Natale, tempo di leccornìe (e non leccòrnie, per carità!) sia dolci che salate: qualcuno starà già guardando con preoccupazione al periodo delle Feste (le feste per eccellenza, tanto che non è nemmeno necessario specificare natalizie) proprio per via dell’eccessivo consumo di cibi ipercalorici. Da tempi immemorabili, gli italiani si dividono tra amanti del pandoro e fan del panettone. Il pandòro (da pan(e) d’oro, 1927) è il “dolce tipico di Verona, di color giallo dorato molto lievitato, dalla caratteristica forma a tronco di cono”, deve il suo nome proprio al colore della sua pasta; venne inventato a Verona a fine Ottocento e non a caso, sull’“Arena” di Verona, compare nel 1894 questa pubblicità: “Pan d’oro. Il pasticcere Melegatti avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce che per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato, l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo pan d’oro”. Dal canto suo, il panettóne (dal milanese panattón, accrescitivo di pane, 1803) è il “tipico dolce milanese a forma di cupola, tradizionalmente consumato nelle feste natalizie, ottenuto facendo cuocere al forno un impasto di farina, uova, burro, zucchero, uva sultanina, scorza d’arancia e cedro canditi”; citato anche da Italo Calvino, (“I panettoni mezzo tagliati aprivano fauci gialle e occhiute”) può contare su una nutrita schiera di appassionati consumatori che vorrebbero, dal canto loro, consumarlo tutto l’anno (con o senza canditi: abbiamo le sotto-fazioni!). Si noti che tutti e due i dolci iconici dell’italico Natale contengono, nel nome, il riferimento all’alimento principe della dieta mediterranea, il pane. Non è un caso: la tradizione di preparare un grande pane (dal che panattón o panettùn), non per forza dolce, da dividere con i propri cari nelle festività, risale forse addirittura al Medioevo; ma solo nel XIX secolo il panettone diventa il dolce di Milano, arricchendosi di ingredienti golosi e acquisendo la caratteristica forma a cupola. Che siate panettonisti o pandoristi (queste parole ancora non esistono!), probabilmente farete precedere l’immancabile fetta di dolce a fine pasto da qualcosa di salato e gustoso. I piatti delle feste sono molti e diversi a seconda delle regioni, ma tipicamente natalizio è l’uso di aprire il pasto con il brodo di cappóne (dal latino parlato *cappōne(m), per il classico capōne(m), da avvicinare al gr. kóptō ‘io taglio’, con doloroso riferimento all’operazione poco piacevole alla quale viene sottoposto l’animale, 1266), “gallo castrato da giovane, quindi particolarmente tenero e grasso”, magari con dentro qualche forma di pasta ripiena: agnolotti (da *anegliotti, forma plurale derivata da anegli ‘anelli’, avanti 1646), “involucro di pasta all’uovo rotondo o rettangolare ripieno di vari ingredienti, tra i quali prevale la carne cotta e tritata” o cappelletti (1344), “(specialmente al plurale) involucro circolare di pasta all’uovo con ripieno, caratteristico della cucina emiliana”, oppure ancora tortellini (diminutivo di tortello, secondo il modello bolognese turtlén, av. 1635), “piccolo quadrato di pasta all’uovo con ripieno a base di lombo di maiale, prosciutto, parmigiano, odore di noce moscata, ripiegato e attorcigliato su sé stesso, mangiato in brodo o asciutto”. A proposito di questi ultimi, la leggenda vuole che la loro forma sia stata ispirata dall’ombelico di Venere, intravisto da un oste di Castelfranco Emilia all’osteria dove la dea si era fermata per una sosta. Avete notato? -otti, -etti e -ini: tutte queste paste ripiene nascono come alterati di altri sostantivi! Superato, faticosamente, il primo, un tipico secondo natalizio per i più dotati di stomaco è rappresentato da una “magrissima” pietanza di pesce: l’anguilla, o meglio, il capitóne (“latino capitōne(m) ‘che ha la testa grossa’, da căput, genitivo căpitis ‘capo’, secolo XIV”), “grossa anguilla con carni assai pregiate, piatto tradizionale delle feste natalizie”. Non dà tregua all’apparato digerente tutto il periodo tra Natale e Capodanno: si passa, impunemente, dagli strùffoli (dal longobardo *strupf ‘batuffolo, brandello’, avanti 1525), “(al plurale) dolce costituito da palline fritte di pasta dolce e miele, tipico dell’Italia meridionale”, al torróne (spagnolo turrón, di etimologia discussa: dal lat. torrēre ‘far diventare secco’ (?), av. 1548), “dolce glutinoso di mandorle tostate, miele, zucchero, bianco d’uovo, confezionato specialmente in stecche” o al suo diminutivo, ma non dal punto di vista calorico, torroncìno (“-ino” solo per dire, dato che la piccolezza diventa l’alibi per mangiarne un’infinità), solo due tra le innumerevoli e succulente preparazioni dolciarie – spesso fritte – che arricchiscono le tavole di ogni regione d’Italia e che vengono consumate quasi in preparazione del gran finale del cenone di fine anno (giustamente “-one”, dato che rappresenta l’apoteosi dell’abbondanza) per tenersi in allenamento! Nel cenone non può mancare, per ragioni apotropaiche, cioè scaramantiche, l’accoppiata di cotechìno (da cotica, attraverso i dialetti settentrionali, 1761, “specie di salame composto di cotenne e di carne di maiale pestate insieme e insaccate, da consumarsi lessato”, in alcune regioni del nord Italia chiamato anche musetto) e lentìcchie (dal latino lentīcula(m), diminutivo di lēns, genitivo lĕntis ‘lente’, av. 1320), prodotte dalla “pianta annua delle Fabacee, con peli vischiosi, fusto eretto, foglie pennate terminanti in un viticcio, frutto a baccello romboidale con due semi schiacciati, commestibili (Lens culinaris)”. In particolare, è considerato assolutamente necessario consumare lenticchie a Capodanno perché nella tradizione popolare le lenticchie chiamano soldi: tante lenticchie, insomma, tanta pecunia nell’anno a venire (oltre a qualche chilo in più, ahinoi!).

Natale a tavola: un vocabolario tutto da assaporare / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2018).

Natale a tavola: un vocabolario tutto da assaporare

Vera Gheno
2018

Abstract

Natale, tempo di leccornìe (e non leccòrnie, per carità!) sia dolci che salate: qualcuno starà già guardando con preoccupazione al periodo delle Feste (le feste per eccellenza, tanto che non è nemmeno necessario specificare natalizie) proprio per via dell’eccessivo consumo di cibi ipercalorici. Da tempi immemorabili, gli italiani si dividono tra amanti del pandoro e fan del panettone. Il pandòro (da pan(e) d’oro, 1927) è il “dolce tipico di Verona, di color giallo dorato molto lievitato, dalla caratteristica forma a tronco di cono”, deve il suo nome proprio al colore della sua pasta; venne inventato a Verona a fine Ottocento e non a caso, sull’“Arena” di Verona, compare nel 1894 questa pubblicità: “Pan d’oro. Il pasticcere Melegatti avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce che per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato, l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo pan d’oro”. Dal canto suo, il panettóne (dal milanese panattón, accrescitivo di pane, 1803) è il “tipico dolce milanese a forma di cupola, tradizionalmente consumato nelle feste natalizie, ottenuto facendo cuocere al forno un impasto di farina, uova, burro, zucchero, uva sultanina, scorza d’arancia e cedro canditi”; citato anche da Italo Calvino, (“I panettoni mezzo tagliati aprivano fauci gialle e occhiute”) può contare su una nutrita schiera di appassionati consumatori che vorrebbero, dal canto loro, consumarlo tutto l’anno (con o senza canditi: abbiamo le sotto-fazioni!). Si noti che tutti e due i dolci iconici dell’italico Natale contengono, nel nome, il riferimento all’alimento principe della dieta mediterranea, il pane. Non è un caso: la tradizione di preparare un grande pane (dal che panattón o panettùn), non per forza dolce, da dividere con i propri cari nelle festività, risale forse addirittura al Medioevo; ma solo nel XIX secolo il panettone diventa il dolce di Milano, arricchendosi di ingredienti golosi e acquisendo la caratteristica forma a cupola. Che siate panettonisti o pandoristi (queste parole ancora non esistono!), probabilmente farete precedere l’immancabile fetta di dolce a fine pasto da qualcosa di salato e gustoso. I piatti delle feste sono molti e diversi a seconda delle regioni, ma tipicamente natalizio è l’uso di aprire il pasto con il brodo di cappóne (dal latino parlato *cappōne(m), per il classico capōne(m), da avvicinare al gr. kóptō ‘io taglio’, con doloroso riferimento all’operazione poco piacevole alla quale viene sottoposto l’animale, 1266), “gallo castrato da giovane, quindi particolarmente tenero e grasso”, magari con dentro qualche forma di pasta ripiena: agnolotti (da *anegliotti, forma plurale derivata da anegli ‘anelli’, avanti 1646), “involucro di pasta all’uovo rotondo o rettangolare ripieno di vari ingredienti, tra i quali prevale la carne cotta e tritata” o cappelletti (1344), “(specialmente al plurale) involucro circolare di pasta all’uovo con ripieno, caratteristico della cucina emiliana”, oppure ancora tortellini (diminutivo di tortello, secondo il modello bolognese turtlén, av. 1635), “piccolo quadrato di pasta all’uovo con ripieno a base di lombo di maiale, prosciutto, parmigiano, odore di noce moscata, ripiegato e attorcigliato su sé stesso, mangiato in brodo o asciutto”. A proposito di questi ultimi, la leggenda vuole che la loro forma sia stata ispirata dall’ombelico di Venere, intravisto da un oste di Castelfranco Emilia all’osteria dove la dea si era fermata per una sosta. Avete notato? -otti, -etti e -ini: tutte queste paste ripiene nascono come alterati di altri sostantivi! Superato, faticosamente, il primo, un tipico secondo natalizio per i più dotati di stomaco è rappresentato da una “magrissima” pietanza di pesce: l’anguilla, o meglio, il capitóne (“latino capitōne(m) ‘che ha la testa grossa’, da căput, genitivo căpitis ‘capo’, secolo XIV”), “grossa anguilla con carni assai pregiate, piatto tradizionale delle feste natalizie”. Non dà tregua all’apparato digerente tutto il periodo tra Natale e Capodanno: si passa, impunemente, dagli strùffoli (dal longobardo *strupf ‘batuffolo, brandello’, avanti 1525), “(al plurale) dolce costituito da palline fritte di pasta dolce e miele, tipico dell’Italia meridionale”, al torróne (spagnolo turrón, di etimologia discussa: dal lat. torrēre ‘far diventare secco’ (?), av. 1548), “dolce glutinoso di mandorle tostate, miele, zucchero, bianco d’uovo, confezionato specialmente in stecche” o al suo diminutivo, ma non dal punto di vista calorico, torroncìno (“-ino” solo per dire, dato che la piccolezza diventa l’alibi per mangiarne un’infinità), solo due tra le innumerevoli e succulente preparazioni dolciarie – spesso fritte – che arricchiscono le tavole di ogni regione d’Italia e che vengono consumate quasi in preparazione del gran finale del cenone di fine anno (giustamente “-one”, dato che rappresenta l’apoteosi dell’abbondanza) per tenersi in allenamento! Nel cenone non può mancare, per ragioni apotropaiche, cioè scaramantiche, l’accoppiata di cotechìno (da cotica, attraverso i dialetti settentrionali, 1761, “specie di salame composto di cotenne e di carne di maiale pestate insieme e insaccate, da consumarsi lessato”, in alcune regioni del nord Italia chiamato anche musetto) e lentìcchie (dal latino lentīcula(m), diminutivo di lēns, genitivo lĕntis ‘lente’, av. 1320), prodotte dalla “pianta annua delle Fabacee, con peli vischiosi, fusto eretto, foglie pennate terminanti in un viticcio, frutto a baccello romboidale con due semi schiacciati, commestibili (Lens culinaris)”. In particolare, è considerato assolutamente necessario consumare lenticchie a Capodanno perché nella tradizione popolare le lenticchie chiamano soldi: tante lenticchie, insomma, tanta pecunia nell’anno a venire (oltre a qualche chilo in più, ahinoi!).
2018
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