “riquadro o triangolo di tessuto, seta o lana, che si indossa per ornare e proteggere le spalle”. Sìgaro: dallo spagnolo cigarro, da jigar della lingua Maia (Messico), 1824, “rotoletto di foglia di tabacco, da fumare”. Sono molto diffusi il sigaro toscano, fusiforme, il sigaro napoletano, cilindrico, il sigaro Virginia, lungo e sottile e il sigaro cubano, confezionato con tabacco avana. Vanìglia: dallo spagnolo vainilla, diminutivo di vaina, propriamente ‘vagina, guaina’, dalla forma di lunga guaina del frutto, 1485, “pianta delle Orchidacee originaria del Messico, coltivata per i frutti a capsula usati per ricavarne la sostanza aromatica dello stesso nome”, ma anche “frutti essiccati della pianta omonima, utilizzati in pasticceria, liquoreria, profumeria”. Vasìstas: voce francese, dall’espressione tedesca Was ist das? ‘che cosa è ciò?’, nome scherzoso dato a questo tipo di apertura, attraverso la quale ci si può rivolgere a qualcuno, 1918, “battente, girevole intorno al suo lato inferiore, posto nella parte alta di alcune finestre o porte per consentire la ventilazione”. Non sapendo come definire “quella roba lì”, il suo nome è diventato… la domanda stessa. Morale della favola? Attenzione a scagliarsi indiscriminatamente contro i forestierismi, perché senza di loro… l’italiano sarebbe assai più povero! Come dicevano i latini, est modus in rebus, cioè ‘esiste una misura nelle cose’.
2021
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