La tecnologia è utile e ci aiuta a vivere meglio. Ciò non toglie che a tratti possa diventare spaventosa, soprattutto quando ci ritroviamo davanti parole, italiane e inglesi, sigle e espressioni il cui significato può essere poco chiaro. Vediamone alcune. Si sente spesso parlare di IOT, che a un abitante di Firenze, come lo sono io, fa pensare subito all’Istituto Ortopedico Toscano, uno degli ospedali cittadini! In realtà sta per Internet of Things, “Internet delle cose”, o, ancora meglio, “degli oggetti”: serve per indicare l’estensione della rete agli oggetti che ci circondano, come il mio robottino aspirapolvere che posso attivare e monitoràre, ossia tenere sotto controllo, tramite un’app (un’applicazione, “programma o insieme di programmi destinato a impieghi specifici come elaborazione di testi, gestione di database, contabilità”) che ho sul cellulare. Tra l’altro, quest’ultimo deve il suo nome all’espressione telefono cellulare, che nulla ha a che vedere con le cellule, bensì alle celle: è, infatti, un “telefono portatile che impiega una rete di comunicazioni ad alta frequenza basata su numerosi ripetitori che coprono ‘celle’ di territorio del raggio di circa 20 km”; a rigor di logica, quindi, dovevamo chiamarlo *cellare! smartphone Questi sono tutti esempi di una vita ormai iperconnéssa, in cui, in altre parole, la connessione è diffusa su amplissima scala: così tanto che un filosofo contemporaneo, Luciano Floridi, ha coniato un’espressione, che al momento non compare nei dizionari perché di diffusione troppo recente e troppo limitata, per definire quello stato perenne di oscillazione tra online e offline che caratterizza oggi l’esistenza di molti: onlife (da on+life, “vita” in inglese). iperconnesso Vivere iperconnessi ha suoi vantaggi, ad esempio non doversi portare continuamente appresso hard disk (“dischi rigidi”), pendrive (“chiavette” USB) o altri sistemi di archiviazione dei dati, potendoli archiviare sul cloud, in italiano nuvola (2007), “insieme di risorse hardware e software di server remoti che ospitano i programmi e i dati di un utente”, alla quale accedere da qualsiasi dispositivo, o device, connesso a Internet. E se vogliamo usare la parola inglese cloud, ricordiamoci di pronunciarla bene: /clàud/ e non /*clòd/ o /*clùd/, come a volte si sente in giro. Ma attenzione: la propria “nuvola” va protetta con una password, o parola d’ordine, a prova di ficcanaso e malintenzionati! Uno degli aggettivi ricorrenti di questo strano presente che stiamo vivendo è interattìvo, che indica un “programma o componente che consente all’utente di interagire con un elaboratore, determinandone il funzionamento: schermo interattivo; lavagna interattiva” e anche un “sistema che consente all’utente di modificare una trama, uno spettacolo”; qualche mio coetaneo, adeguatamente “dinosauro”, forse si ricorderà di uno dei primi, bellissimi esperimenti di libro interattivo, completamente analogico (cioè non digitale): il librogame, un romanzo che non prevede(va) una lettura lineare ma permetteva, in diversi punti del testo, di operare delle scelte che facevano andare la storia in una direzione diversa. Le nostre città si stanno evolvendo in smart city, città in cui le tecnologie innovative dovrebbero contribuire a rendere più alta la qualità della vita degli abitanti; al contempo, dopo lo smartphone, tradotto scherzosamente come furbòfono, prende piede lo smart watch, orologio da polso che, in parte, svolge le funzioni del telefonino, e perfino gli smart glasses, occhiali che permettono di vedere messaggi sulle lenti ma anche di creare situazioni di realtà aumentata, una particolare tecnologia che sovrappone immagini virtuali a quelle del mondo reale, creando, innanzi ai nostri occhi, una specie di mondo “misto” tra reale e virtuale. augmented reality L’ultimo passo, in questa corsa a un futuro quasi alla Blade Runner, potrebbe essere, secondo alcuni, il pagamento di tutti i nostri conti tramite criptovalùta o criptomonéta, una sorta di “moneta virtuale gestita da una rete di computer, caratterizzata da accentuata crittografia al fine di rendere sicure le transazioni, le quali avvengono pertanto online al di fuori dei circuiti bancari e dei relativi controlli fiscali”; la più famosa è sicuramente il bitcoin, “unità di una criptomoneta creata nel 2008 da un ignoto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto”. Il nome deriva dall’unione di bit+coin “moneta”. Bit è un termine inglese che nasce dall’ibridazione di bi(nary)+(digi)t, propriamente “cifra binaria”, ed è l’unità di misura della quantità di informazione. Ma per approfondire il discorso sulle criptovalute, credo di avere davvero bisogno di rimettermi a studiare…

Connessioni linguistiche Le nuove parole della tecnologia digitale / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2019).

Connessioni linguistiche Le nuove parole della tecnologia digitale

Vera Gheno
2019

Abstract

La tecnologia è utile e ci aiuta a vivere meglio. Ciò non toglie che a tratti possa diventare spaventosa, soprattutto quando ci ritroviamo davanti parole, italiane e inglesi, sigle e espressioni il cui significato può essere poco chiaro. Vediamone alcune. Si sente spesso parlare di IOT, che a un abitante di Firenze, come lo sono io, fa pensare subito all’Istituto Ortopedico Toscano, uno degli ospedali cittadini! In realtà sta per Internet of Things, “Internet delle cose”, o, ancora meglio, “degli oggetti”: serve per indicare l’estensione della rete agli oggetti che ci circondano, come il mio robottino aspirapolvere che posso attivare e monitoràre, ossia tenere sotto controllo, tramite un’app (un’applicazione, “programma o insieme di programmi destinato a impieghi specifici come elaborazione di testi, gestione di database, contabilità”) che ho sul cellulare. Tra l’altro, quest’ultimo deve il suo nome all’espressione telefono cellulare, che nulla ha a che vedere con le cellule, bensì alle celle: è, infatti, un “telefono portatile che impiega una rete di comunicazioni ad alta frequenza basata su numerosi ripetitori che coprono ‘celle’ di territorio del raggio di circa 20 km”; a rigor di logica, quindi, dovevamo chiamarlo *cellare! smartphone Questi sono tutti esempi di una vita ormai iperconnéssa, in cui, in altre parole, la connessione è diffusa su amplissima scala: così tanto che un filosofo contemporaneo, Luciano Floridi, ha coniato un’espressione, che al momento non compare nei dizionari perché di diffusione troppo recente e troppo limitata, per definire quello stato perenne di oscillazione tra online e offline che caratterizza oggi l’esistenza di molti: onlife (da on+life, “vita” in inglese). iperconnesso Vivere iperconnessi ha suoi vantaggi, ad esempio non doversi portare continuamente appresso hard disk (“dischi rigidi”), pendrive (“chiavette” USB) o altri sistemi di archiviazione dei dati, potendoli archiviare sul cloud, in italiano nuvola (2007), “insieme di risorse hardware e software di server remoti che ospitano i programmi e i dati di un utente”, alla quale accedere da qualsiasi dispositivo, o device, connesso a Internet. E se vogliamo usare la parola inglese cloud, ricordiamoci di pronunciarla bene: /clàud/ e non /*clòd/ o /*clùd/, come a volte si sente in giro. Ma attenzione: la propria “nuvola” va protetta con una password, o parola d’ordine, a prova di ficcanaso e malintenzionati! Uno degli aggettivi ricorrenti di questo strano presente che stiamo vivendo è interattìvo, che indica un “programma o componente che consente all’utente di interagire con un elaboratore, determinandone il funzionamento: schermo interattivo; lavagna interattiva” e anche un “sistema che consente all’utente di modificare una trama, uno spettacolo”; qualche mio coetaneo, adeguatamente “dinosauro”, forse si ricorderà di uno dei primi, bellissimi esperimenti di libro interattivo, completamente analogico (cioè non digitale): il librogame, un romanzo che non prevede(va) una lettura lineare ma permetteva, in diversi punti del testo, di operare delle scelte che facevano andare la storia in una direzione diversa. Le nostre città si stanno evolvendo in smart city, città in cui le tecnologie innovative dovrebbero contribuire a rendere più alta la qualità della vita degli abitanti; al contempo, dopo lo smartphone, tradotto scherzosamente come furbòfono, prende piede lo smart watch, orologio da polso che, in parte, svolge le funzioni del telefonino, e perfino gli smart glasses, occhiali che permettono di vedere messaggi sulle lenti ma anche di creare situazioni di realtà aumentata, una particolare tecnologia che sovrappone immagini virtuali a quelle del mondo reale, creando, innanzi ai nostri occhi, una specie di mondo “misto” tra reale e virtuale. augmented reality L’ultimo passo, in questa corsa a un futuro quasi alla Blade Runner, potrebbe essere, secondo alcuni, il pagamento di tutti i nostri conti tramite criptovalùta o criptomonéta, una sorta di “moneta virtuale gestita da una rete di computer, caratterizzata da accentuata crittografia al fine di rendere sicure le transazioni, le quali avvengono pertanto online al di fuori dei circuiti bancari e dei relativi controlli fiscali”; la più famosa è sicuramente il bitcoin, “unità di una criptomoneta creata nel 2008 da un ignoto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto”. Il nome deriva dall’unione di bit+coin “moneta”. Bit è un termine inglese che nasce dall’ibridazione di bi(nary)+(digi)t, propriamente “cifra binaria”, ed è l’unità di misura della quantità di informazione. Ma per approfondire il discorso sulle criptovalute, credo di avere davvero bisogno di rimettermi a studiare…
2019
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