Mare mare mare voglio annegare / portami lontano a naufragare / via via via da queste sponde / portami lontano sulle onde..., cantava Franco Battiato nel 1981 in Summer on a solitary beach. È solo un esempio delle decine di testi dedicati alla meravigliosa e terribile massa d’acqua che circonda la nostra penisola. Mi è venuta in mente, questa canzone legata a ricordi belli della mia infanzia, perché l’8 luglio si festeggia la Giornata Internazionale del Mar Mediterraneo. Mare nostrum, lo chiamarono gli Antichi Romani, oltre che (più prosaicamente) Mare internum. Solo più tardi, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, divenne Mar Mediterràneo, dall’aggettivo latino mediterrāneu(m) “dentro terra, nell’interno di un paese, lontano dal mare”, che in latino tardo iniziò anche a significare “posto in mezzo alle terre”, come per l’appunto il nostro mare. Luogo di viaggio e di incontri, di scambi culturali e commerciali, centro vitale di una parte importante del mondo di allora, il Mediterraneo fu teatro di scontri e mire espansionistiche sin dai tempi delle colonie fenicie, nel primo millennio a.C.; colònia, dal latino colōnia(m), da colōnus “colono”, a sua volta dal verbo cŏlere, “coltivare”, (av. 1292), anticamente indicava una “comunità di cittadini lontana dalla madrepatria, con o senza vincoli di dipendenza rispetto alla stessa” e anche un “territorio distinto dalla madrepatria e alla stessa assoggettato da vincoli militari, politici, giuridici ed economici”. Dopo le colonie fenicie, nel VII sec. a.C. fu la volta di quelle greche: già allora, come sempre, la necessità di spostare parte della popolazione derivava dalla scarsa reperibilità di materie prime e di terreni coltivabili nei paesi d’origine e dall’intenzione di aprire nuove basi e nuove rotte per il commercio. Il mare come nuovo orizzonte, come possibilità di migliorare la qualità della propria vita. mar mediterraneo Nel 157 a.C. Marco Porcio Catone, meglio noto come Catone il Censore, convinto che fosse necessario contrastare il dominio cartaginese sulla Sicilia e sul Mediterraneo intero, soleva chiudere la maggior parte dei suoi discorsi con la famosa frase – familiare a tutti coloro che si sono incontrati e scontrati con il latino alle superiori – delenda Carthago (sottinteso est): “Cartagine va distrutta”: le due “superpotenze” affacciate sullo stesso mare non intrattenevano, insomma, rapporti eccessivamente cordiali. Non c’è da stupirsene, del resto: a quel tempo, possedere sbocchi sul mare e gestire le rotte commerciali era assolutamente necessario per garantirsi l’approvvigionamento di prodotti di ogni genere. E il ruolo del Mediterraneo era ancora più rilevante se si ricorda che per lungo tempo si è pensato che il mondo finisse alle cosiddette Colonne d’Ercole, l’antico nome dei promontori che formano lo stretto di Gibilterra (Calpe in Spagna e Abyla in Africa). Nemmeno Ercole aveva osato avventurarsi oltre quelle colonne nel corso di una delle sue memorabili dodici fatiche: si era fermato lì e aveva sentenziato non plus ultra, “non più avanti”. Il mondo, nel corso dei secoli, ha ampliato i propri orizzonti (e poi, in seguito alla globalizzazione, li ha nuovamente ristretti, anche se in maniera differente); non a caso, dal Medioevo in poi l’Italia assisté all’ascesa delle repùbbliche marinàre (dapprima, nel IX e X secolo, Amalfi e Gaeta, poi Genova, Venezia, Pisa, Ancona e Ragusa); ognuna di queste rappresentò non solo una potenza economica e bellica, ma anche un centro di irraggiamento culturale, un luogo dove giungevano notizie di arti, usi e costumi di paesi lontani. In tutto questo, pur aprendosi poi verso il resto del mondo e diventando a sua volta quasi un porto per le navi che si spingevano alla scoperta degli oceani, il “nostro” mare ha conservato, per molte popolazioni, un ruolo centrale: non solo come mezzo, ma anche come risórsa (dal francese ressource, propriamente participio passato femminile sostantivato di ressourdre, dal latino resŭrgere “risorgere”, av. 1576) nella sua doppia veste di giaciménto, “concentrazione di minerali utili nella crosta terrestre, tale da essere sfruttata economicamente”, ma anche “bene, ricchezza, risorsa da salvaguardare e valorizzare” ed ecosistèma (1971), “l’insieme degli esseri viventi, dell’ambiente e delle condizioni fisico-chimiche che, in uno spazio delimitato, sono inseparabilmente legati tra loro, sviluppando interazioni reciproche”. Non si può ignorare quanto l’economia di intere comunità dipenda ancora oggi proprio dal mare, anzi, da ciò che il mare dà loro; eppure, ancora oggi, in molti casi ci permettiamo di maltrattarlo, di non preservarlo come si meriterebbe. Il mare è vita. Noi, abitanti dello Stivale, viviamo in un rapporto di strettissima interdipendenza con esso. Conosco molte persone che quando sono costrette a stare lontane dal mare soffrono, si sentono vive a metà. E la cosa non mi stupisce affatto. Stare a riva, ascoltare il respiro del mare, talvolta appena udibile, talvolta roboante, è tra le cose più rasserenanti anche per me. Allo stesso tempo, però, il mare, il nostro mare, è anche portatore di morte (come, del resto, sembra richiamare Battiato nei versi della canzone che menzionavo in apertura). Purtroppo, ora come nei tempi antichi, esistono persone che sono costrette a lasciare le loro case e ad avventurarsi per mare a cercare fortuna per fuggire a situazioni invivibili. Migràre (1374, da una radice indoeuropea che significa “cambiare’) è “lasciare, anche temporaneamente, il luogo d’origine in cerca di condizioni migliori”. Una volta queste persone venivano chiamate emigràti (quando il punto di vista era del luogo da cui le persone partivano) o immigràti (al contrario, considerando il luogo di arrivo e di stanziamento successivo al viaggio); oggi le chiamiamo spesso migrànti, con un participio presente, quasi a sottolineare che il loro è un movimento quasi perenne, senza fine. Così assistiamo, spesso impotenti, agli sbàrchi di persone in fùga (dal latino fŭga(m), da fŭgere “fuggire”, avanti 1292) da situazioni inumane, in cerca di una vita migliore. Un primo passo, in questa direzione, è vedersi riconosciuto lo status di rifugiàto, “individuo costretto, in seguito a vicende politiche, ad abbandonare lo Stato nel quale aveva stabile dimora per cercare rifugio in un altro Stato”; il rifugiato è definito anche èsule (dal latino ĕx(s)ule(m): “(cacciato) dal (ex-) proprio suolo (sŏlum)”, av. 1328), fuoriuscìto e pròfugo (dal latino profŭgere “fuggire via”, sec. XIV). migrazione Il mare ci protegge, il mare ci accoglie; il mare, talvolta, ci distrugge. Ci affascina e allo stesso tempo ci spaventa. In fondo, il mare ha fatto sì che la nostra penisola svolgesse un ruolo di primo piano nella storia, per migliaia di anni. Ha arricchito il nostro lessico di centinaia e centinaia di parole straniere, provenienti da terre lontane (pensiamo a tutti gli arabismi, ma non solo: ne riparleremo) e la nostra cultura di elementi altrettanto esotici. A me piace pensare al mare come tramite, non come barriera; come confine e non come limite, dato che ogni confine prevede la presenza di un oltre. confine Affascinato dal mare era anche il mio poeta del cuore, Eugenio Montale, che non a caso aveva preso casa nelle meravigliose Cinque Terre, per l’esattezza a Monterosso, in modo da poterci amoreggiare semplicemente affacciandosi alle finestre della sua villa. E a lui, al mare, è dedicata, tra molte altre, la poesia Antico, sono ubriacato dalla voce dalla raccolta Ossi di seppia (1925): Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono. La casa delle mie estati lontane, t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare. Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro. Tu m’hai detto primo che il piccino fermento del mio cuore non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d’ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso.

Giornata Internazionale del Mar Mediterraneo: le parole per non mandare il mondo alla deriva / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2020).

Giornata Internazionale del Mar Mediterraneo: le parole per non mandare il mondo alla deriva

Vera Gheno
2020

Abstract

Mare mare mare voglio annegare / portami lontano a naufragare / via via via da queste sponde / portami lontano sulle onde..., cantava Franco Battiato nel 1981 in Summer on a solitary beach. È solo un esempio delle decine di testi dedicati alla meravigliosa e terribile massa d’acqua che circonda la nostra penisola. Mi è venuta in mente, questa canzone legata a ricordi belli della mia infanzia, perché l’8 luglio si festeggia la Giornata Internazionale del Mar Mediterraneo. Mare nostrum, lo chiamarono gli Antichi Romani, oltre che (più prosaicamente) Mare internum. Solo più tardi, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, divenne Mar Mediterràneo, dall’aggettivo latino mediterrāneu(m) “dentro terra, nell’interno di un paese, lontano dal mare”, che in latino tardo iniziò anche a significare “posto in mezzo alle terre”, come per l’appunto il nostro mare. Luogo di viaggio e di incontri, di scambi culturali e commerciali, centro vitale di una parte importante del mondo di allora, il Mediterraneo fu teatro di scontri e mire espansionistiche sin dai tempi delle colonie fenicie, nel primo millennio a.C.; colònia, dal latino colōnia(m), da colōnus “colono”, a sua volta dal verbo cŏlere, “coltivare”, (av. 1292), anticamente indicava una “comunità di cittadini lontana dalla madrepatria, con o senza vincoli di dipendenza rispetto alla stessa” e anche un “territorio distinto dalla madrepatria e alla stessa assoggettato da vincoli militari, politici, giuridici ed economici”. Dopo le colonie fenicie, nel VII sec. a.C. fu la volta di quelle greche: già allora, come sempre, la necessità di spostare parte della popolazione derivava dalla scarsa reperibilità di materie prime e di terreni coltivabili nei paesi d’origine e dall’intenzione di aprire nuove basi e nuove rotte per il commercio. Il mare come nuovo orizzonte, come possibilità di migliorare la qualità della propria vita. mar mediterraneo Nel 157 a.C. Marco Porcio Catone, meglio noto come Catone il Censore, convinto che fosse necessario contrastare il dominio cartaginese sulla Sicilia e sul Mediterraneo intero, soleva chiudere la maggior parte dei suoi discorsi con la famosa frase – familiare a tutti coloro che si sono incontrati e scontrati con il latino alle superiori – delenda Carthago (sottinteso est): “Cartagine va distrutta”: le due “superpotenze” affacciate sullo stesso mare non intrattenevano, insomma, rapporti eccessivamente cordiali. Non c’è da stupirsene, del resto: a quel tempo, possedere sbocchi sul mare e gestire le rotte commerciali era assolutamente necessario per garantirsi l’approvvigionamento di prodotti di ogni genere. E il ruolo del Mediterraneo era ancora più rilevante se si ricorda che per lungo tempo si è pensato che il mondo finisse alle cosiddette Colonne d’Ercole, l’antico nome dei promontori che formano lo stretto di Gibilterra (Calpe in Spagna e Abyla in Africa). Nemmeno Ercole aveva osato avventurarsi oltre quelle colonne nel corso di una delle sue memorabili dodici fatiche: si era fermato lì e aveva sentenziato non plus ultra, “non più avanti”. Il mondo, nel corso dei secoli, ha ampliato i propri orizzonti (e poi, in seguito alla globalizzazione, li ha nuovamente ristretti, anche se in maniera differente); non a caso, dal Medioevo in poi l’Italia assisté all’ascesa delle repùbbliche marinàre (dapprima, nel IX e X secolo, Amalfi e Gaeta, poi Genova, Venezia, Pisa, Ancona e Ragusa); ognuna di queste rappresentò non solo una potenza economica e bellica, ma anche un centro di irraggiamento culturale, un luogo dove giungevano notizie di arti, usi e costumi di paesi lontani. In tutto questo, pur aprendosi poi verso il resto del mondo e diventando a sua volta quasi un porto per le navi che si spingevano alla scoperta degli oceani, il “nostro” mare ha conservato, per molte popolazioni, un ruolo centrale: non solo come mezzo, ma anche come risórsa (dal francese ressource, propriamente participio passato femminile sostantivato di ressourdre, dal latino resŭrgere “risorgere”, av. 1576) nella sua doppia veste di giaciménto, “concentrazione di minerali utili nella crosta terrestre, tale da essere sfruttata economicamente”, ma anche “bene, ricchezza, risorsa da salvaguardare e valorizzare” ed ecosistèma (1971), “l’insieme degli esseri viventi, dell’ambiente e delle condizioni fisico-chimiche che, in uno spazio delimitato, sono inseparabilmente legati tra loro, sviluppando interazioni reciproche”. Non si può ignorare quanto l’economia di intere comunità dipenda ancora oggi proprio dal mare, anzi, da ciò che il mare dà loro; eppure, ancora oggi, in molti casi ci permettiamo di maltrattarlo, di non preservarlo come si meriterebbe. Il mare è vita. Noi, abitanti dello Stivale, viviamo in un rapporto di strettissima interdipendenza con esso. Conosco molte persone che quando sono costrette a stare lontane dal mare soffrono, si sentono vive a metà. E la cosa non mi stupisce affatto. Stare a riva, ascoltare il respiro del mare, talvolta appena udibile, talvolta roboante, è tra le cose più rasserenanti anche per me. Allo stesso tempo, però, il mare, il nostro mare, è anche portatore di morte (come, del resto, sembra richiamare Battiato nei versi della canzone che menzionavo in apertura). Purtroppo, ora come nei tempi antichi, esistono persone che sono costrette a lasciare le loro case e ad avventurarsi per mare a cercare fortuna per fuggire a situazioni invivibili. Migràre (1374, da una radice indoeuropea che significa “cambiare’) è “lasciare, anche temporaneamente, il luogo d’origine in cerca di condizioni migliori”. Una volta queste persone venivano chiamate emigràti (quando il punto di vista era del luogo da cui le persone partivano) o immigràti (al contrario, considerando il luogo di arrivo e di stanziamento successivo al viaggio); oggi le chiamiamo spesso migrànti, con un participio presente, quasi a sottolineare che il loro è un movimento quasi perenne, senza fine. Così assistiamo, spesso impotenti, agli sbàrchi di persone in fùga (dal latino fŭga(m), da fŭgere “fuggire”, avanti 1292) da situazioni inumane, in cerca di una vita migliore. Un primo passo, in questa direzione, è vedersi riconosciuto lo status di rifugiàto, “individuo costretto, in seguito a vicende politiche, ad abbandonare lo Stato nel quale aveva stabile dimora per cercare rifugio in un altro Stato”; il rifugiato è definito anche èsule (dal latino ĕx(s)ule(m): “(cacciato) dal (ex-) proprio suolo (sŏlum)”, av. 1328), fuoriuscìto e pròfugo (dal latino profŭgere “fuggire via”, sec. XIV). migrazione Il mare ci protegge, il mare ci accoglie; il mare, talvolta, ci distrugge. Ci affascina e allo stesso tempo ci spaventa. In fondo, il mare ha fatto sì che la nostra penisola svolgesse un ruolo di primo piano nella storia, per migliaia di anni. Ha arricchito il nostro lessico di centinaia e centinaia di parole straniere, provenienti da terre lontane (pensiamo a tutti gli arabismi, ma non solo: ne riparleremo) e la nostra cultura di elementi altrettanto esotici. A me piace pensare al mare come tramite, non come barriera; come confine e non come limite, dato che ogni confine prevede la presenza di un oltre. confine Affascinato dal mare era anche il mio poeta del cuore, Eugenio Montale, che non a caso aveva preso casa nelle meravigliose Cinque Terre, per l’esattezza a Monterosso, in modo da poterci amoreggiare semplicemente affacciandosi alle finestre della sua villa. E a lui, al mare, è dedicata, tra molte altre, la poesia Antico, sono ubriacato dalla voce dalla raccolta Ossi di seppia (1925): Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono. La casa delle mie estati lontane, t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare. Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro. Tu m’hai detto primo che il piccino fermento del mio cuore non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d’ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso.
2020
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258696
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