La rete, si sa, per la sua stessa natura favorisce non solo la creazione, ma anche la circolazione dei neologismi. Chi non ricorda il famosissimo caso dell’aggettivo petaloso, inventato da un ragazzino di otto anni, Matteo, e alla sua rapida trasformazione in tormentone, per non dire vera e propria ossessione degli internauti? Allo stesso modo, chiunque abbia una frequentazione sufficientemente intima della rete sa dell’esistenza di un vero e proprio gergo che gli utenti usano per capirsi velocemente tra di loro. Alcune di queste parole sono piuttosto comprensibili, altre invece sono quasi criptiche, solo per “iniziati”. Non è strano, del resto, che sui social si sentano così tante parole nuove: è un contesto dove i cambiamenti sono assai veloci, e spesso coinvolgono l’inglese, cosa altrettanto prevedibile, visto che tutto l’ambito della comunicazione mediata dal computer nasce in un contesto anglofono. I termini coniati in rete derivano spesso dai nomi dei programmi che usiamo: dall’ormai tradizionale photoshoppare a googlare a whatsappare, shazammare (da Shazam), instagrammare e regrammare (quando si ricondivide la foto di un altro su Instragram), tumblrare e ritumblrare (da Tumblr), pinnare (da Pinterest), twittare e retwittare (da Twitter), ma anche un coraggiosissimo essemmessare (solo per abili solutori) e skypare (da Skype, con qualche pericolosa assonanza). Sui social è esistita tutta una prima fase in cui le operazioni svolte avevano denominazioni inglesi, perché le piattaforme non erano tradotte: l’aggiunta di amici era definita friendare o addare (da to add), così come quella di togliere era unfriendare. Un post si haidava (to hide ‘nascondere’) e un utente veniva blockato. Queste definizioni si sono (forse per fortuna) perse con la traduzione in italiano della piattaforma, mentre sono ben vivi chiocciolare (accanto a menzionare o quotare o citare) e hashtaggare, ma anche screenshottare (o scrinsciottare, ossia ‘scattare un’istantanea dello schermo’), taggare e staggare. Soprattutto quando la comunicazione deraglia, in rete si percula (‘prende in giro) e si blasta (da to blast, ‘far esplodere’), oppure si trolla (chi boicotta volontariamente le discussioni altrui è, infatti, definito troll) . L’importante è mantenere la capacità di lollare (da LOL, laughing out loud, vecchio acronimo per ‘ridere’). Gli eroi di oggi, o influencer, che siano youtuber, instagramer o muser (i personaggi più celebri del social network Musical.ly), sanno bene che il modo migliore di replicare alle cattiverie gratuite di cui sono spesso bersaglio è l’acronimo BUFU (by us, f*** you), anche perché in fondo dissare (‘insultare in maniera quasi esagerata’, dall’inglese to diss, abbreviazione di to disrespect) è una pratica quasi ritualizzata, spesso senza reale volontà di offendere. È molto meglio divertisti a shippare la gente (vedere bene due persone in coppia, augurandosi che si mettano assieme, da relationship), sperando che le persone shippate decidano di mettersi davvero insieme, formando finalmente una OTP (one true pairing, una coppia con i fiocchi, insomma). Infine, ricordiamoci il divertimento delle challenge (sfide, non sempre intelligenti), ma evitando quelle davvero pericolose; possiamo sempre ricorrere al “grido di battaglia” delle nuovissime generazioni: ESKERE! (storpiatura di let’s get it, ‘andiamocelo a prendere’, dal testo di canzoni di vari rapper). Alcune di queste parole sono già nel vocabolario; altre ci entreranno prossimamente; altre invece avranno vita breve, e magari molto intensa, e spariranno senza venire registrate nei dizionari: rimarranno come degli hapax, degli occasionalismi dalla vita così fugace da non attirare l’attenzione dei lessicografi. Già, perché i parametri per far sì che una parola entri nei dizionari sono tre: la parola deve essere usata da un grande numero di persone, per un periodo sufficientemente lungo, possibilmente in ambiti differenti; è per questo che molti dei gergalismi della rete o delle parole circolate grazie ai social non si trovano e non si troveranno nel dizionario: la loro diffusione è troppo circoscritta e “specialistica” per “meritare” la registrazione nei lemmari. Per il momento, accontentiamoci, ad esempio, di accogliere nello Zingarelli 2019 la nuova accezione di amicizia: “relazione che si stabilisce tra due utenti Facebook quando esprimono reciproco consenso a condividere i contenuti nel proprio profilo”. Ricordandoci che l’entrata nei dizionari è l’avallo, a posteriori, della popolarità e della circolazione reale di un termine: l’ultima parola, tanto per rimanere in tema, ce l’hanno sempre gli utenti di una lingua.

Neologismi della rete / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2018).

Neologismi della rete

Vera Gheno
2018

Abstract

La rete, si sa, per la sua stessa natura favorisce non solo la creazione, ma anche la circolazione dei neologismi. Chi non ricorda il famosissimo caso dell’aggettivo petaloso, inventato da un ragazzino di otto anni, Matteo, e alla sua rapida trasformazione in tormentone, per non dire vera e propria ossessione degli internauti? Allo stesso modo, chiunque abbia una frequentazione sufficientemente intima della rete sa dell’esistenza di un vero e proprio gergo che gli utenti usano per capirsi velocemente tra di loro. Alcune di queste parole sono piuttosto comprensibili, altre invece sono quasi criptiche, solo per “iniziati”. Non è strano, del resto, che sui social si sentano così tante parole nuove: è un contesto dove i cambiamenti sono assai veloci, e spesso coinvolgono l’inglese, cosa altrettanto prevedibile, visto che tutto l’ambito della comunicazione mediata dal computer nasce in un contesto anglofono. I termini coniati in rete derivano spesso dai nomi dei programmi che usiamo: dall’ormai tradizionale photoshoppare a googlare a whatsappare, shazammare (da Shazam), instagrammare e regrammare (quando si ricondivide la foto di un altro su Instragram), tumblrare e ritumblrare (da Tumblr), pinnare (da Pinterest), twittare e retwittare (da Twitter), ma anche un coraggiosissimo essemmessare (solo per abili solutori) e skypare (da Skype, con qualche pericolosa assonanza). Sui social è esistita tutta una prima fase in cui le operazioni svolte avevano denominazioni inglesi, perché le piattaforme non erano tradotte: l’aggiunta di amici era definita friendare o addare (da to add), così come quella di togliere era unfriendare. Un post si haidava (to hide ‘nascondere’) e un utente veniva blockato. Queste definizioni si sono (forse per fortuna) perse con la traduzione in italiano della piattaforma, mentre sono ben vivi chiocciolare (accanto a menzionare o quotare o citare) e hashtaggare, ma anche screenshottare (o scrinsciottare, ossia ‘scattare un’istantanea dello schermo’), taggare e staggare. Soprattutto quando la comunicazione deraglia, in rete si percula (‘prende in giro) e si blasta (da to blast, ‘far esplodere’), oppure si trolla (chi boicotta volontariamente le discussioni altrui è, infatti, definito troll) . L’importante è mantenere la capacità di lollare (da LOL, laughing out loud, vecchio acronimo per ‘ridere’). Gli eroi di oggi, o influencer, che siano youtuber, instagramer o muser (i personaggi più celebri del social network Musical.ly), sanno bene che il modo migliore di replicare alle cattiverie gratuite di cui sono spesso bersaglio è l’acronimo BUFU (by us, f*** you), anche perché in fondo dissare (‘insultare in maniera quasi esagerata’, dall’inglese to diss, abbreviazione di to disrespect) è una pratica quasi ritualizzata, spesso senza reale volontà di offendere. È molto meglio divertisti a shippare la gente (vedere bene due persone in coppia, augurandosi che si mettano assieme, da relationship), sperando che le persone shippate decidano di mettersi davvero insieme, formando finalmente una OTP (one true pairing, una coppia con i fiocchi, insomma). Infine, ricordiamoci il divertimento delle challenge (sfide, non sempre intelligenti), ma evitando quelle davvero pericolose; possiamo sempre ricorrere al “grido di battaglia” delle nuovissime generazioni: ESKERE! (storpiatura di let’s get it, ‘andiamocelo a prendere’, dal testo di canzoni di vari rapper). Alcune di queste parole sono già nel vocabolario; altre ci entreranno prossimamente; altre invece avranno vita breve, e magari molto intensa, e spariranno senza venire registrate nei dizionari: rimarranno come degli hapax, degli occasionalismi dalla vita così fugace da non attirare l’attenzione dei lessicografi. Già, perché i parametri per far sì che una parola entri nei dizionari sono tre: la parola deve essere usata da un grande numero di persone, per un periodo sufficientemente lungo, possibilmente in ambiti differenti; è per questo che molti dei gergalismi della rete o delle parole circolate grazie ai social non si trovano e non si troveranno nel dizionario: la loro diffusione è troppo circoscritta e “specialistica” per “meritare” la registrazione nei lemmari. Per il momento, accontentiamoci, ad esempio, di accogliere nello Zingarelli 2019 la nuova accezione di amicizia: “relazione che si stabilisce tra due utenti Facebook quando esprimono reciproco consenso a condividere i contenuti nel proprio profilo”. Ricordandoci che l’entrata nei dizionari è l’avallo, a posteriori, della popolarità e della circolazione reale di un termine: l’ultima parola, tanto per rimanere in tema, ce l’hanno sempre gli utenti di una lingua.
2018
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