Bando alle ciance! È giunto il momento di esplorare uno dei tanti lati oscuri del genere umano: quello che spinge una persona a essere prepotente, violenta nelle parole e/o nei fatti, prevaricante verso gli altri. Sto parlando del fenomeno del bullìsmo e dei suoi annessi e connessi; e qui, come di consueto, mi soffermerò sulle parole che descrivono questi fenomeni. Il sostantivo (del 1958), come pure bullàggine (la caratteristica di chi si comporta da bullo), il verbo bullizzàre (più recente, dato che risale al 2000) e l’aggettivo bullìstico (1994) sono tutti derivati di bùllo (anticamente anche bùlo), che, sorpresa sorpresa, è parola mediamente antica (1547), ma di etimologia incerta. Alcuni dizionari etimologici lo mettono in relazione con l’inglese bully che potrebbe essere arrivato in inglese a metà del XVI secolo dal Medio Olandese boele ‘amante’, acquisendo senso negativo solo nel tardo XVII secolo. Ma evidentemente, se lo Zingarelli preferisce lasciarci nell’incertezza, è perché questa ricostruzione, seppur affascinante, non convince tutti. In ogni caso, bullo indica oggi un giovane prepotente e per estensione anche un bellimbùsto (composto di bello e busto, 1665), una persona che si mette in mostra con spavalderia: a una certa generazione verrà in mente subito il personaggio di Danny Zuko in Grease, in italiano Brillantina, interpretato da un giovanissimo John Travolta. Purtroppo, al di là di interpretazioni romantiche, sia il bullismo che la sua evoluzione “digitale”, il cyberbullìsmo (2006, pronunciato o /saiberbullìsmo/ o /ciberbullìsmo/) sono problemi seri e che meritano la nostra attenzione. Poiché riguarda soprattutto minori e consiste in atti molesti o persecutori contro di loro, se ne discute moltissimo nelle scuole. Chiaramente, per quanto ci sia bisogno di leggi e regole mirate, una prima, essenziale linea di difesa sta nel rendere i ragazzi consapevoli del problema, che a volte si presenta in maniera poco evidente (per esempio, la messa alla berlina di qualcuno sui social, o la sua metodica esclusione dalla chat WhatsApp della classe: segnali da non sottovalutare). Ma torniamo alle parole. Quando una o più persone non se la prendono con gli altri, ma invece devastano qualcosa per il puro gusto della violenza, non si parlerà più di bullismo bensì di vandalìsmo o di atto vandàlico. Il perpetratore di tali atti è, chiaramente, il vàndalo, dal nome di un’antica popolazione germanica che invase a più riprese i territori dell’Impero romano d’occidente – i Vandali, appunto, da ricollegare al tedesco wandeln ‘vagare, peregrinare’ – che, nel V secolo, assalirono e saccheggiarono perfino Roma. Ed è proprio per questi atti incivili e violenti che il nome di quel popolo designa, sin dal 1342, chiunque distrugga cose, soprattutto pubbliche o di valore artistico, per puro e semplice divertimento. Oltre che vandalo, chi compie atti violenti o vandalici è chiamato anche guàppo (dal latino văppa[m] ‘uomo corrotto’), oppure più comunemente teppìsta; il termine è un derivato di teppìsmo, che a sua volta viene da téppa, voce lombarda di origine prelatina che significava “zolla d’erba”. Questo nome venne assunto da una “società di rissosi compagnoni milanesi, chiamatasi scherzosamente Compagnia della Teppa, che negli anni 1816-17 si riuniva nei prati del Castello Sforzesco, ricoperti di borraccina”, ossia “muschio con fusticini in parte sdraiati e ricchi di foglie a margini dentellati”, chiamato anche… teppa. Per estensione, la teppa è poi diventata la feccia, la gentaglia, soprattutto quella delle grandi città. Gli inglesi chiamano i teppisti anche teddy boy, che originariamente indicava il ragazzo (boy) vestito alla moda del regno di Edoardo VII, Edward detto Teddy, ma che adesso richiama piuttosto i loschissimi e disturbati figuri di Arancia Meccanica, il terrificante film di Stanley Kubrick. Quando il comportamento vessatorio viene esercitato in ambito sentimentale si parla invece di stalking; chi lo commette è un molestatóre ossia uno stalker (1979, voce inglese che letteralmente significa pedinatore). Poiché è stato il termine stalker ad assestarsi nella nostra lingua, mentre il verbo to stalk è molto meno conosciuto, il verbo italiano stalkeràre si forma proprio da questo sostantivo (e non è *stalkare, come sarebbe stato se fosse derivato dal verbo inglese e non dal sostantivo, esattamente come da spoiler è venuto spoilerare e non *spoilare). Ovviamente, con l’avvento dei nuovi media, sono nati anche i cyberstalker, anche se per ora questa definizione non è rintracciabile nel dizionario. Un ulteriore tipo di comportamento persecutorio, fatto soprattutto di violenze psicologiche all’interno di un gruppo, di una comunità, dell’ambiente di lavoro, della scuola o di una famiglia, vòlto a isolare una singola persona, è il mòbbing (1974), dall’inglese to mob ‘assalire’, con il relativo verbo mobbizzare; più specifici del contesto lavorativo sono il bòssing, una forma di mobbing esercitata da un superiore verso un sottoposto, e lo straining, in inglese ‘tensione, logorio’, definito anch’esso come il comportamento ostile di un superiore nei confronti di un subalterno che può manifestarsi con l’isolamento, il demansionamento o attacchi alla reputazione. Infine, c’è un teppista, un guappo, un vandalo che agisce quasi esclusivamente con le parole, possibilmente nascosto dietro a uno schermo: gli inglesi lo chiamano hater (che qui in Italia molti pronunciano con la h muta, /éiter/), noi potremmo chiamarlo odiatore, che è colui che usa la rete e in particolare i social network per offendere e denigrare. Ma io preferisco chiamarlo in un altro modo ancora: leone da tastiera. Quello che, una volta che lo incontri dal vivo, è sovente tenero e innocuo come un vero gattino: nulla a che vedere con l’immagine poderosa e violenta che proiettava di sé in rete. E allora, dato che, come mi ricorda il mio compagno di studi e di ricerche Bruno Mastroianni, i gattini sono uno dei contenuti più di successo da condividere in rete, perché non fare prima? Quando vogliamo essere davvero popolari in Rete, non perdiamo tempo a proiettare l’immagine del leone che non siamo: facciamo direttamente i gattini! La Rete ne guadagnerà. MIAO a tutti!

Bullismo: un viaggio tra le parole che non vorresti mai sentire / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2019).

Bullismo: un viaggio tra le parole che non vorresti mai sentire

Vera Gheno
2019

Abstract

Bando alle ciance! È giunto il momento di esplorare uno dei tanti lati oscuri del genere umano: quello che spinge una persona a essere prepotente, violenta nelle parole e/o nei fatti, prevaricante verso gli altri. Sto parlando del fenomeno del bullìsmo e dei suoi annessi e connessi; e qui, come di consueto, mi soffermerò sulle parole che descrivono questi fenomeni. Il sostantivo (del 1958), come pure bullàggine (la caratteristica di chi si comporta da bullo), il verbo bullizzàre (più recente, dato che risale al 2000) e l’aggettivo bullìstico (1994) sono tutti derivati di bùllo (anticamente anche bùlo), che, sorpresa sorpresa, è parola mediamente antica (1547), ma di etimologia incerta. Alcuni dizionari etimologici lo mettono in relazione con l’inglese bully che potrebbe essere arrivato in inglese a metà del XVI secolo dal Medio Olandese boele ‘amante’, acquisendo senso negativo solo nel tardo XVII secolo. Ma evidentemente, se lo Zingarelli preferisce lasciarci nell’incertezza, è perché questa ricostruzione, seppur affascinante, non convince tutti. In ogni caso, bullo indica oggi un giovane prepotente e per estensione anche un bellimbùsto (composto di bello e busto, 1665), una persona che si mette in mostra con spavalderia: a una certa generazione verrà in mente subito il personaggio di Danny Zuko in Grease, in italiano Brillantina, interpretato da un giovanissimo John Travolta. Purtroppo, al di là di interpretazioni romantiche, sia il bullismo che la sua evoluzione “digitale”, il cyberbullìsmo (2006, pronunciato o /saiberbullìsmo/ o /ciberbullìsmo/) sono problemi seri e che meritano la nostra attenzione. Poiché riguarda soprattutto minori e consiste in atti molesti o persecutori contro di loro, se ne discute moltissimo nelle scuole. Chiaramente, per quanto ci sia bisogno di leggi e regole mirate, una prima, essenziale linea di difesa sta nel rendere i ragazzi consapevoli del problema, che a volte si presenta in maniera poco evidente (per esempio, la messa alla berlina di qualcuno sui social, o la sua metodica esclusione dalla chat WhatsApp della classe: segnali da non sottovalutare). Ma torniamo alle parole. Quando una o più persone non se la prendono con gli altri, ma invece devastano qualcosa per il puro gusto della violenza, non si parlerà più di bullismo bensì di vandalìsmo o di atto vandàlico. Il perpetratore di tali atti è, chiaramente, il vàndalo, dal nome di un’antica popolazione germanica che invase a più riprese i territori dell’Impero romano d’occidente – i Vandali, appunto, da ricollegare al tedesco wandeln ‘vagare, peregrinare’ – che, nel V secolo, assalirono e saccheggiarono perfino Roma. Ed è proprio per questi atti incivili e violenti che il nome di quel popolo designa, sin dal 1342, chiunque distrugga cose, soprattutto pubbliche o di valore artistico, per puro e semplice divertimento. Oltre che vandalo, chi compie atti violenti o vandalici è chiamato anche guàppo (dal latino văppa[m] ‘uomo corrotto’), oppure più comunemente teppìsta; il termine è un derivato di teppìsmo, che a sua volta viene da téppa, voce lombarda di origine prelatina che significava “zolla d’erba”. Questo nome venne assunto da una “società di rissosi compagnoni milanesi, chiamatasi scherzosamente Compagnia della Teppa, che negli anni 1816-17 si riuniva nei prati del Castello Sforzesco, ricoperti di borraccina”, ossia “muschio con fusticini in parte sdraiati e ricchi di foglie a margini dentellati”, chiamato anche… teppa. Per estensione, la teppa è poi diventata la feccia, la gentaglia, soprattutto quella delle grandi città. Gli inglesi chiamano i teppisti anche teddy boy, che originariamente indicava il ragazzo (boy) vestito alla moda del regno di Edoardo VII, Edward detto Teddy, ma che adesso richiama piuttosto i loschissimi e disturbati figuri di Arancia Meccanica, il terrificante film di Stanley Kubrick. Quando il comportamento vessatorio viene esercitato in ambito sentimentale si parla invece di stalking; chi lo commette è un molestatóre ossia uno stalker (1979, voce inglese che letteralmente significa pedinatore). Poiché è stato il termine stalker ad assestarsi nella nostra lingua, mentre il verbo to stalk è molto meno conosciuto, il verbo italiano stalkeràre si forma proprio da questo sostantivo (e non è *stalkare, come sarebbe stato se fosse derivato dal verbo inglese e non dal sostantivo, esattamente come da spoiler è venuto spoilerare e non *spoilare). Ovviamente, con l’avvento dei nuovi media, sono nati anche i cyberstalker, anche se per ora questa definizione non è rintracciabile nel dizionario. Un ulteriore tipo di comportamento persecutorio, fatto soprattutto di violenze psicologiche all’interno di un gruppo, di una comunità, dell’ambiente di lavoro, della scuola o di una famiglia, vòlto a isolare una singola persona, è il mòbbing (1974), dall’inglese to mob ‘assalire’, con il relativo verbo mobbizzare; più specifici del contesto lavorativo sono il bòssing, una forma di mobbing esercitata da un superiore verso un sottoposto, e lo straining, in inglese ‘tensione, logorio’, definito anch’esso come il comportamento ostile di un superiore nei confronti di un subalterno che può manifestarsi con l’isolamento, il demansionamento o attacchi alla reputazione. Infine, c’è un teppista, un guappo, un vandalo che agisce quasi esclusivamente con le parole, possibilmente nascosto dietro a uno schermo: gli inglesi lo chiamano hater (che qui in Italia molti pronunciano con la h muta, /éiter/), noi potremmo chiamarlo odiatore, che è colui che usa la rete e in particolare i social network per offendere e denigrare. Ma io preferisco chiamarlo in un altro modo ancora: leone da tastiera. Quello che, una volta che lo incontri dal vivo, è sovente tenero e innocuo come un vero gattino: nulla a che vedere con l’immagine poderosa e violenta che proiettava di sé in rete. E allora, dato che, come mi ricorda il mio compagno di studi e di ricerche Bruno Mastroianni, i gattini sono uno dei contenuti più di successo da condividere in rete, perché non fare prima? Quando vogliamo essere davvero popolari in Rete, non perdiamo tempo a proiettare l’immagine del leone che non siamo: facciamo direttamente i gattini! La Rete ne guadagnerà. MIAO a tutti!
2019
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258718
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