Società che Uccide Ogni Libero Alunno: questo era l’acrostico scherzoso costruito su “scuòla” che circolava, ai miei tempi, soprattutto in vista della riapertura degli istituti scolastici. Ecco che, dopo tre mesi di vacanze, gli studenti si apprestano a tornare alle “sudate carte”. In questo stato d’animo di eccitazione mista a preoccupazione (e magari anche un po’ di mestizia per la fine delle ferie) fa un po’ sorridere l’etimologia di scuola: dal latino schŏla(m), che deriva dal greco scholḗ “tempo libero, occupazione studiosa”, connesso con échein “intrattenersi” (sec. XII): credo che molti troveranno ironico che la stessa parola potesse voler dire sia “tempo libero” che “occupazione studiosa”. In questi ultimi giorni, con l’ansia di finire i cómpiti assegnati per le vacanze – e i libri dati in lettura, che magari sono bellissimi, ma che, sottraendo tempo al divertimento estivo, finiscono quasi immancabilmente per essere odiati – si verifica la lista dei lìbri di tèsto, si comprano quadèrni, si rinfresca l’astùccio con nuove pénne e matìte. Ognuna di queste parole racconta una storia interessante. Compito, ad esempio, deriva da compitare, che a sua volta viene dal latino computāre ‘contare’ (1238): in altre parole, compito e computer sono etimologicamente connessi, derivando dallo stesso verbo. Libro (sec. XII) viene dal latino lĭbru(m), accusativo di lĭber, originariamente ‘pellicola tra la corteccia e il legno dell’albero’ che, prima dell’uso del papiro, serviva per scrivervi (fortunati noi che possiamo scrivere sulla carta!). Anche se libro sembra avere l’etimologia in comune con l’aggettivo libero, attenzione, c’è una differenza fondamentale: mentre la i di lĭber (da cui libro) è breve, quella di līber (da cui libero) è lunga. Le due parole, pur somigliandosi, sono differenti e hanno etimologie diverse. Quaderno viene dal latino quatĕrni, nominativo plurale con il significato di ‘a quattro a quattro’ (con riferimento alla legatura dei fogli), da quăttuor ‘quattro’ (1211). Astuccio ci arriva dal provenzale estug (1365); altri lo chiamano portapénne, termine più recente calco del francese porte-plume (1852). Penna, invece, arriva dal latino pĕnna(m), dalla stessa radice di pĕtere ‘dirigersi’ (1250). Più specificamente, la penna a sfera viene anche chiamata pénna bìro o semplicemente bìro. Questo nome ha un’origine affascinante: non tutti sanno che si tratta di un marchio registrato (nel dizionario, accanto al lemma, compare il simbolo ®) che arriva in italiano nel 1948 e che corrisponde al cognome dell’inventore della penna a sfera, László Biró (1899-1985), che era ungherese… proprio come me! Matita, invece, è etimologicamente connessa a un’altra parola che in alcune zone dell’Italia, per esempio qui da me in Toscana, è usata per indicare lo stesso oggetto: làpis. Entrambi i termini, infatti, derivano dall’espressione latina lăpis haematītos, ‘pietra color di sangue’ (1519) perché in antichità le matite, o i lapis, erano fabbricati con l’anima di ematite invece che con la grafite, come successivamente. In maniera singolare, ma non inedita, in lapis è caduto il secondo termine dell’espressione, in matita il primo. Ma tu guarda che stranezze… Adesso che abbiamo sistemato il contenuto, procediamo al contenitore: facciamo la cartèlla (diminutivo di carta, 1553) o forse, più prosaicamente, lo zàino (dal longobardo zaina ‘corbello, cesto’, 1500); negli ultimi anni, a dire il vero, sono sempre più comuni gli zaini trolley (pronuncia corretta /tròli/), voce inglese che deriva da to troll ‘rotolare, girare’ (1894), così che le povere schiene dei ragazzi non siano caricate di troppo peso. Non resta che ritornare alla routine che ci accompagnerà per tre quarti dell’anno: rimettere in funzione la svéglia (dal verbo svegliare, derivato dal provenzale esvelhar, dal latino parlato *exvigilāre, 1276) e prepararsi psicologicamente a una levatàccia: il suffisso -accia non fa pensare a nulla di buono (il termine deriva dal latino levāre, originariamente ‘alleggerire’, 1306); ma è l’unico modo per arrivare in tempo per il suono della campanèlla (diminutivo di campana, dal latino tardo campāna(m), da (vāsa) campāna ‘vasi di bronzo della Campania, 1265) e accomodarsi al bànco (dal fràncone bank ‘tavola, asse’, 1257) in clàsse (dal latino clăsse(m), probabilmente di origine etrusca, 1321). In fondo, sono sicura che a molti farà piacere rincontrare i compàgni (latino medievale companio ‘che mangia lo stesso pane’, 1211), ma anche i maèstri o i professóri. Maestro (secolo XII), pronunciabile anche maéstro, viene dal latino magĭstru(m), da *magĭsteros, composto di māgis ‘più’ e il suffisso -tero che indicava opposizione fra due; il magĭster era dunque ‘il più forte, il maggiore’. Professore arriva a noi dal latino professōre(m), dal verbo profiteri che significava ‘dichiarare’ ma anche ‘insegnare pubblicamente’. Tra qualche tempo, arriverà anche il momento delle prime interrogazióni (dal latino interrogāre, composto di ĭnter ‘fra’ e rogāre ‘chiedere, 1311), magari andando alla lavàgna, come si faceva una volta. A proposito di lavagna, lo sapevate che il nome deriva proprio dal toponimo ligure Lavagna, dove si estraeva l’ardesia con la quale una volta si fabbricavano le lavagne? Magari, con l’avvento delle LIM, lavàgne interattìve multimediàli (2007), a qualche nostalgico mancheranno il gèsso (latino gy̆psu(m), dal greco gýpsos, sec. XIII) e quella che io, in Toscana, ho sempre chiamato cimósa, ma che forse alcuni conoscono piuttosto come cancellìno o cassìno. La cimosa (latino tardo cimŭssa(m), 1430), di per sé è la bordura laterale delle pezze di stoffa, di tessuto più fitto e resistente; di conseguenza, indica la girella di tessuto molto consistente usata per cancellare gli scritti sulla lavagna (alla faccia di tutti gli allergici alla polvere, come me…). C’è una campanella decisamente più piacevole di quella dell’inizio delle lezioni: è quella che segnala il momento dell’intervàllo (latino intervăllu(m), composto di ĭnter ‘tra’ e văllum ‘vallo’, 1268), che almeno la mia generazione chiamava ricreazióne (latino recreatiōne(m), da recreātus ‘ricreato’, 1313), momento importantissimo della giornata perché implica il consumo della merènda; non a caso, questa parola viene dal latino merĕnda(m), neutro plurale del gerundivo del verbo merēre ‘meritare’ (1320). In altre parole, merenda letteralmente significa “cose da meritare” (con il duro lavoro e impegno delle ore precedenti, ovviamente!). Fortuna che ogni giornata scolastica finisce con l’agognato suono dell’ultima campanella, la più piacevole di tutte: ancora adesso, perfino alla mia veneranda età, quando mi capita di fare lezione in una scuola, provo, a quel trillo, la stessa sensazione di liberazione e di sollievo che sentivo da scolaretta. Certe cose non passano proprio mai… Un’annotazione: per questa volta, mi sono concentrata particolarmente sulla storia delle singole parole. A me è saltato all’occhio come molte siano davvero antiche e abbiano tante provenienze diverse. In qualche modo, mi sembra una specie di buon augurio rispetto a ciò che dovrebbe essere la scuola: un luogo non solo di conoscenza, ma anche di incontri tra culture diverse. E buon inizio dell’anno scolastico a tutti, docenti e discenti!

Per chi suona la campanella / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2019).

Per chi suona la campanella

Vera Gheno
2019

Abstract

Società che Uccide Ogni Libero Alunno: questo era l’acrostico scherzoso costruito su “scuòla” che circolava, ai miei tempi, soprattutto in vista della riapertura degli istituti scolastici. Ecco che, dopo tre mesi di vacanze, gli studenti si apprestano a tornare alle “sudate carte”. In questo stato d’animo di eccitazione mista a preoccupazione (e magari anche un po’ di mestizia per la fine delle ferie) fa un po’ sorridere l’etimologia di scuola: dal latino schŏla(m), che deriva dal greco scholḗ “tempo libero, occupazione studiosa”, connesso con échein “intrattenersi” (sec. XII): credo che molti troveranno ironico che la stessa parola potesse voler dire sia “tempo libero” che “occupazione studiosa”. In questi ultimi giorni, con l’ansia di finire i cómpiti assegnati per le vacanze – e i libri dati in lettura, che magari sono bellissimi, ma che, sottraendo tempo al divertimento estivo, finiscono quasi immancabilmente per essere odiati – si verifica la lista dei lìbri di tèsto, si comprano quadèrni, si rinfresca l’astùccio con nuove pénne e matìte. Ognuna di queste parole racconta una storia interessante. Compito, ad esempio, deriva da compitare, che a sua volta viene dal latino computāre ‘contare’ (1238): in altre parole, compito e computer sono etimologicamente connessi, derivando dallo stesso verbo. Libro (sec. XII) viene dal latino lĭbru(m), accusativo di lĭber, originariamente ‘pellicola tra la corteccia e il legno dell’albero’ che, prima dell’uso del papiro, serviva per scrivervi (fortunati noi che possiamo scrivere sulla carta!). Anche se libro sembra avere l’etimologia in comune con l’aggettivo libero, attenzione, c’è una differenza fondamentale: mentre la i di lĭber (da cui libro) è breve, quella di līber (da cui libero) è lunga. Le due parole, pur somigliandosi, sono differenti e hanno etimologie diverse. Quaderno viene dal latino quatĕrni, nominativo plurale con il significato di ‘a quattro a quattro’ (con riferimento alla legatura dei fogli), da quăttuor ‘quattro’ (1211). Astuccio ci arriva dal provenzale estug (1365); altri lo chiamano portapénne, termine più recente calco del francese porte-plume (1852). Penna, invece, arriva dal latino pĕnna(m), dalla stessa radice di pĕtere ‘dirigersi’ (1250). Più specificamente, la penna a sfera viene anche chiamata pénna bìro o semplicemente bìro. Questo nome ha un’origine affascinante: non tutti sanno che si tratta di un marchio registrato (nel dizionario, accanto al lemma, compare il simbolo ®) che arriva in italiano nel 1948 e che corrisponde al cognome dell’inventore della penna a sfera, László Biró (1899-1985), che era ungherese… proprio come me! Matita, invece, è etimologicamente connessa a un’altra parola che in alcune zone dell’Italia, per esempio qui da me in Toscana, è usata per indicare lo stesso oggetto: làpis. Entrambi i termini, infatti, derivano dall’espressione latina lăpis haematītos, ‘pietra color di sangue’ (1519) perché in antichità le matite, o i lapis, erano fabbricati con l’anima di ematite invece che con la grafite, come successivamente. In maniera singolare, ma non inedita, in lapis è caduto il secondo termine dell’espressione, in matita il primo. Ma tu guarda che stranezze… Adesso che abbiamo sistemato il contenuto, procediamo al contenitore: facciamo la cartèlla (diminutivo di carta, 1553) o forse, più prosaicamente, lo zàino (dal longobardo zaina ‘corbello, cesto’, 1500); negli ultimi anni, a dire il vero, sono sempre più comuni gli zaini trolley (pronuncia corretta /tròli/), voce inglese che deriva da to troll ‘rotolare, girare’ (1894), così che le povere schiene dei ragazzi non siano caricate di troppo peso. Non resta che ritornare alla routine che ci accompagnerà per tre quarti dell’anno: rimettere in funzione la svéglia (dal verbo svegliare, derivato dal provenzale esvelhar, dal latino parlato *exvigilāre, 1276) e prepararsi psicologicamente a una levatàccia: il suffisso -accia non fa pensare a nulla di buono (il termine deriva dal latino levāre, originariamente ‘alleggerire’, 1306); ma è l’unico modo per arrivare in tempo per il suono della campanèlla (diminutivo di campana, dal latino tardo campāna(m), da (vāsa) campāna ‘vasi di bronzo della Campania, 1265) e accomodarsi al bànco (dal fràncone bank ‘tavola, asse’, 1257) in clàsse (dal latino clăsse(m), probabilmente di origine etrusca, 1321). In fondo, sono sicura che a molti farà piacere rincontrare i compàgni (latino medievale companio ‘che mangia lo stesso pane’, 1211), ma anche i maèstri o i professóri. Maestro (secolo XII), pronunciabile anche maéstro, viene dal latino magĭstru(m), da *magĭsteros, composto di māgis ‘più’ e il suffisso -tero che indicava opposizione fra due; il magĭster era dunque ‘il più forte, il maggiore’. Professore arriva a noi dal latino professōre(m), dal verbo profiteri che significava ‘dichiarare’ ma anche ‘insegnare pubblicamente’. Tra qualche tempo, arriverà anche il momento delle prime interrogazióni (dal latino interrogāre, composto di ĭnter ‘fra’ e rogāre ‘chiedere, 1311), magari andando alla lavàgna, come si faceva una volta. A proposito di lavagna, lo sapevate che il nome deriva proprio dal toponimo ligure Lavagna, dove si estraeva l’ardesia con la quale una volta si fabbricavano le lavagne? Magari, con l’avvento delle LIM, lavàgne interattìve multimediàli (2007), a qualche nostalgico mancheranno il gèsso (latino gy̆psu(m), dal greco gýpsos, sec. XIII) e quella che io, in Toscana, ho sempre chiamato cimósa, ma che forse alcuni conoscono piuttosto come cancellìno o cassìno. La cimosa (latino tardo cimŭssa(m), 1430), di per sé è la bordura laterale delle pezze di stoffa, di tessuto più fitto e resistente; di conseguenza, indica la girella di tessuto molto consistente usata per cancellare gli scritti sulla lavagna (alla faccia di tutti gli allergici alla polvere, come me…). C’è una campanella decisamente più piacevole di quella dell’inizio delle lezioni: è quella che segnala il momento dell’intervàllo (latino intervăllu(m), composto di ĭnter ‘tra’ e văllum ‘vallo’, 1268), che almeno la mia generazione chiamava ricreazióne (latino recreatiōne(m), da recreātus ‘ricreato’, 1313), momento importantissimo della giornata perché implica il consumo della merènda; non a caso, questa parola viene dal latino merĕnda(m), neutro plurale del gerundivo del verbo merēre ‘meritare’ (1320). In altre parole, merenda letteralmente significa “cose da meritare” (con il duro lavoro e impegno delle ore precedenti, ovviamente!). Fortuna che ogni giornata scolastica finisce con l’agognato suono dell’ultima campanella, la più piacevole di tutte: ancora adesso, perfino alla mia veneranda età, quando mi capita di fare lezione in una scuola, provo, a quel trillo, la stessa sensazione di liberazione e di sollievo che sentivo da scolaretta. Certe cose non passano proprio mai… Un’annotazione: per questa volta, mi sono concentrata particolarmente sulla storia delle singole parole. A me è saltato all’occhio come molte siano davvero antiche e abbiano tante provenienze diverse. In qualche modo, mi sembra una specie di buon augurio rispetto a ciò che dovrebbe essere la scuola: un luogo non solo di conoscenza, ma anche di incontri tra culture diverse. E buon inizio dell’anno scolastico a tutti, docenti e discenti!
2019
Vera Gheno
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258707
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