E così, senza preavviso, a causa del o della COVID-19 (più correttamente la, dato che sarebbe COronaVirus Disease, ‘malattia da coronavirus’, ma nell’uso è molto diffuso anche il maschile), ci siamo ritrovati in un gigantesco esperimento sociologico la cui principale conseguenza è stata il passaggio al lavoro e alla scuola a distanza. Nell’impossibilità di tenere aperti edifici scolastici e uffici per il rischio di contagio, ecco che ci siamo inventati, in casa, postazioni presentabili agli occhi della videocamera e vere e proprie aule casalinghe. Si fa sovente riferimento a questa modalità di lavoro con l’espressione smart working, che – sorpresa! – in inglese non è in uso con il medesimo significato; anzi, molti dizionari monolingui inglesi nemmeno la registrano. In italiano si è diffusa tutto sommato di recente: la prima occorrenza su Repubblica, stando all’archivio del quotidiano, risale all’11 ottobre 2010; l’espressione è registrata nello Zingarelli (sotto smart) assieme a smart job, indicato però come “raro”. Smart working è in buona sostanza uno pseudoanglismo nato in ambito italofono (come, del resto, era già successo per esempio per cotton fioc – che peraltro è un marchio registrato; in inglese si chiama q-tip – e baby parking): gli inglesi dicono piuttosto WFH, work(ing) from home, o work at home, o remote working ‘lavoro da remoto’, o flexible working, mentre smart working, nei pochi casi in cui viene impiegato, indica piuttosto una modalità di lavoro resa più funzionale grazie al ricorso a determinate tecnologie e strumenti. Per quanto riguarda l’italiano, sull’espressione si era già espressa anche l’Accademia della Crusca nel 2016, con un plauso alla scelta dei legislatori di preferirvi lavoro agile. Se tuttavia andiamo a leggere la definizione di lavoro agile fornita dal MIUR sulle sue pagine, Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività, è facile rendersi conto che in molti casi quello attuale ha ben poco di “agile” o “smart” che dir si voglia. Lo potremmo piuttosto definire telelavoro (per gli inglesi telecommute o telecommuting), ossia “attività lavorativa svolta nel domicilio del lavoratore, che è collegato con la propria azienda mediante sistemi telematici” (espressione che risale al 1982), di cui esiste, peraltro, anche la versione (italo-)inglese, che (forse per fortuna) non si è mai diffusa troppo in italiano: e-work (2001). Altre possibili definizioni, anche se meno comuni, sono lavoro in (o da) remoto oppure lavoro a distanza. Come qualcuno ha avuto recentemente da dire, viene quasi il dubbio che chi l’ha chiamato prima smart working e poi lavoro agile non abbia mai avuto bisogno di conciliare la professione con le mille distrazioni causate dalla vita di casa, dai figli alle mille piccole mansioni da svolgersi tra le mura domestiche. Se, da una parte, abbiamo le pene del lavoro a distanza, chi è in età scolare ha a sua volta le sue belle gatte da pelare alle prese con la DAD, ossia la didattica a distanza, che secondo molti dovrebbe essere chiamata più realisticamente DDE, didattica di emergenza: in poche settimane, grazie allo sforzo congiunto di docenti, studenti e delle loro famiglie, la maggior parte delle scuole è riuscita ad attivare soluzioni di distance learning (questo il nome inglese della DAD) con classi o aule virtuali, chiamate anche, con la consueta anglofilia, smart o virtual classroom, mentre sempre sulla linea dello smart working qualcuno ha anche coniato smart schooling e smart learning, come se, in buona sostanza, smart volesse dire “digitale” in senso lato. In ogni caso, la e-school non va confusa con il concetto di home schooling, ‘istruzione parentale’, 1993, ossia “impartita nell’ambito famigliare dai genitori o da insegnanti di loro scelta”, che è cosa ben diversa da quanto sta succedendo adesso, dato che l’istruzione parentale deriva da una precisa scelta della famiglia: è elettiva, dunque, e non dettata dalle circostanze, tranne che in rari casi. E così, tra una videoconferenza, una videolezione, un webinar (composto di web e [sem]inar, 2007), una lezione in streaming (dal verbo inglese to stream ‘scorrere, fluire’, “accesso a file audiovisivi direttamente dalla rete”), abbiamo passato due mesi in lockdown o isolamento domestico preventivo, serrata, clausura, confinamento, chiusura, scegliete voi come chiamarlo: ma prendiamo atto del fatto che lockdown è di fatto diventato il termine per indicare specificamente questa particolare situazione, come quando ci si riferisce agli uragani chiamandoli per nome; e pazienza se il termine inglese non è trasparente per tutti, perché tutti sappiamo comunque a cosa si riferisce. Adesso siamo pronti per le prossime fasi?

Scuola e lavoro in trasferta: tra lezioni online e smart working / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2020).

Scuola e lavoro in trasferta: tra lezioni online e smart working

Vera Gheno
2020

Abstract

E così, senza preavviso, a causa del o della COVID-19 (più correttamente la, dato che sarebbe COronaVirus Disease, ‘malattia da coronavirus’, ma nell’uso è molto diffuso anche il maschile), ci siamo ritrovati in un gigantesco esperimento sociologico la cui principale conseguenza è stata il passaggio al lavoro e alla scuola a distanza. Nell’impossibilità di tenere aperti edifici scolastici e uffici per il rischio di contagio, ecco che ci siamo inventati, in casa, postazioni presentabili agli occhi della videocamera e vere e proprie aule casalinghe. Si fa sovente riferimento a questa modalità di lavoro con l’espressione smart working, che – sorpresa! – in inglese non è in uso con il medesimo significato; anzi, molti dizionari monolingui inglesi nemmeno la registrano. In italiano si è diffusa tutto sommato di recente: la prima occorrenza su Repubblica, stando all’archivio del quotidiano, risale all’11 ottobre 2010; l’espressione è registrata nello Zingarelli (sotto smart) assieme a smart job, indicato però come “raro”. Smart working è in buona sostanza uno pseudoanglismo nato in ambito italofono (come, del resto, era già successo per esempio per cotton fioc – che peraltro è un marchio registrato; in inglese si chiama q-tip – e baby parking): gli inglesi dicono piuttosto WFH, work(ing) from home, o work at home, o remote working ‘lavoro da remoto’, o flexible working, mentre smart working, nei pochi casi in cui viene impiegato, indica piuttosto una modalità di lavoro resa più funzionale grazie al ricorso a determinate tecnologie e strumenti. Per quanto riguarda l’italiano, sull’espressione si era già espressa anche l’Accademia della Crusca nel 2016, con un plauso alla scelta dei legislatori di preferirvi lavoro agile. Se tuttavia andiamo a leggere la definizione di lavoro agile fornita dal MIUR sulle sue pagine, Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività, è facile rendersi conto che in molti casi quello attuale ha ben poco di “agile” o “smart” che dir si voglia. Lo potremmo piuttosto definire telelavoro (per gli inglesi telecommute o telecommuting), ossia “attività lavorativa svolta nel domicilio del lavoratore, che è collegato con la propria azienda mediante sistemi telematici” (espressione che risale al 1982), di cui esiste, peraltro, anche la versione (italo-)inglese, che (forse per fortuna) non si è mai diffusa troppo in italiano: e-work (2001). Altre possibili definizioni, anche se meno comuni, sono lavoro in (o da) remoto oppure lavoro a distanza. Come qualcuno ha avuto recentemente da dire, viene quasi il dubbio che chi l’ha chiamato prima smart working e poi lavoro agile non abbia mai avuto bisogno di conciliare la professione con le mille distrazioni causate dalla vita di casa, dai figli alle mille piccole mansioni da svolgersi tra le mura domestiche. Se, da una parte, abbiamo le pene del lavoro a distanza, chi è in età scolare ha a sua volta le sue belle gatte da pelare alle prese con la DAD, ossia la didattica a distanza, che secondo molti dovrebbe essere chiamata più realisticamente DDE, didattica di emergenza: in poche settimane, grazie allo sforzo congiunto di docenti, studenti e delle loro famiglie, la maggior parte delle scuole è riuscita ad attivare soluzioni di distance learning (questo il nome inglese della DAD) con classi o aule virtuali, chiamate anche, con la consueta anglofilia, smart o virtual classroom, mentre sempre sulla linea dello smart working qualcuno ha anche coniato smart schooling e smart learning, come se, in buona sostanza, smart volesse dire “digitale” in senso lato. In ogni caso, la e-school non va confusa con il concetto di home schooling, ‘istruzione parentale’, 1993, ossia “impartita nell’ambito famigliare dai genitori o da insegnanti di loro scelta”, che è cosa ben diversa da quanto sta succedendo adesso, dato che l’istruzione parentale deriva da una precisa scelta della famiglia: è elettiva, dunque, e non dettata dalle circostanze, tranne che in rari casi. E così, tra una videoconferenza, una videolezione, un webinar (composto di web e [sem]inar, 2007), una lezione in streaming (dal verbo inglese to stream ‘scorrere, fluire’, “accesso a file audiovisivi direttamente dalla rete”), abbiamo passato due mesi in lockdown o isolamento domestico preventivo, serrata, clausura, confinamento, chiusura, scegliete voi come chiamarlo: ma prendiamo atto del fatto che lockdown è di fatto diventato il termine per indicare specificamente questa particolare situazione, come quando ci si riferisce agli uragani chiamandoli per nome; e pazienza se il termine inglese non è trasparente per tutti, perché tutti sappiamo comunque a cosa si riferisce. Adesso siamo pronti per le prossime fasi?
2020
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