Febbraio non è mai un mese facile per la salute: oltre ai consueti malanni stagionali, rispetto ai quali non siamo certo aiutati dagli sbalzi di temperatura che caratterizzano queste settimane, osserviamo con preoccupazione l’evoluzione della più recente epidemia, quella da coronavirus. Lascio ai colleghi scienziati l’onere di approfondire la questione da un punto di vista specialistico; ciononostante, anche io da linguista riesco a fare qualcosa. Poiché si ha ancora più paura di ciò che non si conosce o non si comprende bene, può essere utile passare in rassegna i termini che in questi giorni sentiamo spesso, ma che magari non ci sono così familiari. Magari così posso, nel mio piccolo, contribuire alla necessaria conoscenza del fenomeno. Partiamo proprio da coronavìrus: si chiama così per le punte a forma di corona che sono presenti sulla loro superficie, visibili al microscopio elettronico. E la parola indica “ogni virus del genere Coronavirus, che infetta l’uomo e molti animali”; nell’uomo è un’importante causa del raffreddore e della polmonite atipica”. Quindi quello attuale è un coronavirus nuovo, che non era mai stato identificato nella specie umana, ma non il coronavirus per eccellenza; il suo “nome ufficiale”, quello assegnatogli dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è 2019-nCoV, in cui la n sta per novel, cioè “nuovo”. Vìrus (1801), dal canto suo, deriva dal latino, e indicava originariamente “umore viscoso, veleno”; in passato era riferito a “ogni agente infettivo microbico o di origine microbica”, mentre oggi, in senso proprio, in biologia indica più precisamente un “agente infettivo, di forma sferoidale o poliedrica con un diametro fra i 15 e i 300 nm, non osservabile coi microscopi ottici, filtrabile attraverso le membrane impermeabili ai comuni batteri; vive e si riproduce all’interno di cellule viventi”. Il che ci porta a mìcrobo (1836), originariamente micròbio: dal tedesco Mikrobe, composto del greco mikrós “piccolo” e bíos “vita”, è un “organismo piccolissimo, unicellulare o pluricellulare, visibile solo al microscopio”; comunemente la parola è usata per indicare un “microrganismo capace di provocare una malattia infettiva” (o, per estensione, una persona meschina e insignificante: “spòstati, microbo!”). Il battèrio (1888) dal canto suo, deve il suo nome al latino scientifico bacteriu(m), dal greco baktḗrion ‘bastoncino’, ed è un “microrganismo unicellulare senza nucleo distinto”, diverso dal bacìllo (1888, dal latino bacīllu(m) ‘bastoncello’, diminutivo di băculum), “batterio a forma di bastoncello utile come agente di molte fermentazioni o pericoloso portatore di malattie”, ma anche dal gèrme (1374), dal latino gĕrme(n), da *gĕnmen, della stessa radice di gĭgnere ‘nascere, generare’, che viene talvolta usato in senso figurato per indicare qualcosa che è agli inizi e di conseguenza si parla di gèrme patògeno, cioè che provoca una malattia, per un virus o un batterio. Tutto questo ci porta all’acciacco principale di questo periodo, causato da un virus, appunto, che è l’influènza: dal latino medievale influĕntia(m), propriamente “lo scorrere (dentro)”, dal verbo inflŭere, è una parola molto antica, risalendo al 1282. In campo medico significa “malattia infettiva acuta, contagiosa, specialmente delle vie aeree superiori, di origine virale”: ricordate due grandi influenze del recente passato, ossia l’influenza aviaria e l’influenza suina? Ci sono due termini citati particolarmente spesso dai media di questi tempi: epidemia e pandemia. Vediamoli meglio. Epidemìa (1282), dal greco epidēmía, da epídēmos “generale, pubblico”, composto di epí– e dêmos “popolo”, in senso proprio indica la “manifestazione improvvisa di una malattia infettiva che si diffonde rapidamente tra gli individui di una stessa area”; con l’attuale “rimpicciolimento” del globo terrestre dovuto alla maggior possibilità di spostamenti veloci anche da un continente all’altro è chiaramente diventato molto più difficile circoscrivere un’epidemia per evitare che possa diventare una pandemìa, “epidemia a larghissima estensione, senza limiti di regione o di continente”; qualcosa che, etimologicamente parlando, riguarda “tutto il popolo” (dato che il termine, sempre di origine greca, è composto di pan- “tutto” e dḗmos). Il problema delle pandemie è chiaramente più recente delle epidemie, e infatti il termine è sensibilmente più giovane del precedente: 1821. Caratteristica tipica delle epidemie è il contàgio (secolo XIV): dal latino contāgiu(m), composto di cŭm “con” e un derivato del verbo tăngere “toccare”, è la “trasmissione di malattia infettiva per contatto del malato o di suoi indumenti”. Nel linguaggio corrente contagio viene usato come sinonimo di infezióne (1360, dal latino infectiōne(m), da infĕctus ‘infetto’), ma in ambito medico c’è differenza: l’infezione, infatti, è “stato morboso causato da germi infettivi”. 1919_pandemia L’importante, nel caso di rischio o effettiva esistenza di epidemie, è evitare la psicòsi (1858) da contagio: il modo migliore per evitare fenomeni di paura collettiva sta proprio nel cercare di far circolare le informazioni corrette, dato che spesso la mancanza di conoscenza aumenta i timori delle persone. Una misura per cercare di controllare un’epidemia è di cercare di isolare il focolàio (1875, derivato di focolare) dell’infezione, ossia il “punto di maggior intensità di un fenomeno biologico”. Ogni volta che si individua un possibile focolaio, si può procedere a metterlo in quarantèna (1342), “periodo di isolamento, in origine di quaranta giorni e successivamente anche più breve, di persone o animali colpiti da malattie infettive contagiose o sospette tali”. La lunghezza della quarantena dipende chiaramente dal tempo per cui una persona rimane contagiosa, quindi può variare da patologia a patologia. 2020_02_03_lemma_quarantena2 Nel frattempo, i medici si occupano del malato e della malattìa (1250), cioè dello “stato patologico per alterazione della funzione di un organo o di tutto l’organismo”. La parola proviene da malàtto, variante disusata di malàto, a sua volta dal latino măle hăbitu(m) “che si trova in cattivo stato”. Il paziènte (1292, dal latino patiĕnte(m) “che sopporta, che tollera”, da păti “sopportare, soffrire”) viene trattato con una terapìa (1828, dal greco therapéia, da therápōn “servo”), “parte della medicina che tratta della cura delle malattie”, che da una parte serve per alleviare i sìntomi (1561, dal greco sýmptōma ‘avvenimento fortuito’, da sympíptein ‘accadere’) e dall’altra per la cùra (sec. XII, dal latino cūra(m)) della patologia. Poiché, come dice anche una nota pubblicità, prevenire è meglio che curare, gli scienziati delle varie branche collegate al settore della medicina cercano, per moltissime malattie, un vaccìno (1301), “prodotto batterico o virale che introdotto nell”organismo conferisce uno stato di immunità provocando un processo morboso attenuato, usato per la profilassi delle malattie infettive”. Forse non tutti sanno che vaccino deriva proprio dal latino vaccīnu(m), da văcca. In origine, infatti, il termine era riferito al vaiolo dei bovini (o vaiolo vaccino) e al pus ricavato dalle pustole dei bovini ammalati, usato per praticare l’immunizzazione contro il vaiolo umano. Anche là dove non ci sono vaccini disponibili, abbiamo comunque armi contro le malattie: spesso, infatti, si può ricorrere a un fàrmaco (1442, dal greco phármakon), “sostanza che per le sue proprietà chimiche, chimico-fisiche e fisiche è dotata di virtù terapeutiche”. Nel caso delle malattie causate da batteri, ma non da virus, si usa un antibiòtico (1948, composto di anti– e del greco bíōsis “vita”, detto così perché toglie la vita ai germi), “sostanza di varia struttura chimica prodotta da microrganismi, quali muffe e batteri, od ottenuta per sintesi, con potere batteriostatico o battericida sui principali germi patogeni, usato nelle malattie infettive”. Tra questi, uno dei più famosi è la penicillìna, dal latino penicĭllum “pennello”, diminutivo di penĭculus, propr. “piccola coda”, poi “spazzola, pennello”, a sua volta diminutivo di… pēnis, perché la muffa dalla quale si estraeva originariamente la sostanza è caratterizzata da filamenti che formano una specie di pennello. Esistono poi farmaci chiamati antiviràli (1970) capaci di contrastare le infezioni virali, come l’aciclovir che si usa per le terapie antiherpes. 1928_penicillina In tutti i casi è importante tenere a bada la febbre per mezzo di un medicinale apposito, definito antipirètico (1797) o antifebbrìle, composto di anti- e del greco pyretikós ‘febbrile’ (da pŷr, genitivo pyrós ‘fuoco’). Credo che la prima volta che scoprii la necessità di abbassare la febbre per evitare danni fisici fu leggendo L’isola misteriosa di Jules Verne. Nel libro il giovane Herbert, ammalatosi di malaria durante la permanenza (forzata, dovuta a un naufragio) sull’isola del titolo, viene salvato da morte certa grazie a una bottiglietta di medicinale che misteriosamente compare nella “casa di granito” dove il ragazzo giace moribondo. La comparsa del farmaco si deve al capitano Nemo, che agisce come una sorta di deus ex machina nella vicenda, permettendo al giovane di guarire. E in quella bottiglietta era contenuto del chinìno (1874, da chinina, francese quinine), “sale acido o neutro di chinina, usato come antipiretico e antimalarico”. E in conclusione di questa scheda non poteva mancare la parola più bella di tutte: salùte. Perfino la sua etimologia è importante: dal latino salūte(m), che significa anche “salvezza”, da sălvus “salvo” (1261), è letteralmente il “complesso delle condizioni fisiche in cui si trova, abitualmente o attualmente, un organismo umano” e anche lo “stato di pieno benessere fisico e psichico dell’organismo”. Salute a tutte e tutti; alla fine di questo lungo testo, sento il bisogno di andare a lavarmi a fondo le mani!

La salute vien ricercando: tra influenze, virus e pandemie / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2020).

La salute vien ricercando: tra influenze, virus e pandemie

Vera Gheno
2020

Abstract

Febbraio non è mai un mese facile per la salute: oltre ai consueti malanni stagionali, rispetto ai quali non siamo certo aiutati dagli sbalzi di temperatura che caratterizzano queste settimane, osserviamo con preoccupazione l’evoluzione della più recente epidemia, quella da coronavirus. Lascio ai colleghi scienziati l’onere di approfondire la questione da un punto di vista specialistico; ciononostante, anche io da linguista riesco a fare qualcosa. Poiché si ha ancora più paura di ciò che non si conosce o non si comprende bene, può essere utile passare in rassegna i termini che in questi giorni sentiamo spesso, ma che magari non ci sono così familiari. Magari così posso, nel mio piccolo, contribuire alla necessaria conoscenza del fenomeno. Partiamo proprio da coronavìrus: si chiama così per le punte a forma di corona che sono presenti sulla loro superficie, visibili al microscopio elettronico. E la parola indica “ogni virus del genere Coronavirus, che infetta l’uomo e molti animali”; nell’uomo è un’importante causa del raffreddore e della polmonite atipica”. Quindi quello attuale è un coronavirus nuovo, che non era mai stato identificato nella specie umana, ma non il coronavirus per eccellenza; il suo “nome ufficiale”, quello assegnatogli dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è 2019-nCoV, in cui la n sta per novel, cioè “nuovo”. Vìrus (1801), dal canto suo, deriva dal latino, e indicava originariamente “umore viscoso, veleno”; in passato era riferito a “ogni agente infettivo microbico o di origine microbica”, mentre oggi, in senso proprio, in biologia indica più precisamente un “agente infettivo, di forma sferoidale o poliedrica con un diametro fra i 15 e i 300 nm, non osservabile coi microscopi ottici, filtrabile attraverso le membrane impermeabili ai comuni batteri; vive e si riproduce all’interno di cellule viventi”. Il che ci porta a mìcrobo (1836), originariamente micròbio: dal tedesco Mikrobe, composto del greco mikrós “piccolo” e bíos “vita”, è un “organismo piccolissimo, unicellulare o pluricellulare, visibile solo al microscopio”; comunemente la parola è usata per indicare un “microrganismo capace di provocare una malattia infettiva” (o, per estensione, una persona meschina e insignificante: “spòstati, microbo!”). Il battèrio (1888) dal canto suo, deve il suo nome al latino scientifico bacteriu(m), dal greco baktḗrion ‘bastoncino’, ed è un “microrganismo unicellulare senza nucleo distinto”, diverso dal bacìllo (1888, dal latino bacīllu(m) ‘bastoncello’, diminutivo di băculum), “batterio a forma di bastoncello utile come agente di molte fermentazioni o pericoloso portatore di malattie”, ma anche dal gèrme (1374), dal latino gĕrme(n), da *gĕnmen, della stessa radice di gĭgnere ‘nascere, generare’, che viene talvolta usato in senso figurato per indicare qualcosa che è agli inizi e di conseguenza si parla di gèrme patògeno, cioè che provoca una malattia, per un virus o un batterio. Tutto questo ci porta all’acciacco principale di questo periodo, causato da un virus, appunto, che è l’influènza: dal latino medievale influĕntia(m), propriamente “lo scorrere (dentro)”, dal verbo inflŭere, è una parola molto antica, risalendo al 1282. In campo medico significa “malattia infettiva acuta, contagiosa, specialmente delle vie aeree superiori, di origine virale”: ricordate due grandi influenze del recente passato, ossia l’influenza aviaria e l’influenza suina? Ci sono due termini citati particolarmente spesso dai media di questi tempi: epidemia e pandemia. Vediamoli meglio. Epidemìa (1282), dal greco epidēmía, da epídēmos “generale, pubblico”, composto di epí– e dêmos “popolo”, in senso proprio indica la “manifestazione improvvisa di una malattia infettiva che si diffonde rapidamente tra gli individui di una stessa area”; con l’attuale “rimpicciolimento” del globo terrestre dovuto alla maggior possibilità di spostamenti veloci anche da un continente all’altro è chiaramente diventato molto più difficile circoscrivere un’epidemia per evitare che possa diventare una pandemìa, “epidemia a larghissima estensione, senza limiti di regione o di continente”; qualcosa che, etimologicamente parlando, riguarda “tutto il popolo” (dato che il termine, sempre di origine greca, è composto di pan- “tutto” e dḗmos). Il problema delle pandemie è chiaramente più recente delle epidemie, e infatti il termine è sensibilmente più giovane del precedente: 1821. Caratteristica tipica delle epidemie è il contàgio (secolo XIV): dal latino contāgiu(m), composto di cŭm “con” e un derivato del verbo tăngere “toccare”, è la “trasmissione di malattia infettiva per contatto del malato o di suoi indumenti”. Nel linguaggio corrente contagio viene usato come sinonimo di infezióne (1360, dal latino infectiōne(m), da infĕctus ‘infetto’), ma in ambito medico c’è differenza: l’infezione, infatti, è “stato morboso causato da germi infettivi”. 1919_pandemia L’importante, nel caso di rischio o effettiva esistenza di epidemie, è evitare la psicòsi (1858) da contagio: il modo migliore per evitare fenomeni di paura collettiva sta proprio nel cercare di far circolare le informazioni corrette, dato che spesso la mancanza di conoscenza aumenta i timori delle persone. Una misura per cercare di controllare un’epidemia è di cercare di isolare il focolàio (1875, derivato di focolare) dell’infezione, ossia il “punto di maggior intensità di un fenomeno biologico”. Ogni volta che si individua un possibile focolaio, si può procedere a metterlo in quarantèna (1342), “periodo di isolamento, in origine di quaranta giorni e successivamente anche più breve, di persone o animali colpiti da malattie infettive contagiose o sospette tali”. La lunghezza della quarantena dipende chiaramente dal tempo per cui una persona rimane contagiosa, quindi può variare da patologia a patologia. 2020_02_03_lemma_quarantena2 Nel frattempo, i medici si occupano del malato e della malattìa (1250), cioè dello “stato patologico per alterazione della funzione di un organo o di tutto l’organismo”. La parola proviene da malàtto, variante disusata di malàto, a sua volta dal latino măle hăbitu(m) “che si trova in cattivo stato”. Il paziènte (1292, dal latino patiĕnte(m) “che sopporta, che tollera”, da păti “sopportare, soffrire”) viene trattato con una terapìa (1828, dal greco therapéia, da therápōn “servo”), “parte della medicina che tratta della cura delle malattie”, che da una parte serve per alleviare i sìntomi (1561, dal greco sýmptōma ‘avvenimento fortuito’, da sympíptein ‘accadere’) e dall’altra per la cùra (sec. XII, dal latino cūra(m)) della patologia. Poiché, come dice anche una nota pubblicità, prevenire è meglio che curare, gli scienziati delle varie branche collegate al settore della medicina cercano, per moltissime malattie, un vaccìno (1301), “prodotto batterico o virale che introdotto nell”organismo conferisce uno stato di immunità provocando un processo morboso attenuato, usato per la profilassi delle malattie infettive”. Forse non tutti sanno che vaccino deriva proprio dal latino vaccīnu(m), da văcca. In origine, infatti, il termine era riferito al vaiolo dei bovini (o vaiolo vaccino) e al pus ricavato dalle pustole dei bovini ammalati, usato per praticare l’immunizzazione contro il vaiolo umano. Anche là dove non ci sono vaccini disponibili, abbiamo comunque armi contro le malattie: spesso, infatti, si può ricorrere a un fàrmaco (1442, dal greco phármakon), “sostanza che per le sue proprietà chimiche, chimico-fisiche e fisiche è dotata di virtù terapeutiche”. Nel caso delle malattie causate da batteri, ma non da virus, si usa un antibiòtico (1948, composto di anti– e del greco bíōsis “vita”, detto così perché toglie la vita ai germi), “sostanza di varia struttura chimica prodotta da microrganismi, quali muffe e batteri, od ottenuta per sintesi, con potere batteriostatico o battericida sui principali germi patogeni, usato nelle malattie infettive”. Tra questi, uno dei più famosi è la penicillìna, dal latino penicĭllum “pennello”, diminutivo di penĭculus, propr. “piccola coda”, poi “spazzola, pennello”, a sua volta diminutivo di… pēnis, perché la muffa dalla quale si estraeva originariamente la sostanza è caratterizzata da filamenti che formano una specie di pennello. Esistono poi farmaci chiamati antiviràli (1970) capaci di contrastare le infezioni virali, come l’aciclovir che si usa per le terapie antiherpes. 1928_penicillina In tutti i casi è importante tenere a bada la febbre per mezzo di un medicinale apposito, definito antipirètico (1797) o antifebbrìle, composto di anti- e del greco pyretikós ‘febbrile’ (da pŷr, genitivo pyrós ‘fuoco’). Credo che la prima volta che scoprii la necessità di abbassare la febbre per evitare danni fisici fu leggendo L’isola misteriosa di Jules Verne. Nel libro il giovane Herbert, ammalatosi di malaria durante la permanenza (forzata, dovuta a un naufragio) sull’isola del titolo, viene salvato da morte certa grazie a una bottiglietta di medicinale che misteriosamente compare nella “casa di granito” dove il ragazzo giace moribondo. La comparsa del farmaco si deve al capitano Nemo, che agisce come una sorta di deus ex machina nella vicenda, permettendo al giovane di guarire. E in quella bottiglietta era contenuto del chinìno (1874, da chinina, francese quinine), “sale acido o neutro di chinina, usato come antipiretico e antimalarico”. E in conclusione di questa scheda non poteva mancare la parola più bella di tutte: salùte. Perfino la sua etimologia è importante: dal latino salūte(m), che significa anche “salvezza”, da sălvus “salvo” (1261), è letteralmente il “complesso delle condizioni fisiche in cui si trova, abitualmente o attualmente, un organismo umano” e anche lo “stato di pieno benessere fisico e psichico dell’organismo”. Salute a tutte e tutti; alla fine di questo lungo testo, sento il bisogno di andare a lavarmi a fondo le mani!
2020
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258702
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