Spesso i social sono ritenuti un ambito comunicativo non adatto a veicolare contenuti culturali. "Non è questo il contesto giusto per…" è un commento che si incontra spesso, usato come giustificazione per evitare di motivare affermazioni o non fornire spiegazioni anche da parte di chi potrebbe (o forse dovrebbe) farlo. Incolpare i social per la superficialità della comunicazione è almeno in parte un modo per lavarsene le mani, come se il problema dipendesse “da altri” (il mezzo, gli algoritmi, le multinazionali) e la sua soluzione fosse quindi fuori dalla nostra portata. Si può tentare di cambiare prospettiva: la qualità di ciò che troviamo sui social, e di cui sovente ci lamentiamo, dipende molto da noi utenti e da ciò che decidiamo di mettere in rete. È possibile, dunque, "fare cultura" sui social? La risposta è sì, ma non è né semplice né immediato: non basta aprire un profilo per avere successo. Un errore che molti commettono, sbarcando sui social, è presumere di vivere di rendita, senza sforzi, con l’autorevolezza acquisita in precedenza in altri àmbiti. Occorre, invece, tenere conto di almeno due complicazioni portate da questo scenario comunicativo. La prima è la generalizzazione della discussione, uscita dai contesti abituali per diventare “diffusa”; questo provoca, prevedibilmente, un abbassamento nel suo standard, dato che non viene condotta più secondo un set di convenzioni più o meno esplicite che regolavano, in precedenza, un dibattito a ingresso controllato, in cui poteva intervenire soltanto una minoranza socioculturalmente più attrezzata. Il secondo è l'apparente livellamento delle competenze, che porta qualsiasi "signor nessuno" ad apostrofare anche in malo modo l'esperto (cfr. "Ma lei che ne sa?", “Questo lo dice lei”). Possiamo indignarci perché l’incolto non si pone con la dovuta deferenza nei confronti di chi è più colto e abbandonare il dibattito, oppure trasformare tutto questo in un'occasione generativa. Innanzitutto, il confronto con i non specialisti può essere un mezzo per mettere alla prova il proprio sapere, che non solo deve essere saldo, ma va anche saputo – almeno in parte – condividere: la divulgazione, che piaccia o meno, è parte integrante del "sistema cultura". E invece di esigere l'autorevolezza ("Lei non sa chi sono io"; "Sono vent’anni che studio la materia, si fidi"), atteggiamento che non funziona mai davvero, occorre costruirne una nuova, che passi, ad esempio, dallo spiegare e rispiegare, senza perdere mai la pazienza e accettando il peso della disintermediazione. Può sembrare inutile, perché è alta la probabilità che lo scalmanato che attacca sguaiatamente non abbia nessuna intenzione di cambiare idea, anche di fronte a un'argomentazione scientificamente valida ed espressa in maniera cristallina; ma chiunque, soprattutto chi è in una posizione culturalmente di forza, deve tenere conto che ogni interazione in rete avviene davanti a un pubblico molto grande, che osserva senza intervenire: una moltitudine silenziosa, come la chiama il filosofo Bruno Mastroianni, che darà meno soddisfazioni immediate, poiché non si palesa, ma che nel frattempo si farà un'idea precisa di coloro che stanno discutendo, e che magari rifletterà su quanto letto. Del resto, esporre "lo scemo" a pubblico ludibrio blastandolo (cioè, in sostanza, dandogli pubblicamente dello scemo; il verbo blastare deriva dall’inglese to blast, ‘far esplodere’) non ha quasi mai conseguenze feconde: chi viene umiliato “in piazza” per la sua ignoranza non è spinto a colmare le proprie lacune, ma tende a rifugiarsi ancora di più nella sua echo chamber, tra coloro che la pensano come lui, in cerca di conforto e appoggio. Infine, un possibile suggerimento sul registro da perseguire per “fare cultura” sui social: benché spesso il linguaggio usato su queste piattaforme venga considerato una "corruzione" della norma, in molte sue caratteristiche non è altro che un adattamento della lingua a un contesto che richiede (per limiti tecnici, ma non solo) una certa stringatezza, Al contempo, questa necessità stimola la creatività degli utenti: in ciò ha molti punti in comune con il linguaggio giovanile, che sa essere una vera e propria fucina di esperimenti linguistici. Dunque, mentre la sciatteria non è mai giustificabile (non è vero che vale scrivere come viene, "tanto siamo sui social"), non si perde in autorevolezza se, di tanto in tanto, si ricorre a una tachigrafia (ad esempio cmq), a emoticon o emoji (), a un’immagine scherzosa per veicolare in maniera inedita un contenuto di per sé un po’ indigesto. Si possono, insomma, adottare frammenti di questa lingua giovane e dinamica senza snaturarsi e senza cadere nello scimmiottamento di uno stile che non ci appartiene; si può perseguire quell'autorevole leggerezza che Luisa Carrada, in riferimento alle attività social di una nota Accademia, ha nominato come uno dei registri a cui tendere per fare divulgazione in rete.

Cultura sui social? Sì, ma bisogna saperci fare / Vera Gheno. - In: TOSCANAOGGI. - STAMPA. - 3:(2019), pp. 11-11.

Cultura sui social? Sì, ma bisogna saperci fare

Vera Gheno
2019

Abstract

Spesso i social sono ritenuti un ambito comunicativo non adatto a veicolare contenuti culturali. "Non è questo il contesto giusto per…" è un commento che si incontra spesso, usato come giustificazione per evitare di motivare affermazioni o non fornire spiegazioni anche da parte di chi potrebbe (o forse dovrebbe) farlo. Incolpare i social per la superficialità della comunicazione è almeno in parte un modo per lavarsene le mani, come se il problema dipendesse “da altri” (il mezzo, gli algoritmi, le multinazionali) e la sua soluzione fosse quindi fuori dalla nostra portata. Si può tentare di cambiare prospettiva: la qualità di ciò che troviamo sui social, e di cui sovente ci lamentiamo, dipende molto da noi utenti e da ciò che decidiamo di mettere in rete. È possibile, dunque, "fare cultura" sui social? La risposta è sì, ma non è né semplice né immediato: non basta aprire un profilo per avere successo. Un errore che molti commettono, sbarcando sui social, è presumere di vivere di rendita, senza sforzi, con l’autorevolezza acquisita in precedenza in altri àmbiti. Occorre, invece, tenere conto di almeno due complicazioni portate da questo scenario comunicativo. La prima è la generalizzazione della discussione, uscita dai contesti abituali per diventare “diffusa”; questo provoca, prevedibilmente, un abbassamento nel suo standard, dato che non viene condotta più secondo un set di convenzioni più o meno esplicite che regolavano, in precedenza, un dibattito a ingresso controllato, in cui poteva intervenire soltanto una minoranza socioculturalmente più attrezzata. Il secondo è l'apparente livellamento delle competenze, che porta qualsiasi "signor nessuno" ad apostrofare anche in malo modo l'esperto (cfr. "Ma lei che ne sa?", “Questo lo dice lei”). Possiamo indignarci perché l’incolto non si pone con la dovuta deferenza nei confronti di chi è più colto e abbandonare il dibattito, oppure trasformare tutto questo in un'occasione generativa. Innanzitutto, il confronto con i non specialisti può essere un mezzo per mettere alla prova il proprio sapere, che non solo deve essere saldo, ma va anche saputo – almeno in parte – condividere: la divulgazione, che piaccia o meno, è parte integrante del "sistema cultura". E invece di esigere l'autorevolezza ("Lei non sa chi sono io"; "Sono vent’anni che studio la materia, si fidi"), atteggiamento che non funziona mai davvero, occorre costruirne una nuova, che passi, ad esempio, dallo spiegare e rispiegare, senza perdere mai la pazienza e accettando il peso della disintermediazione. Può sembrare inutile, perché è alta la probabilità che lo scalmanato che attacca sguaiatamente non abbia nessuna intenzione di cambiare idea, anche di fronte a un'argomentazione scientificamente valida ed espressa in maniera cristallina; ma chiunque, soprattutto chi è in una posizione culturalmente di forza, deve tenere conto che ogni interazione in rete avviene davanti a un pubblico molto grande, che osserva senza intervenire: una moltitudine silenziosa, come la chiama il filosofo Bruno Mastroianni, che darà meno soddisfazioni immediate, poiché non si palesa, ma che nel frattempo si farà un'idea precisa di coloro che stanno discutendo, e che magari rifletterà su quanto letto. Del resto, esporre "lo scemo" a pubblico ludibrio blastandolo (cioè, in sostanza, dandogli pubblicamente dello scemo; il verbo blastare deriva dall’inglese to blast, ‘far esplodere’) non ha quasi mai conseguenze feconde: chi viene umiliato “in piazza” per la sua ignoranza non è spinto a colmare le proprie lacune, ma tende a rifugiarsi ancora di più nella sua echo chamber, tra coloro che la pensano come lui, in cerca di conforto e appoggio. Infine, un possibile suggerimento sul registro da perseguire per “fare cultura” sui social: benché spesso il linguaggio usato su queste piattaforme venga considerato una "corruzione" della norma, in molte sue caratteristiche non è altro che un adattamento della lingua a un contesto che richiede (per limiti tecnici, ma non solo) una certa stringatezza, Al contempo, questa necessità stimola la creatività degli utenti: in ciò ha molti punti in comune con il linguaggio giovanile, che sa essere una vera e propria fucina di esperimenti linguistici. Dunque, mentre la sciatteria non è mai giustificabile (non è vero che vale scrivere come viene, "tanto siamo sui social"), non si perde in autorevolezza se, di tanto in tanto, si ricorre a una tachigrafia (ad esempio cmq), a emoticon o emoji (), a un’immagine scherzosa per veicolare in maniera inedita un contenuto di per sé un po’ indigesto. Si possono, insomma, adottare frammenti di questa lingua giovane e dinamica senza snaturarsi e senza cadere nello scimmiottamento di uno stile che non ci appartiene; si può perseguire quell'autorevole leggerezza che Luisa Carrada, in riferimento alle attività social di una nota Accademia, ha nominato come uno dei registri a cui tendere per fare divulgazione in rete.
2019
3
11
11
Vera Gheno
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