Donne, cavalieri, armi, amori, cortesie, audaci imprese: ecco che, grazie a una manciata di parole, ci figuriamo davanti agli occhi uno scenario che indubbiamente ricorda quello di “Trono di spade”; ma questa volta siamo rimasti più sul classico, citando i primi versi dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, nato l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia e del quale in questi giorni ricorre, quindi, il compleanno. Il poema si apre proprio così: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…”: Ariosto preannuncia che si occuperà di donne, per l’appunto, e cavalieri, di imprese militari, di amori, di imprese cortesi e audaci. Ecco, dunque, gli ingredienti di un mondo ariostésco, aggettivo (risalente al 1723) con cui ci si riferisce a quanto è relativo al poeta. Il genere a cui si fa appartenere il Furioso è quello della poesia cavallerésca, cioè ispirata alla cavalleria e ai suoi eroi. Questo aggettivo, datato 1305, per estensione significa anche nobile, ardito, generoso, cortese, leale: tutte qualità che istintivamente imputiamo ai cavalieri. Ariosto continuava una tradizione antica, riprendendo i poemi del cìclo carolìngio (da Carŏlus, nome latino di Carlo Magno, 1843), a cui appartenevano le chansons de geste, le canzoni, per l’appunto, relative alle gèsta di Carlo Magno e dei suoi paladìni (dal latino palatīnu(m) ‘imperiale’, 1213), i dodici nobili cavalieri scelti dal condottiero come guardie del corpo, e del cìclo brètone (dal latino tardo Brĕttone(m) ‘abitante della Bretagna, tanto continentale, quanto insulare’, sec. XIII) quello che, per intenderci, riguarda i cavalieri della Tavola rotonda di re Artù. L’Orlando furioso, dicevo, è un poèma. Questa parola deriva dal latino poēma, dal greco póiēma, da poiêin ‘fare, creare’, dalla quale abbiamo, chiaramente, anche poeta. In primo luogo significa “composizione poetica di ampie dimensioni e di carattere narrativo o didascalico” (per inciso, didascàlico indica che vuole insegnare qualcosa, che contiene, per esempio, una morale). La stessa parola ha anche significati estesi (“mamma mia, hai scritto un poema!” vuol dire che la persona in questione ha prodotto una cosa sin troppo lunga e prolissa: di solito lo dicono a me in riferimento ai post chilometrici che scrivo su Facebook) e figuràti, sia per indicare una cosa straordinaria per bellezza o bontà (“questa pizza è un poema”) sia per indicare una persona stravagante, in modo scherzoso: “Conciato così era un poema”. Per l’esattezza, nel caso dell’opera dell’Ariosto di parla di poema èpico, (dal latino ĕpicu(m), dal greco epikós, aggettivo di épos, 1483), “che canta temi e leggende eroiche”; alla poesia di questo genere ci si riferisce anche semplicemente con il sostantivo èpica, che molti ricorderanno con un brivido dai tempi di scuola, quando c’era, per l’appunto, la lezione di epica. epico Come fa intuire l’elencazione dell’autore nelle prime righe della sua opera, è difficile riassumere la trama del Furioso; gli argomenti citati si intrecciano a partire da una trama centrale che viene continuamente sospesa per lasciare spazio a narrazioni collaterali; queste, grazie alla perizia dell’autore, riescono comunque a incastrarsi reciprocamente formando una sorta di puzzle complicatissimo (vi ricorda qualcosa?). In francese, questa tecnica narrativa viene definita entrelacement (letteralmente ‘intreccio’); l’Ariosto la riprende proprio dai già nominati cicli carolingio e bretone e la applica con grande maestria alla sua storia. Non è un caso, dunque, che all’opera dell’Ariosto venga accostato il concetto di labirìnto (dal latino labyrĭnthu(m), dal greco labýrinthos, 1328): la narrazione è labirintica nello spazio e nel tempo, e la vita stessa, nella riflessione ariostesca, è quasi un labirinto, nel quale l’essere umano deve in qualche modo destreggiarsi per portare a compimento la sua opera terrena. L’Ariosto continua le vicende narrate dal Boiardo nell’Orlando innamorato; il “furioso” del titolo non vuol dire “irato, arrabbiato”, ma “pazzo”; per l’esattezza, Orlando impazzisce per amore (della bella Angelica); sarà il cavaliere Astolfo a recuperare il suo sénno (dall’antico francese sen, risalente al francone sin ‘senno’, 1250), “facoltà di discernere, giudicare, agire e simili con sensatezza, prudenza, avvedutezza”, conservato in un’ampolla sulla Luna, non prima di avere sconfitto un ippogrìfo, un cavallo alato con la testa di uccello, creatura creata dall’Ariosto appositamente per il suo poema. Del resto, sappiamo bene che per amore si può impazzire: la storica Eva Cantarella, nella sua bella Definizione d’autore di “amore”, richiama le parole di Saffo: “Eros mi squassa l’anima come vento che al monte su le querce si abbatte”. Orlando è squassato d’amore; e questo suo sconquasso è uno dei motori della vicenda. amore Oltre all’amore e alle vicende epico-cavalleresche, individuiamo un terzo filone nel poema dell’Ariosto: quello encomiàstico (dal greco enkōmiastikós, da enkomiázein ‘fare un encomio (enkṓmion)’, 1631), cioè di lode: al centro della linea narrativa encomiastica troviamo Ruggiero, guerriero saraceno, e Bradamante, sorella di Rinaldo, paladino cristiano che lotta accanto a Orlando (ma i due si contendono l’amore della stessa donna, Angelica, appunto). Ruggiero e Bradamante, che si amano, ma vengono continuamente divisi da avversità di ogni genere (e in particolare dal potentissimo mago Atlante, che metterà loro i bastoni tra le ruote), sono presentati come i capostipiti della casata d’Este. Quello di creare una sorta di origine mitologica per le grandi famiglie nobili è un elemento narrativo ricorrente, nella letteratura; in fondo, era un modo per garantirsi la protezione da parte dei potenti, cosa all’epoca essenziale talvolta per la stessa sopravvivenza di una persona. Ariosto lavorava proprio alle dipendenze degli Este: prima per il cardinale Ippolito, poi per Alfonso. Un vortice di vicende davvero degne del Trono di Spade; ma a ridare equilibrio al tutto, ecco che occorre accennare all’uso sapiente e dosato, da parte dell’Ariosto, dell’ironìa (dal latino ironīa(m), dal greco eirōnéia, da éirōn, propriamente ‘colui che interroga [fingendo di non sapere]’, 1374), “dissimulazione del proprio pensiero dietro parole che hanno significato opposto o diverso da quello letterale” e, per estensione, “umorismo sarcastico”. L’ironia serviva, all’Ariosto, per “demitizzare” il poema e contribuire a mantenere il suo lettore con i piedi per terra: il racconto, infatti, doveva, per l’autore, rimanere ancorato alla realtà del tempo. Ironia Come tutti i potenti “farmaci”, va usata con estrema misura e tempo teatrale perfetto. Carlo Verdone L’ironia è non solo difficile da spiegare, ma ancor più difficile da mettere in pratica. Come ci ricorda Carlo Verdone, “L’ironia è una potente e indispensabile medicina per affrontare la vita. Non costa nulla ma è preziosa: è un approccio filosofico alle nostre vicende quotidiane e ridimensiona ciò che è “troppo” con un sorriso, una risata, una considerazione divertente […]. L’autoironia rende senz’altro migliore chi è capace di praticarla. Ma attenzione: l’abuso di ironia è sinonimo di noiosa e stancante superficialità. Come tutti i potenti “farmaci”, va usata con estrema misura e tempo teatrale perfetto”. Se non si sta attenti, infatti, l’ironia rischia di diventare sarcàsmo (dal latino sarcăsmu(m), dal greco sarkasmós, da sarkázein ‘lacerare le carni’, da sárx, genitivo sarkós ‘carne’, 1575), “ironia amara e pungente mossa da animosità verso qualcuno o da personale amarezza” e di offendere gli altri. Per questo, almeno per quanto mi riguarda, non essendo brava come Ludovico Ariosto, preferisco esercitarmi nell’arte dell’autoironìa, con la quale, al massimo, offendo… me stessa!

I mondi e gli intrecci di Ludovico Ariosto: come districarsi nel suo labirinto di parole / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2020).

I mondi e gli intrecci di Ludovico Ariosto: come districarsi nel suo labirinto di parole

Vera Gheno
2020

Abstract

Donne, cavalieri, armi, amori, cortesie, audaci imprese: ecco che, grazie a una manciata di parole, ci figuriamo davanti agli occhi uno scenario che indubbiamente ricorda quello di “Trono di spade”; ma questa volta siamo rimasti più sul classico, citando i primi versi dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, nato l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia e del quale in questi giorni ricorre, quindi, il compleanno. Il poema si apre proprio così: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…”: Ariosto preannuncia che si occuperà di donne, per l’appunto, e cavalieri, di imprese militari, di amori, di imprese cortesi e audaci. Ecco, dunque, gli ingredienti di un mondo ariostésco, aggettivo (risalente al 1723) con cui ci si riferisce a quanto è relativo al poeta. Il genere a cui si fa appartenere il Furioso è quello della poesia cavallerésca, cioè ispirata alla cavalleria e ai suoi eroi. Questo aggettivo, datato 1305, per estensione significa anche nobile, ardito, generoso, cortese, leale: tutte qualità che istintivamente imputiamo ai cavalieri. Ariosto continuava una tradizione antica, riprendendo i poemi del cìclo carolìngio (da Carŏlus, nome latino di Carlo Magno, 1843), a cui appartenevano le chansons de geste, le canzoni, per l’appunto, relative alle gèsta di Carlo Magno e dei suoi paladìni (dal latino palatīnu(m) ‘imperiale’, 1213), i dodici nobili cavalieri scelti dal condottiero come guardie del corpo, e del cìclo brètone (dal latino tardo Brĕttone(m) ‘abitante della Bretagna, tanto continentale, quanto insulare’, sec. XIII) quello che, per intenderci, riguarda i cavalieri della Tavola rotonda di re Artù. L’Orlando furioso, dicevo, è un poèma. Questa parola deriva dal latino poēma, dal greco póiēma, da poiêin ‘fare, creare’, dalla quale abbiamo, chiaramente, anche poeta. In primo luogo significa “composizione poetica di ampie dimensioni e di carattere narrativo o didascalico” (per inciso, didascàlico indica che vuole insegnare qualcosa, che contiene, per esempio, una morale). La stessa parola ha anche significati estesi (“mamma mia, hai scritto un poema!” vuol dire che la persona in questione ha prodotto una cosa sin troppo lunga e prolissa: di solito lo dicono a me in riferimento ai post chilometrici che scrivo su Facebook) e figuràti, sia per indicare una cosa straordinaria per bellezza o bontà (“questa pizza è un poema”) sia per indicare una persona stravagante, in modo scherzoso: “Conciato così era un poema”. Per l’esattezza, nel caso dell’opera dell’Ariosto di parla di poema èpico, (dal latino ĕpicu(m), dal greco epikós, aggettivo di épos, 1483), “che canta temi e leggende eroiche”; alla poesia di questo genere ci si riferisce anche semplicemente con il sostantivo èpica, che molti ricorderanno con un brivido dai tempi di scuola, quando c’era, per l’appunto, la lezione di epica. epico Come fa intuire l’elencazione dell’autore nelle prime righe della sua opera, è difficile riassumere la trama del Furioso; gli argomenti citati si intrecciano a partire da una trama centrale che viene continuamente sospesa per lasciare spazio a narrazioni collaterali; queste, grazie alla perizia dell’autore, riescono comunque a incastrarsi reciprocamente formando una sorta di puzzle complicatissimo (vi ricorda qualcosa?). In francese, questa tecnica narrativa viene definita entrelacement (letteralmente ‘intreccio’); l’Ariosto la riprende proprio dai già nominati cicli carolingio e bretone e la applica con grande maestria alla sua storia. Non è un caso, dunque, che all’opera dell’Ariosto venga accostato il concetto di labirìnto (dal latino labyrĭnthu(m), dal greco labýrinthos, 1328): la narrazione è labirintica nello spazio e nel tempo, e la vita stessa, nella riflessione ariostesca, è quasi un labirinto, nel quale l’essere umano deve in qualche modo destreggiarsi per portare a compimento la sua opera terrena. L’Ariosto continua le vicende narrate dal Boiardo nell’Orlando innamorato; il “furioso” del titolo non vuol dire “irato, arrabbiato”, ma “pazzo”; per l’esattezza, Orlando impazzisce per amore (della bella Angelica); sarà il cavaliere Astolfo a recuperare il suo sénno (dall’antico francese sen, risalente al francone sin ‘senno’, 1250), “facoltà di discernere, giudicare, agire e simili con sensatezza, prudenza, avvedutezza”, conservato in un’ampolla sulla Luna, non prima di avere sconfitto un ippogrìfo, un cavallo alato con la testa di uccello, creatura creata dall’Ariosto appositamente per il suo poema. Del resto, sappiamo bene che per amore si può impazzire: la storica Eva Cantarella, nella sua bella Definizione d’autore di “amore”, richiama le parole di Saffo: “Eros mi squassa l’anima come vento che al monte su le querce si abbatte”. Orlando è squassato d’amore; e questo suo sconquasso è uno dei motori della vicenda. amore Oltre all’amore e alle vicende epico-cavalleresche, individuiamo un terzo filone nel poema dell’Ariosto: quello encomiàstico (dal greco enkōmiastikós, da enkomiázein ‘fare un encomio (enkṓmion)’, 1631), cioè di lode: al centro della linea narrativa encomiastica troviamo Ruggiero, guerriero saraceno, e Bradamante, sorella di Rinaldo, paladino cristiano che lotta accanto a Orlando (ma i due si contendono l’amore della stessa donna, Angelica, appunto). Ruggiero e Bradamante, che si amano, ma vengono continuamente divisi da avversità di ogni genere (e in particolare dal potentissimo mago Atlante, che metterà loro i bastoni tra le ruote), sono presentati come i capostipiti della casata d’Este. Quello di creare una sorta di origine mitologica per le grandi famiglie nobili è un elemento narrativo ricorrente, nella letteratura; in fondo, era un modo per garantirsi la protezione da parte dei potenti, cosa all’epoca essenziale talvolta per la stessa sopravvivenza di una persona. Ariosto lavorava proprio alle dipendenze degli Este: prima per il cardinale Ippolito, poi per Alfonso. Un vortice di vicende davvero degne del Trono di Spade; ma a ridare equilibrio al tutto, ecco che occorre accennare all’uso sapiente e dosato, da parte dell’Ariosto, dell’ironìa (dal latino ironīa(m), dal greco eirōnéia, da éirōn, propriamente ‘colui che interroga [fingendo di non sapere]’, 1374), “dissimulazione del proprio pensiero dietro parole che hanno significato opposto o diverso da quello letterale” e, per estensione, “umorismo sarcastico”. L’ironia serviva, all’Ariosto, per “demitizzare” il poema e contribuire a mantenere il suo lettore con i piedi per terra: il racconto, infatti, doveva, per l’autore, rimanere ancorato alla realtà del tempo. Ironia Come tutti i potenti “farmaci”, va usata con estrema misura e tempo teatrale perfetto. Carlo Verdone L’ironia è non solo difficile da spiegare, ma ancor più difficile da mettere in pratica. Come ci ricorda Carlo Verdone, “L’ironia è una potente e indispensabile medicina per affrontare la vita. Non costa nulla ma è preziosa: è un approccio filosofico alle nostre vicende quotidiane e ridimensiona ciò che è “troppo” con un sorriso, una risata, una considerazione divertente […]. L’autoironia rende senz’altro migliore chi è capace di praticarla. Ma attenzione: l’abuso di ironia è sinonimo di noiosa e stancante superficialità. Come tutti i potenti “farmaci”, va usata con estrema misura e tempo teatrale perfetto”. Se non si sta attenti, infatti, l’ironia rischia di diventare sarcàsmo (dal latino sarcăsmu(m), dal greco sarkasmós, da sarkázein ‘lacerare le carni’, da sárx, genitivo sarkós ‘carne’, 1575), “ironia amara e pungente mossa da animosità verso qualcuno o da personale amarezza” e di offendere gli altri. Per questo, almeno per quanto mi riguarda, non essendo brava come Ludovico Ariosto, preferisco esercitarmi nell’arte dell’autoironìa, con la quale, al massimo, offendo… me stessa!
2020
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258693
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