La moneta di scambio della società dell’informazione, si sa, sono i dati personali. Non a caso, uno dei temi caldi di questi mesi (o forse di questi anni) è la privacy: ne siamo tutti ossessionati. Pronunciata /pràivazi/, /pràivasi/ o anche /prìvasi/, è una parola inglese registrata in italiano dal 1950 che indica ‘la vita personale e privata’. Esiste un perfetto corrispettivo italiano, che però non è molto usato, privatezza (sec. XIII), mentre forse più comune è l’uso della parola riservatezza (datata 1559). Quest’ultimo termine ha anche altri significati, in particolare può essere la ‘caratteristica di chi è riservato’, cioè di chi agisce con riservatezza e discrezione, quella che spesso vediamo mancare in chi si espone sui social media facendo, magari, lifestreaming, cioè raccontando, senza soluzione di continuità, tutto quello che gli o le succede: chissà se anche questa parola finirà registrata nei dizionari! Quando manca la discrezione, e viene meno la riservatezza, i dati finiti in pubblico possono provocare uno scandalo: è voce dotta, risalente in italiano al 1268, dal latino tardo ecclesiastico scăndalu(m) ‘impedimento’, a sua volta dal greco skándalon ‘ostacolo, insidia’. Tra i vari significati, troviamo quello di ‘grave turbamento della coscienza, della sensibilità, della moralità e simili altrui suscitato da atto, discorso, comportamento, avvenimento, contrario alle leggi della morale, del pudore, della decenza’: si fa scandalo e si dà scandalo, e quando questo succede, gli altri gridano allo scandalo. Chi non ricorda l’espressione di origine biblica pietra dello scandalo? Scandalo significa anche ‘avvenimento che presenta aspetti contrastanti con la morale corrente e suscita l’interesse e la curiosità dell’opinione pubblica specialmente in quanto coinvolge persone o ambienti in vista’; insomma, è sempre meglio evitare il ‘clamore indesiderato attorno a un avvenimento spiacevole che diventa di pubblico dominio’, che è un modo più complicato di dire che bisogna evitare gli scandali, ma anche gli scandaletti e scandalucci: già, perché come ci ricorda lo Zingarellil, la parola ha pure i suoi diminutivi. Gli scandali che generano più scalpore (da scalpitare, sul modello di bagliore, rumore e simili, 1400 circa) acquisiscono il suffissoide -gate: Sexgate, Irangate, Irpiniagate, e questo secondo elemento ha un’etimologia assai interessante: anche se a chi conosce l’inglese ricorda il termine gate ‘cancello, porta’, in realtà ha un’origine completamente diversa: deriva da Watergate, complesso residenziale di Washington da cui prese nome lo scandalo che costrinse Richard Nixon alle dimissioni da presidente degli Stati Uniti (1974). Insomma, abbiamo capito che la violazione (voce dotta, dal latino violatiōne(m), da violātus ‘violato, 1342) dei nostri dati sensibili, ‘quelli che riguardano condizioni o convinzioni personali di un soggetto’ è pericolosa, e che questi dati dovrebbero essere archiviati o usati solo con il nostro consenso. Anche questa parola, ultimamente, viene usata a dismisura. È un’altra voce dotta, dal latino consēnsu(m), da consentīre ‘consentire’, ed è precedente al 1348 (anche se a quei tempi sicuramente non avevano tutti i problemi con i dati sensibili che abbiamo oggi!). Di nuovo, abbiamo molti significati, ma quello che interessa a noi è ‘assenso, approvazione, permesso’ si chiede il consenso, si dà il consenso, lo si ottiene o lo si nega. Il consenso matrimoniale è la dichiarazione che fanno i promessi sposi di voler contrarre matrimonio, il consenso informato è invece l’‘accordo cosciente e volontario a una procedura diagnostica, terapeutica o sperimentale’. A volte, non c’è bisogno di dare il consenso esplicitamente: in tal caso si parla di silenzio assenso, che qualcuno, scherzosamente, ha trasformato in… silenzio assenzio! Tutti i media che usiamo oggi hanno davvero reso complicata la vita dei nostri dati o, all’inglese, data: voci che sono arrivate in inglese dal latino. Sono due neutri plurali, rispettivamente di medium ‘mezzo’ e di datum ‘dato’. Noi spesso li pronunciamo alla latina, /mèdia/ e /dàta/, ma poiché il senso con il quale usiamo queste parole oggi è mutuato dall’inglese, è altrettanto corretto pronunciarli (all’incirca) /mìdia/ e /déita/. Ma saranno al sicuro le informazioni che ci riguardano conservate su qualche server lontano? Questa voce inglese letteralmente significa ‘servitore’ ed entra in italiano con il significato che gli diamo oggi nel 1980. Dal verbo inglese to serve, che deriva dall’antico francese servir che, a sua volta, proviene da… indovinate un po’! Ma certo: dal latino servīre, da sĕrvus ‘servo, schiavo’. A proposito di servus: sapevate che in molte lingue rimane dell’Europa Centrale è ancora oggi in uso come saluto, come un ciao? È la forma breve di servus tuus, ‘servo tuo’, pensate un po’. In ogni caso, niente paura per la sicurezza dei nostri dati: ci corre in aiuto la GDPR, General Data Protection Regulation, in italiano Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati. Ma allora perché non parliamo, in italiano, di RGPD? Questione di comprensibilità a livello internazionale, dato che il regolamento è europeo, e anche di quel pizzico (!) di anglofilia che ci contraddistingue…

Privacy / Vera Gheno. - ELETTRONICO. - (2018).

Privacy

Vera Gheno
2018

Abstract

La moneta di scambio della società dell’informazione, si sa, sono i dati personali. Non a caso, uno dei temi caldi di questi mesi (o forse di questi anni) è la privacy: ne siamo tutti ossessionati. Pronunciata /pràivazi/, /pràivasi/ o anche /prìvasi/, è una parola inglese registrata in italiano dal 1950 che indica ‘la vita personale e privata’. Esiste un perfetto corrispettivo italiano, che però non è molto usato, privatezza (sec. XIII), mentre forse più comune è l’uso della parola riservatezza (datata 1559). Quest’ultimo termine ha anche altri significati, in particolare può essere la ‘caratteristica di chi è riservato’, cioè di chi agisce con riservatezza e discrezione, quella che spesso vediamo mancare in chi si espone sui social media facendo, magari, lifestreaming, cioè raccontando, senza soluzione di continuità, tutto quello che gli o le succede: chissà se anche questa parola finirà registrata nei dizionari! Quando manca la discrezione, e viene meno la riservatezza, i dati finiti in pubblico possono provocare uno scandalo: è voce dotta, risalente in italiano al 1268, dal latino tardo ecclesiastico scăndalu(m) ‘impedimento’, a sua volta dal greco skándalon ‘ostacolo, insidia’. Tra i vari significati, troviamo quello di ‘grave turbamento della coscienza, della sensibilità, della moralità e simili altrui suscitato da atto, discorso, comportamento, avvenimento, contrario alle leggi della morale, del pudore, della decenza’: si fa scandalo e si dà scandalo, e quando questo succede, gli altri gridano allo scandalo. Chi non ricorda l’espressione di origine biblica pietra dello scandalo? Scandalo significa anche ‘avvenimento che presenta aspetti contrastanti con la morale corrente e suscita l’interesse e la curiosità dell’opinione pubblica specialmente in quanto coinvolge persone o ambienti in vista’; insomma, è sempre meglio evitare il ‘clamore indesiderato attorno a un avvenimento spiacevole che diventa di pubblico dominio’, che è un modo più complicato di dire che bisogna evitare gli scandali, ma anche gli scandaletti e scandalucci: già, perché come ci ricorda lo Zingarellil, la parola ha pure i suoi diminutivi. Gli scandali che generano più scalpore (da scalpitare, sul modello di bagliore, rumore e simili, 1400 circa) acquisiscono il suffissoide -gate: Sexgate, Irangate, Irpiniagate, e questo secondo elemento ha un’etimologia assai interessante: anche se a chi conosce l’inglese ricorda il termine gate ‘cancello, porta’, in realtà ha un’origine completamente diversa: deriva da Watergate, complesso residenziale di Washington da cui prese nome lo scandalo che costrinse Richard Nixon alle dimissioni da presidente degli Stati Uniti (1974). Insomma, abbiamo capito che la violazione (voce dotta, dal latino violatiōne(m), da violātus ‘violato, 1342) dei nostri dati sensibili, ‘quelli che riguardano condizioni o convinzioni personali di un soggetto’ è pericolosa, e che questi dati dovrebbero essere archiviati o usati solo con il nostro consenso. Anche questa parola, ultimamente, viene usata a dismisura. È un’altra voce dotta, dal latino consēnsu(m), da consentīre ‘consentire’, ed è precedente al 1348 (anche se a quei tempi sicuramente non avevano tutti i problemi con i dati sensibili che abbiamo oggi!). Di nuovo, abbiamo molti significati, ma quello che interessa a noi è ‘assenso, approvazione, permesso’ si chiede il consenso, si dà il consenso, lo si ottiene o lo si nega. Il consenso matrimoniale è la dichiarazione che fanno i promessi sposi di voler contrarre matrimonio, il consenso informato è invece l’‘accordo cosciente e volontario a una procedura diagnostica, terapeutica o sperimentale’. A volte, non c’è bisogno di dare il consenso esplicitamente: in tal caso si parla di silenzio assenso, che qualcuno, scherzosamente, ha trasformato in… silenzio assenzio! Tutti i media che usiamo oggi hanno davvero reso complicata la vita dei nostri dati o, all’inglese, data: voci che sono arrivate in inglese dal latino. Sono due neutri plurali, rispettivamente di medium ‘mezzo’ e di datum ‘dato’. Noi spesso li pronunciamo alla latina, /mèdia/ e /dàta/, ma poiché il senso con il quale usiamo queste parole oggi è mutuato dall’inglese, è altrettanto corretto pronunciarli (all’incirca) /mìdia/ e /déita/. Ma saranno al sicuro le informazioni che ci riguardano conservate su qualche server lontano? Questa voce inglese letteralmente significa ‘servitore’ ed entra in italiano con il significato che gli diamo oggi nel 1980. Dal verbo inglese to serve, che deriva dall’antico francese servir che, a sua volta, proviene da… indovinate un po’! Ma certo: dal latino servīre, da sĕrvus ‘servo, schiavo’. A proposito di servus: sapevate che in molte lingue rimane dell’Europa Centrale è ancora oggi in uso come saluto, come un ciao? È la forma breve di servus tuus, ‘servo tuo’, pensate un po’. In ogni caso, niente paura per la sicurezza dei nostri dati: ci corre in aiuto la GDPR, General Data Protection Regulation, in italiano Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati. Ma allora perché non parliamo, in italiano, di RGPD? Questione di comprensibilità a livello internazionale, dato che il regolamento è europeo, e anche di quel pizzico (!) di anglofilia che ci contraddistingue…
2018
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in FLORE sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258737
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact