C’ERA UNA VOLTA IL ‘900. IL DIBATTITO COSTANTE TRA TEORIA E PRATICA E LA COSTANTE AMBIGUITA' NEL LINGUAGGIO DELL'ARCHITETTURA ITALIANA. E’ utile, per comprendere meglio ciò che è alla base della ricostruzione post-bellica nel nostro paese, ripensare alla prefazione metodologica di uno dei primi volumi che contribuirono alla nascita della casa editrice Electa. Era il 1969 e pochi allora conoscevano quello che sarebbe diventato uno tra i più importanti editori di architettura. Vittorio Gregotti vi pubblica “Orientamenti nuovi nell’Architettura Italiana”. La nostra architettura possiede, dirà lui, alcune “specificità che possono essere messe utilmente a disposizione della cultura internazionale. La prima di queste è la dialettica con le nozioni di storia e di tradizione, che ha continuamente informato (…) a livello dei princìpi metodologici e delle soluzioni linguistiche, tutta l’architettura italiana” . Ciò ha comportato talvolta l’elaborazione di soluzioni in apparente contrasto con i princìpi del “moderno”, ha ridotto il dibattito a un ambito forse eccessivamente locale ma ha finito con il caratterizzare, in maniera evidente, l’identità precipua dell’architettura italiana. La seconda caratteristica è il dibattito costante tra ideologia e linguaggio, per aiutare a comprendere come non vi possa essere architettura autentica se non supportata da una teoria che la sostenga e giustifichi. “La terza nasce come conseguenza delle prime due e consiste nello stato di costante ambiguità” che contraddistingue il linguaggio espressivo di buona parte dell’architettura italiana del periodo. Questi tre princìpi, anzi questi tre punti, rappresentano, in estrema sintesi, le peculiarità dell’architettura moderna italiana nel suo momento storico probabilmente più felice. E’ pure altrettanto utile, seppur in maniera schematica, collocare questa particolare fase storica (quella appunto della ricostruzione) nel più ampio contesto della contemporanea storia europea, con riferimento particolare alla cultura architettonica tedesca che pare oscillare, in quei tempi, tra conservazione e contestazione del “movimento moderno” e quindi tra continuità e discontinuità con il medesimo. Tra una fase forse troppo semplificata che intende riferirsi ai princìpi di un funzionalismo tout court e una fase più legata alla tradizione locale con discutibili aspetti romantici, nel migliore dei casi e, nel peggiore, con antintellettualistici effetti folcloristici . In particolare sarà proprio Oswald Mathias Ungers a spiegarci il contesto europeo del periodo quando sostiene che l’Europa “non vive di una sola idea universale perché è multiforme. E’ un terreno in cui coesistono, una vicino all’altra, molte immagini e molte opinioni. E’ una regione del mondo in cui sono egualmente cresciuti illuminismo e misticismo. Nella tensione tra questi due estremi si sviluppa oggi una nuova vitalità” , che, come scriverà Aldo Rossi su Casabella, farà in modo che le costruzioni ungersite non siano né romantiche né razionaliste, né tradizionali, né moderne, ma cerchino di legarsi saldamente alla realtà di un luogo, alla realtà di chi vive in quel luogo e alla sua storia. “Realtà, luogo e storia sono le parole chiave intorno alle quali inizia a dispiegarsi la rete delle relazioni che, lungo il corso dell’intera carriera di Ungers, hanno collegato la sua ricerca con la cultura architettonica italiana” . Realtà, luogo e storia da un lato (Ungers) e dialettica con le nozioni di storia e di tradizione (Gregotti) dall’altro. Condizione che ci rimanda, senza esitazioni, a “La responsabilità verso la tradizione” che è il titolo di un editoriale di Casabella in cui Rogers afferma come sia giunto il momento di ristabilire le relazioni tra la tradizione spontanea, che definisce come “popolare” e la tradizione “colta”, per saldarle in un’unica tradizione. “Delle due componenti l’una è per consuetudine e quasi per definizione, oggetto di studi da tempo (…) mentre l’altra è stata estranea troppo a lungo alla storiografia artistica e alla sistematizzazione estetica” . L’architettura è il sintetico esprimersi di determinati contenuti in determinate forme e la tradizione è il particolare accento di queste sintesi, concatenate “nello svolgersi di una storia totale di un popolo. Per cogliere il carattere di una tradizione bisogna considerare la storia totale di un popolo e non alcuni suoi frammenti più o meno rilevanti” . E ancora poiché alla fine l’architettura si concretizzerà in una forma non si dovrà mai dimenticare come l’accademismo più insidioso sia proprio quello dei formalisti moderni. Stiamo quindi cercando di delineare, prima con Gregotti e successivamente con Rogers, il milieu culturale italiano del dopoguerra alla base della cultura della ricostruzione del nostro paese con gli innegabili risvolti di carattere sociale e di impegno politico. Chi punta prima di tutto sulla tradizione, o meglio sul senso di responsabilità verso la propria tradizione, come risposta all’editoriale di Reyner Banham (del ’59) che dalle pagine di Architectural Review vorrebbe sancire “la ritirata italiana dall’architettura moderna”. Sempre nel ’59, a Otterlo in occasione del CIAM di quell’anno, molti, tra gli architetti italiani che si sentivano ideologicamente legati alla Casabella di Rogers, furono oggetto di critica feroce per un presunto declinare delle proprie proposte progettuali verso lo storicismo, il regionalismo e il localismo da loro sostenuto invece come risposta critica e radicale all’affermarsi dell’ International Style. “Spine bianche” a Matera e “Torre Velasca” a Milano, solo per citare due casi fisicamente lontano, vengono considerate come esperienze estranee ai valori del Moderno . E pensare che pochi anni prima su Casabella, nel ’54, forse sulla scorta degli studi di Pagano sull’architettura rurale, ma anche e soprattutto come necessità di definire una volta per tutte l’identità dell’architettura italiana, un gruppo di undici studenti dei corsi di Composizione del Politecnico (tra cui Rossi, Canella, Tintori, e altri otto), denominati “I giovani delle colonne”, avevano deciso di rinnegare l’insegnamento razionalista di maniera che veniva in quegli anni impartito nei corsi progettuali per progettare polemicamente in stile secondo i princìpi della “pecora belante dell’eclettismo” come dirà De Carlo (in questo frangente custode vigile dei valori del “movimento moderno”) che critica pesantemente l’iniziativa (mentre Rogers sostiene di non essere “del tutto d’accordo con la tesi sostenuta da Giancarlo”), mettendone però in luce un significato positivo. “Perché prima di tutto rappresenta un rifiuto della condizione di conformismo e di piccola astuzia che corrompe l’ambiente della scuola (…). I problemi dell’architettura contemporanea riguardano l’uomo comune e sempre diverso che ha bisogno di case, scuole, piazze, quartieri, ecc. sempre diversi per ogni situazione, per ogni circostanza. Questi problemi non si risolvono risuscitando vecchi linguaggi mummificati. Si affrontano sottoponendo a una critica rigorosa i fatti architettonici che ci hanno preceduto (…) precisando il senso del nostro mestiere nella società in cui viviamo” . Il dibattito sulla “tradizione” in architettura assume ruolo importante presso la sede del MSA la sera del 14 giugno 1955 . Accenneremo a quattro degli interventi presentati che ci hanno colpito particolarmente. Albini offre della tradizione una visione particolare. Dirà che “difficilmente si potrà dividere la discussione tra tradizione del costume (modo di vita) e tradizione architettonica: forse non è male che il discorso unisca i due problemi. Alla tradizione do il senso di continuità di cultura tra presente e passato (…) da tradizione come fatto di coscienza collettiva (…) assume il valore di legge riconosciuta da tutti (…). L’architettura, nel momento attuale, credo tenda verso la realtà, abbandonando le posizioni idealiste, le teorie, i princìpi, gli schemi: tende verso la realtà presente che è la risultante di numerose componenti attuali e passate e di queste realtà vuol prendere coscienza”. Per i “giovani delle colonne” invece la tradizione è da intendersi “come accettazione dell’epoca classica sino al Risorgimento”. Melograni sostiene che molta architettura moderna soffre del vizio antico di esaurirsi in un gioco formale alla ricerca della stessa vecchia retorica monumentale per cui gli architetti della contemporaneità combattono. “Per noi tutti la tradizione è un problema critico, di attenta ricerca degli aspetti positivi del nostro patrimonio culturale”. Per De Carlo infine “la tradizione è l’integrazione continua dei valori culturali di ogni tempo e ancora, a proposito dei “giovani delle colonne” che “si commuovono per i valori celebrativi dell’architettura neoclassica (…) ed eclettica dirò che in queste architetture celebrative io non vedo altro che l’inganno di una classe al potere, perpetrato a danno di una classe sociale che il potere non deteneva”. Abbiamo citato la relazione di Albini sia perché è la relazione introduttiva sia perché della “tradizione” fornisce una definizione estremamente ampia e ancora condivisibile. La relazione dei “giovani delle colonne” viceversa è una relazione sintomatica di una distanza profonda circa la concezione dell’architettura, chiaramente dimostrata nelle loro realizzazioni degli anni a venire, rispetto ai maestri del nostro Moderno. Si è citato Melograni perché è certamente il più “razionalista” tra gli architetti romani. E infine si è fatto riferimento alla comunicazione di De Carlo perché oltre alla lucida critica verso i giovani, nell’affermazione che “siamo stretti dalla necessità di operare il passaggio dalla qualità alla quantità (…) e questo significa dare agli uomini case, quartieri, città in cui la vita sia migliore”, riesce ad aprire di fatto una finestra temporale, iniziata cinque anni prima (1950) e che si concluderà dieci anni dopo (1965), su una delle peculiarità dell’architettura italiana: il “Piano Fanfani” poi INA-casa (oggetto di approfondimento successivo nelle pagine a seguire e, per il quale, ci riferiremo, seppure parzialmente, a un nostro testo già pubblicato a proposito del Neorealismo emiliano) . Sinora si è cercato di delineare il clima culturale, il dibattito critico che lo animava e i personaggi che lo caratterizzavano alimentandolo continuamente. E’ il tempo del “neorealismo” architettonico italiano che caratterizza gli anni del dopoguerra e della successiva ricostruzione. Un “tempo” particolare per il nostro paese e un “tempo” tra i più significativi dell’architettura italiana. Schematizzando potremmo dire che tale “tempo” era sostanzialmente costituito da due modi di essere, opposti ma simmetrici, che caratterizzavano, e per certi versi caratterizzano anche ora, i due atteggiamenti tipici del “professionismo” italiano. Da un lato c’erano gli architetti che hanno giocato “la carta dei riformatori della società o degli ingegneri dell’anima”, come avrebbe detto qualcuno, “che attraverso la costruzione delle periferie miravano a creare l’uomo nuovo, il cittadino (…) di una conurbazione razionale e ordinata . Condizione che avveniva a seguito di un dibattito, altrettanto variegato quale quello sulla tradizione, molteplice e complesso, sul tema del “superamento” dell’architettura “razionale”, in anni molto particolari quali quelli della ricostruzione post bellica. Dall’altro lato c’è l’atteggiamento opposto, definito da Giancarlo De Carlo, in una Casabella-continuità del 1954 quando presenta la casa in condominio di Gardella in via Marchiondi a Milano, come uno dei fatti più importanti della ricostruzione italiana nel dopoguerra. “E’, anzi, la faccia rovescia della ricostruzione italiana; l’altra faccia, quella buona, è la ripresa dell’edilizia popolare. Mentre la ripresa dell’edilizia popolare è nata dalle più intelligenti iniziative pubbliche e si è sviluppata (…) con la partecipazione dei migliori architetti, l’edilizia condominiale è cresciuta sotto il controllo della speculazione e con l’intervento quasi esclusivo degli specialisti in compravendita di aree fabbricabili e in cabale di regolamento edilizio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti” . Tale secondo atteggiamento, sempre condannato e criticato dagli esponenti del primo, finì poi con il coinvolgere, spesso in maniera ingiusta, pure i migliori architetti italiani. Dal presunto più o meno felice inserimento delle Fondamenta alle Zattere a Venezia (“il “filo” orizzontale con la preesistenza storica poco riuscito”), al presunto fuori scala dell’INA di Parma che si inserirebbe con difficoltà lungo la quinta urbana di via Cavour (“è troppo alto di un piano”), sino alla Torre Velasca di Milano che, per Gino Valle, rappresentava “un falso culturale, un travestire i dati della speculazione con Filarete” . Nove anni dopo il citato numero di Casabella, quindi nel 1963, Francesco Rosi con la sceneggiatura sua e di Raffaele La Capria, rappresenterà in modo eloquente il tema della speculazione edilizia italiana durante gli anni della ricostruzione e del boom economico nel film Le mani sulla città uno degli ultimi ascrivibili al neorealismo e particolarmente caro, oggi, a Roberto Saviano. E arriviamo al punto. “Il 24 febbraio 1949 il Parlamento approvò la Legge che mise in moto quello che, dal nome del Ministro che l’aveva promosso, fu chiamato in un primo tempo Piano Fanfani e poi Piano INA-Casa, come si legge”, ancora ora, “sulle piccole targhe di ceramica dai colori vivaci sui muri di molte delle abitazioni che per effetto di quel provvedimento furono costruite. Fu una iniziativa pubblica, nell’edilizia sociale senza precedenti e senza repliche: unica. Al termine dei 14 anni (due settennati) della sua attuazione gli alloggi realizzati furono tanti quanti ne potrebbe contenere un’intera area metropolitana” . Iniziativa incredibilmente meritoria e di grandissimo impatto sociale. Infatti il piano nasce principalmente per tre motivazioni: lotta feroce alla disoccupazione e all’inflazione, risposta al grande bisogno di alloggi e rafforzamento del ruolo della famiglia . Quanto al primo punto ci fu l’impiego di oltre mezzo milione di lavoratori (oltre seicentomila) che dovevano costruire secondo metodi e sistemi costruttivi tradizionali (non era quindi necessario il ricorso a mano d’opera specializzata). Il secondo punto fu raggiunto con la creazione di oltre trecentocinquantacinquemila alloggi e, per il terzo punto, famiglie che sino ad allora erano costrette a condividere con altre famiglie il luogo domestico, si ritrovarono finalmente con il proprio ed esclusivo alloggio. Per partecipare ai progetti del Piano la procedura non era complessa. Nella fase iniziale svolsero un ruolo determinante i concorsi per la selezione dei progettisti, volti alla formazione di un albo speciale di “progettisti INA-Casa”. Se il giudizio era positivo, l’incarico di progettazione perveniva con telegramma. I progetti, una volta elaborati e presentati, erano esaminati da un “Comitato di Gestione” presieduto inizialmente da Filiberto Guala sino al 1960 (quando l’ingegnere, cattolico, amico di Giuseppe Dossetti, decise di entrare in convento) e successivamente da Arnaldo Foschini che lavorò parecchio per predisporre delle linee guida da fornire ai progettisti. Nascono i quaderni Ina-Casa che si propongono di fornire e illustrare delle tipologie di indirizzo, mai prescrittive e, grazie ai fondi statunitensi dell’USIS (quale emanazione del piano Marshall) e all’impegno di Mario Ridolfi e Bruno Zevi, esce il “Manuale dell’Architetto”, strumenti a disposizione dei progettisti. E poi c’è il discorso del linguaggio. Foschini, sulla base dei dibattiti sulla “tradizione”, voleva fosse il “vernacolare” come a sancire un ritorno autentico alle nostre origini. Nel linguaggio vernacolare, sosteneva, si riconosceva sia l’architetto fascista in cerca di riscatto ma anche quello di sinistra per meglio soddisfare i bisogni della gente. Di qui quella sorta di “ambiguità” nel linguaggio dell’architettura del periodo cui si è accennato inizialmente. Nel corso degli anni successivi, però, si assistette a una sorta di “revisionismo critico” nei confronti del neorealismo o, come sostenuto da qualcuno, del realismo architettonico italiano. Critiche che provengono dai due poli d’eccellenza dell’architettura moderna italiana, tanto diversi ma egualmente perentori: Milano, la città industriale con committenza prevalentemente privata e Roma, la città terziaria e residenziale, legata da sempre alla politica e quindi a una committenza prevalentemente pubblica, priva, nell’immediato dopoguerra, di una tradizione moderna, diversamente da Milano che rappresentava esattamente l’opposto. Tra le prese di posizione negative nei confronti del piano INA-Casa ne citeremo due. Una del 1969 e l’altra del 1974. La prima, di scuola milanese, è di Gregotti per il quale la Gestione INA-Casa che doveva presiedere alla costruzione di case per lavoratori fu l’occasione perduta per molti: per i costruttori, per gli architetti, per lo Stato. “Una politica di minoranze, fatta di associazione di tendenza, rivelò tutta la sua fragilità di fronte al problema dell’INA-Casa che, guidato ancora da un’antica classe di burocrati accademici, finì col rifondere e appiattire il dibattito sulla base della distribuzione corporativa e clientelistica del lavoro” . Che invece probabilmente riguardò solo episodicamente alcune iniziative senza peraltro inficiare il grande lavoro promosso dallo Stato. La seconda, di scuola romana, è di Giorgio Muratore quando ricorda come attorno alla rivista Mètron si delinearono quelli che sarebbero divenuti gli elementi portanti del dibattito architettonico del dopoguerra. Si tentò di individuare “un’alternativa culturalmente e ideologicamente rinnovata ai modi edilizi dell’anteguerra” mirata a un “rinnovamento radicale delle metodologie e degli obiettivi. Fu così (…) che di fronte ai problemi più macroscopici della ricostruzione, ci si trovò spesso impreparati a rispondere sul piano adeguato e furono perdute alcune occasioni importanti (…). L’esperienza del Piano Fanfani è in questo senso sintomatica. Ricercare la dimensione astratta, artificiale e idealizzata del paese sembrò allora essere la soluzione più semplice ed economica, e fu perseguita con gli strumenti di uno sperimentalismo (…) appena mascherato in chiave sociologica e populista” . Il bilancio del Piano INA-Casa è da considerarsi comunque altamente positivo. Per l’Italia fu un’iniziativa pubblica, nell’ambito dell’edilizia sociale, senza precedenti e senza repliche. Proprio nulla a che vedere con le “dannose volubili e volatili proposte spacciate per piani casa in tempi recenti” . Ulteriore considerazione è relativa alla particolare attenzione che gli architetti italiani, o almeno buona parte dei migliori di essi, mostrano con maggiore evidenza tra il 1951 e il 1958 e che segna, nel bene e nel male dirà Gregotti, una svolta importante nell’architettura del nostro paese. “Noi chiameremo questa svolta col nome di aspirazione alla realtà e cercheremo di analizzare le forme fondamentali secondo le quali si presenta: l’aspirazione alla realtà come storia e come tradizione, l’aspirazione alla realtà come aspetto dell’ideologia nazional-popolare della sinistra politica, e infine l’aspirazione alla realtà come connessione con la preesistenza ambientale” . E’ questa situazione a costituire l’eredità più importante del neorealismo architettonico, cioè dell’architettura italiana nata e alimentata da quella temperie culturale di cui si è detto in precedenza. Con particolare riferimento al nostro mestiere caratterizzato, allora come ora, dalla passione per il costruire, dall’ostinazione e dalla “morale d’artista”. Ma dal 1960, anno in cui Gregotti scrive il pezzo su Casabella, a oggi sono cambiate molte cose. Prima di tutto perché è trascorso oltre mezzo secolo e poi perché altre vicende si sono confermate e consolidate come valori perenni, che non variano nel tempo, in quanto immanenti, irrinunciabili, ed è su tali valori che vale la pena porre l’attenzione perché essi e non altri costituiscono l’autentica eredità cui si accennava, a patto però che ci sia chi la sappia cogliere e apprezzare nella giusta scala di valori. Tali valori sono prima di tutto il voler credere al lavoro dell’architetto come impegno civile. Il credere alla funzione sociale del progetto, che significa allontanarlo dalla dimensione velleitaria e gratuita per ricollocarlo in una dimensione soprattutto etica. Il credere al progetto come mestiere, che significa credere alla possibilità di discuterlo in maniera utile e di insegnarlo: di trasmettere cioè delle regole e dei principi di modo che altri possano farne buon uso, operando lontano dalle mode e dai problemi di stile. Credere nel progetto moderno inteso come rappresentazione della ragione profonda di ciò che si costruisce ma soprattutto avvalersi dell’economia dei mezzi tecnici ed espressivi. Perseguire il raggiungimento di un’ ”architettura senza tempo” che paia sempre essere esistita. Che significa operare in continuità con la città cioè in continuità con la storia e la tradizione o, meglio, con la propria storia e la propria tradizione. E’ il principio immanente di quella “aspirazione alla realtà”, tanto cara a Gregotti, che finisce per connotare quell’ “eccellenza della normalità” di cui si avverte sempre più il bisogno e che pare invece essere dimenticata da chi, committente pubblico o privato poco importa, indulge in quella deriva formalista che fece dire a Irace, nel 2004, che la prima cosa di cui la città contemporanea ha bisogno è quella “di una firma importante che la lanci nel mondo della moda” . Il prodotto che ne deriva, noto a tutti, è contraddistinto dall’autoreferenzialità “che poi significa anti-socialità e non solo dell’architettura (…). L’architettura oggi deve stupire a qualunque costo, deve richiamare il grande pubblico (…) con messe in scena di cui lo spettacolo ha bisogno per andare avanti” . Ed è proprio contro questo stato di cose, contro questa “scuola di cattivo pensiero”, contro questa “non architettura”, che il pensiero di Rogers intende ancora porsi con grande e illuminata attualità. Per abbandonare la devastazione della città consolidata ritornando alla costruzione della città più giusta attraverso la straordinaria funzione democratica dell’architettura. Non possiamo dimenticare come “l’architetto abbia una duplice responsabilità: l’una verso le origini e l’altra verso i fini della sua opera. Bisogna che abbia tanto talento da cogliere la verità della storia in cui vive. La interpreti, la proclami, la difenda” . .
C'era una volta il Novecento / Alberto Manfredini. - In: ARCHITETTARE. - ISSN 2420-7756. - STAMPA. - 27:(2023), pp. 94-111.
C'era una volta il Novecento
Alberto Manfredini
2023
Abstract
C’ERA UNA VOLTA IL ‘900. IL DIBATTITO COSTANTE TRA TEORIA E PRATICA E LA COSTANTE AMBIGUITA' NEL LINGUAGGIO DELL'ARCHITETTURA ITALIANA. E’ utile, per comprendere meglio ciò che è alla base della ricostruzione post-bellica nel nostro paese, ripensare alla prefazione metodologica di uno dei primi volumi che contribuirono alla nascita della casa editrice Electa. Era il 1969 e pochi allora conoscevano quello che sarebbe diventato uno tra i più importanti editori di architettura. Vittorio Gregotti vi pubblica “Orientamenti nuovi nell’Architettura Italiana”. La nostra architettura possiede, dirà lui, alcune “specificità che possono essere messe utilmente a disposizione della cultura internazionale. La prima di queste è la dialettica con le nozioni di storia e di tradizione, che ha continuamente informato (…) a livello dei princìpi metodologici e delle soluzioni linguistiche, tutta l’architettura italiana” . Ciò ha comportato talvolta l’elaborazione di soluzioni in apparente contrasto con i princìpi del “moderno”, ha ridotto il dibattito a un ambito forse eccessivamente locale ma ha finito con il caratterizzare, in maniera evidente, l’identità precipua dell’architettura italiana. La seconda caratteristica è il dibattito costante tra ideologia e linguaggio, per aiutare a comprendere come non vi possa essere architettura autentica se non supportata da una teoria che la sostenga e giustifichi. “La terza nasce come conseguenza delle prime due e consiste nello stato di costante ambiguità” che contraddistingue il linguaggio espressivo di buona parte dell’architettura italiana del periodo. Questi tre princìpi, anzi questi tre punti, rappresentano, in estrema sintesi, le peculiarità dell’architettura moderna italiana nel suo momento storico probabilmente più felice. E’ pure altrettanto utile, seppur in maniera schematica, collocare questa particolare fase storica (quella appunto della ricostruzione) nel più ampio contesto della contemporanea storia europea, con riferimento particolare alla cultura architettonica tedesca che pare oscillare, in quei tempi, tra conservazione e contestazione del “movimento moderno” e quindi tra continuità e discontinuità con il medesimo. Tra una fase forse troppo semplificata che intende riferirsi ai princìpi di un funzionalismo tout court e una fase più legata alla tradizione locale con discutibili aspetti romantici, nel migliore dei casi e, nel peggiore, con antintellettualistici effetti folcloristici . In particolare sarà proprio Oswald Mathias Ungers a spiegarci il contesto europeo del periodo quando sostiene che l’Europa “non vive di una sola idea universale perché è multiforme. E’ un terreno in cui coesistono, una vicino all’altra, molte immagini e molte opinioni. E’ una regione del mondo in cui sono egualmente cresciuti illuminismo e misticismo. Nella tensione tra questi due estremi si sviluppa oggi una nuova vitalità” , che, come scriverà Aldo Rossi su Casabella, farà in modo che le costruzioni ungersite non siano né romantiche né razionaliste, né tradizionali, né moderne, ma cerchino di legarsi saldamente alla realtà di un luogo, alla realtà di chi vive in quel luogo e alla sua storia. “Realtà, luogo e storia sono le parole chiave intorno alle quali inizia a dispiegarsi la rete delle relazioni che, lungo il corso dell’intera carriera di Ungers, hanno collegato la sua ricerca con la cultura architettonica italiana” . Realtà, luogo e storia da un lato (Ungers) e dialettica con le nozioni di storia e di tradizione (Gregotti) dall’altro. Condizione che ci rimanda, senza esitazioni, a “La responsabilità verso la tradizione” che è il titolo di un editoriale di Casabella in cui Rogers afferma come sia giunto il momento di ristabilire le relazioni tra la tradizione spontanea, che definisce come “popolare” e la tradizione “colta”, per saldarle in un’unica tradizione. “Delle due componenti l’una è per consuetudine e quasi per definizione, oggetto di studi da tempo (…) mentre l’altra è stata estranea troppo a lungo alla storiografia artistica e alla sistematizzazione estetica” . L’architettura è il sintetico esprimersi di determinati contenuti in determinate forme e la tradizione è il particolare accento di queste sintesi, concatenate “nello svolgersi di una storia totale di un popolo. Per cogliere il carattere di una tradizione bisogna considerare la storia totale di un popolo e non alcuni suoi frammenti più o meno rilevanti” . E ancora poiché alla fine l’architettura si concretizzerà in una forma non si dovrà mai dimenticare come l’accademismo più insidioso sia proprio quello dei formalisti moderni. Stiamo quindi cercando di delineare, prima con Gregotti e successivamente con Rogers, il milieu culturale italiano del dopoguerra alla base della cultura della ricostruzione del nostro paese con gli innegabili risvolti di carattere sociale e di impegno politico. Chi punta prima di tutto sulla tradizione, o meglio sul senso di responsabilità verso la propria tradizione, come risposta all’editoriale di Reyner Banham (del ’59) che dalle pagine di Architectural Review vorrebbe sancire “la ritirata italiana dall’architettura moderna”. Sempre nel ’59, a Otterlo in occasione del CIAM di quell’anno, molti, tra gli architetti italiani che si sentivano ideologicamente legati alla Casabella di Rogers, furono oggetto di critica feroce per un presunto declinare delle proprie proposte progettuali verso lo storicismo, il regionalismo e il localismo da loro sostenuto invece come risposta critica e radicale all’affermarsi dell’ International Style. “Spine bianche” a Matera e “Torre Velasca” a Milano, solo per citare due casi fisicamente lontano, vengono considerate come esperienze estranee ai valori del Moderno . E pensare che pochi anni prima su Casabella, nel ’54, forse sulla scorta degli studi di Pagano sull’architettura rurale, ma anche e soprattutto come necessità di definire una volta per tutte l’identità dell’architettura italiana, un gruppo di undici studenti dei corsi di Composizione del Politecnico (tra cui Rossi, Canella, Tintori, e altri otto), denominati “I giovani delle colonne”, avevano deciso di rinnegare l’insegnamento razionalista di maniera che veniva in quegli anni impartito nei corsi progettuali per progettare polemicamente in stile secondo i princìpi della “pecora belante dell’eclettismo” come dirà De Carlo (in questo frangente custode vigile dei valori del “movimento moderno”) che critica pesantemente l’iniziativa (mentre Rogers sostiene di non essere “del tutto d’accordo con la tesi sostenuta da Giancarlo”), mettendone però in luce un significato positivo. “Perché prima di tutto rappresenta un rifiuto della condizione di conformismo e di piccola astuzia che corrompe l’ambiente della scuola (…). I problemi dell’architettura contemporanea riguardano l’uomo comune e sempre diverso che ha bisogno di case, scuole, piazze, quartieri, ecc. sempre diversi per ogni situazione, per ogni circostanza. Questi problemi non si risolvono risuscitando vecchi linguaggi mummificati. Si affrontano sottoponendo a una critica rigorosa i fatti architettonici che ci hanno preceduto (…) precisando il senso del nostro mestiere nella società in cui viviamo” . Il dibattito sulla “tradizione” in architettura assume ruolo importante presso la sede del MSA la sera del 14 giugno 1955 . Accenneremo a quattro degli interventi presentati che ci hanno colpito particolarmente. Albini offre della tradizione una visione particolare. Dirà che “difficilmente si potrà dividere la discussione tra tradizione del costume (modo di vita) e tradizione architettonica: forse non è male che il discorso unisca i due problemi. Alla tradizione do il senso di continuità di cultura tra presente e passato (…) da tradizione come fatto di coscienza collettiva (…) assume il valore di legge riconosciuta da tutti (…). L’architettura, nel momento attuale, credo tenda verso la realtà, abbandonando le posizioni idealiste, le teorie, i princìpi, gli schemi: tende verso la realtà presente che è la risultante di numerose componenti attuali e passate e di queste realtà vuol prendere coscienza”. Per i “giovani delle colonne” invece la tradizione è da intendersi “come accettazione dell’epoca classica sino al Risorgimento”. Melograni sostiene che molta architettura moderna soffre del vizio antico di esaurirsi in un gioco formale alla ricerca della stessa vecchia retorica monumentale per cui gli architetti della contemporaneità combattono. “Per noi tutti la tradizione è un problema critico, di attenta ricerca degli aspetti positivi del nostro patrimonio culturale”. Per De Carlo infine “la tradizione è l’integrazione continua dei valori culturali di ogni tempo e ancora, a proposito dei “giovani delle colonne” che “si commuovono per i valori celebrativi dell’architettura neoclassica (…) ed eclettica dirò che in queste architetture celebrative io non vedo altro che l’inganno di una classe al potere, perpetrato a danno di una classe sociale che il potere non deteneva”. Abbiamo citato la relazione di Albini sia perché è la relazione introduttiva sia perché della “tradizione” fornisce una definizione estremamente ampia e ancora condivisibile. La relazione dei “giovani delle colonne” viceversa è una relazione sintomatica di una distanza profonda circa la concezione dell’architettura, chiaramente dimostrata nelle loro realizzazioni degli anni a venire, rispetto ai maestri del nostro Moderno. Si è citato Melograni perché è certamente il più “razionalista” tra gli architetti romani. E infine si è fatto riferimento alla comunicazione di De Carlo perché oltre alla lucida critica verso i giovani, nell’affermazione che “siamo stretti dalla necessità di operare il passaggio dalla qualità alla quantità (…) e questo significa dare agli uomini case, quartieri, città in cui la vita sia migliore”, riesce ad aprire di fatto una finestra temporale, iniziata cinque anni prima (1950) e che si concluderà dieci anni dopo (1965), su una delle peculiarità dell’architettura italiana: il “Piano Fanfani” poi INA-casa (oggetto di approfondimento successivo nelle pagine a seguire e, per il quale, ci riferiremo, seppure parzialmente, a un nostro testo già pubblicato a proposito del Neorealismo emiliano) . Sinora si è cercato di delineare il clima culturale, il dibattito critico che lo animava e i personaggi che lo caratterizzavano alimentandolo continuamente. E’ il tempo del “neorealismo” architettonico italiano che caratterizza gli anni del dopoguerra e della successiva ricostruzione. Un “tempo” particolare per il nostro paese e un “tempo” tra i più significativi dell’architettura italiana. Schematizzando potremmo dire che tale “tempo” era sostanzialmente costituito da due modi di essere, opposti ma simmetrici, che caratterizzavano, e per certi versi caratterizzano anche ora, i due atteggiamenti tipici del “professionismo” italiano. Da un lato c’erano gli architetti che hanno giocato “la carta dei riformatori della società o degli ingegneri dell’anima”, come avrebbe detto qualcuno, “che attraverso la costruzione delle periferie miravano a creare l’uomo nuovo, il cittadino (…) di una conurbazione razionale e ordinata . Condizione che avveniva a seguito di un dibattito, altrettanto variegato quale quello sulla tradizione, molteplice e complesso, sul tema del “superamento” dell’architettura “razionale”, in anni molto particolari quali quelli della ricostruzione post bellica. Dall’altro lato c’è l’atteggiamento opposto, definito da Giancarlo De Carlo, in una Casabella-continuità del 1954 quando presenta la casa in condominio di Gardella in via Marchiondi a Milano, come uno dei fatti più importanti della ricostruzione italiana nel dopoguerra. “E’, anzi, la faccia rovescia della ricostruzione italiana; l’altra faccia, quella buona, è la ripresa dell’edilizia popolare. Mentre la ripresa dell’edilizia popolare è nata dalle più intelligenti iniziative pubbliche e si è sviluppata (…) con la partecipazione dei migliori architetti, l’edilizia condominiale è cresciuta sotto il controllo della speculazione e con l’intervento quasi esclusivo degli specialisti in compravendita di aree fabbricabili e in cabale di regolamento edilizio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti” . Tale secondo atteggiamento, sempre condannato e criticato dagli esponenti del primo, finì poi con il coinvolgere, spesso in maniera ingiusta, pure i migliori architetti italiani. Dal presunto più o meno felice inserimento delle Fondamenta alle Zattere a Venezia (“il “filo” orizzontale con la preesistenza storica poco riuscito”), al presunto fuori scala dell’INA di Parma che si inserirebbe con difficoltà lungo la quinta urbana di via Cavour (“è troppo alto di un piano”), sino alla Torre Velasca di Milano che, per Gino Valle, rappresentava “un falso culturale, un travestire i dati della speculazione con Filarete” . Nove anni dopo il citato numero di Casabella, quindi nel 1963, Francesco Rosi con la sceneggiatura sua e di Raffaele La Capria, rappresenterà in modo eloquente il tema della speculazione edilizia italiana durante gli anni della ricostruzione e del boom economico nel film Le mani sulla città uno degli ultimi ascrivibili al neorealismo e particolarmente caro, oggi, a Roberto Saviano. E arriviamo al punto. “Il 24 febbraio 1949 il Parlamento approvò la Legge che mise in moto quello che, dal nome del Ministro che l’aveva promosso, fu chiamato in un primo tempo Piano Fanfani e poi Piano INA-Casa, come si legge”, ancora ora, “sulle piccole targhe di ceramica dai colori vivaci sui muri di molte delle abitazioni che per effetto di quel provvedimento furono costruite. Fu una iniziativa pubblica, nell’edilizia sociale senza precedenti e senza repliche: unica. Al termine dei 14 anni (due settennati) della sua attuazione gli alloggi realizzati furono tanti quanti ne potrebbe contenere un’intera area metropolitana” . Iniziativa incredibilmente meritoria e di grandissimo impatto sociale. Infatti il piano nasce principalmente per tre motivazioni: lotta feroce alla disoccupazione e all’inflazione, risposta al grande bisogno di alloggi e rafforzamento del ruolo della famiglia . Quanto al primo punto ci fu l’impiego di oltre mezzo milione di lavoratori (oltre seicentomila) che dovevano costruire secondo metodi e sistemi costruttivi tradizionali (non era quindi necessario il ricorso a mano d’opera specializzata). Il secondo punto fu raggiunto con la creazione di oltre trecentocinquantacinquemila alloggi e, per il terzo punto, famiglie che sino ad allora erano costrette a condividere con altre famiglie il luogo domestico, si ritrovarono finalmente con il proprio ed esclusivo alloggio. Per partecipare ai progetti del Piano la procedura non era complessa. Nella fase iniziale svolsero un ruolo determinante i concorsi per la selezione dei progettisti, volti alla formazione di un albo speciale di “progettisti INA-Casa”. Se il giudizio era positivo, l’incarico di progettazione perveniva con telegramma. I progetti, una volta elaborati e presentati, erano esaminati da un “Comitato di Gestione” presieduto inizialmente da Filiberto Guala sino al 1960 (quando l’ingegnere, cattolico, amico di Giuseppe Dossetti, decise di entrare in convento) e successivamente da Arnaldo Foschini che lavorò parecchio per predisporre delle linee guida da fornire ai progettisti. Nascono i quaderni Ina-Casa che si propongono di fornire e illustrare delle tipologie di indirizzo, mai prescrittive e, grazie ai fondi statunitensi dell’USIS (quale emanazione del piano Marshall) e all’impegno di Mario Ridolfi e Bruno Zevi, esce il “Manuale dell’Architetto”, strumenti a disposizione dei progettisti. E poi c’è il discorso del linguaggio. Foschini, sulla base dei dibattiti sulla “tradizione”, voleva fosse il “vernacolare” come a sancire un ritorno autentico alle nostre origini. Nel linguaggio vernacolare, sosteneva, si riconosceva sia l’architetto fascista in cerca di riscatto ma anche quello di sinistra per meglio soddisfare i bisogni della gente. Di qui quella sorta di “ambiguità” nel linguaggio dell’architettura del periodo cui si è accennato inizialmente. Nel corso degli anni successivi, però, si assistette a una sorta di “revisionismo critico” nei confronti del neorealismo o, come sostenuto da qualcuno, del realismo architettonico italiano. Critiche che provengono dai due poli d’eccellenza dell’architettura moderna italiana, tanto diversi ma egualmente perentori: Milano, la città industriale con committenza prevalentemente privata e Roma, la città terziaria e residenziale, legata da sempre alla politica e quindi a una committenza prevalentemente pubblica, priva, nell’immediato dopoguerra, di una tradizione moderna, diversamente da Milano che rappresentava esattamente l’opposto. Tra le prese di posizione negative nei confronti del piano INA-Casa ne citeremo due. Una del 1969 e l’altra del 1974. La prima, di scuola milanese, è di Gregotti per il quale la Gestione INA-Casa che doveva presiedere alla costruzione di case per lavoratori fu l’occasione perduta per molti: per i costruttori, per gli architetti, per lo Stato. “Una politica di minoranze, fatta di associazione di tendenza, rivelò tutta la sua fragilità di fronte al problema dell’INA-Casa che, guidato ancora da un’antica classe di burocrati accademici, finì col rifondere e appiattire il dibattito sulla base della distribuzione corporativa e clientelistica del lavoro” . Che invece probabilmente riguardò solo episodicamente alcune iniziative senza peraltro inficiare il grande lavoro promosso dallo Stato. La seconda, di scuola romana, è di Giorgio Muratore quando ricorda come attorno alla rivista Mètron si delinearono quelli che sarebbero divenuti gli elementi portanti del dibattito architettonico del dopoguerra. Si tentò di individuare “un’alternativa culturalmente e ideologicamente rinnovata ai modi edilizi dell’anteguerra” mirata a un “rinnovamento radicale delle metodologie e degli obiettivi. Fu così (…) che di fronte ai problemi più macroscopici della ricostruzione, ci si trovò spesso impreparati a rispondere sul piano adeguato e furono perdute alcune occasioni importanti (…). L’esperienza del Piano Fanfani è in questo senso sintomatica. Ricercare la dimensione astratta, artificiale e idealizzata del paese sembrò allora essere la soluzione più semplice ed economica, e fu perseguita con gli strumenti di uno sperimentalismo (…) appena mascherato in chiave sociologica e populista” . Il bilancio del Piano INA-Casa è da considerarsi comunque altamente positivo. Per l’Italia fu un’iniziativa pubblica, nell’ambito dell’edilizia sociale, senza precedenti e senza repliche. Proprio nulla a che vedere con le “dannose volubili e volatili proposte spacciate per piani casa in tempi recenti” . Ulteriore considerazione è relativa alla particolare attenzione che gli architetti italiani, o almeno buona parte dei migliori di essi, mostrano con maggiore evidenza tra il 1951 e il 1958 e che segna, nel bene e nel male dirà Gregotti, una svolta importante nell’architettura del nostro paese. “Noi chiameremo questa svolta col nome di aspirazione alla realtà e cercheremo di analizzare le forme fondamentali secondo le quali si presenta: l’aspirazione alla realtà come storia e come tradizione, l’aspirazione alla realtà come aspetto dell’ideologia nazional-popolare della sinistra politica, e infine l’aspirazione alla realtà come connessione con la preesistenza ambientale” . E’ questa situazione a costituire l’eredità più importante del neorealismo architettonico, cioè dell’architettura italiana nata e alimentata da quella temperie culturale di cui si è detto in precedenza. Con particolare riferimento al nostro mestiere caratterizzato, allora come ora, dalla passione per il costruire, dall’ostinazione e dalla “morale d’artista”. Ma dal 1960, anno in cui Gregotti scrive il pezzo su Casabella, a oggi sono cambiate molte cose. Prima di tutto perché è trascorso oltre mezzo secolo e poi perché altre vicende si sono confermate e consolidate come valori perenni, che non variano nel tempo, in quanto immanenti, irrinunciabili, ed è su tali valori che vale la pena porre l’attenzione perché essi e non altri costituiscono l’autentica eredità cui si accennava, a patto però che ci sia chi la sappia cogliere e apprezzare nella giusta scala di valori. Tali valori sono prima di tutto il voler credere al lavoro dell’architetto come impegno civile. Il credere alla funzione sociale del progetto, che significa allontanarlo dalla dimensione velleitaria e gratuita per ricollocarlo in una dimensione soprattutto etica. Il credere al progetto come mestiere, che significa credere alla possibilità di discuterlo in maniera utile e di insegnarlo: di trasmettere cioè delle regole e dei principi di modo che altri possano farne buon uso, operando lontano dalle mode e dai problemi di stile. Credere nel progetto moderno inteso come rappresentazione della ragione profonda di ciò che si costruisce ma soprattutto avvalersi dell’economia dei mezzi tecnici ed espressivi. Perseguire il raggiungimento di un’ ”architettura senza tempo” che paia sempre essere esistita. Che significa operare in continuità con la città cioè in continuità con la storia e la tradizione o, meglio, con la propria storia e la propria tradizione. E’ il principio immanente di quella “aspirazione alla realtà”, tanto cara a Gregotti, che finisce per connotare quell’ “eccellenza della normalità” di cui si avverte sempre più il bisogno e che pare invece essere dimenticata da chi, committente pubblico o privato poco importa, indulge in quella deriva formalista che fece dire a Irace, nel 2004, che la prima cosa di cui la città contemporanea ha bisogno è quella “di una firma importante che la lanci nel mondo della moda” . Il prodotto che ne deriva, noto a tutti, è contraddistinto dall’autoreferenzialità “che poi significa anti-socialità e non solo dell’architettura (…). L’architettura oggi deve stupire a qualunque costo, deve richiamare il grande pubblico (…) con messe in scena di cui lo spettacolo ha bisogno per andare avanti” . Ed è proprio contro questo stato di cose, contro questa “scuola di cattivo pensiero”, contro questa “non architettura”, che il pensiero di Rogers intende ancora porsi con grande e illuminata attualità. Per abbandonare la devastazione della città consolidata ritornando alla costruzione della città più giusta attraverso la straordinaria funzione democratica dell’architettura. Non possiamo dimenticare come “l’architetto abbia una duplice responsabilità: l’una verso le origini e l’altra verso i fini della sua opera. Bisogna che abbia tanto talento da cogliere la verità della storia in cui vive. La interpreti, la proclami, la difenda” . .File | Dimensione | Formato | |
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