Non amo la parola inclusione e non parlo praticamente mai di linguaggio inclusivo: le trovo espressioni inadatte a descrivere la direzione verso la quale dovremmo tendere come collettività. Il mio fastidio è legato al fatto che questi concetti non sono utili per cambiare prospettiva: continuano a presumere che ci sia chi è nella posizione di includere, i cosiddetti “normali”, e chi invece si ritrova a subìre l’inclusione, i cosiddetti “diversi”: diversi per colore della pelle, religione, forma del corpo, orientamento affettivo/sessuale, identità di genere, status socioeconomico, età, disabilità, modo di pensare, eccetera: diversi rispetto a qualsiasi parametro che la società si inventa per distinguere tra chi è normale e chi, ai suoi occhi, non lo è, creando inevitabilmente fenomeni di alterizzazione: noi vs loro. E così, di volta in volta, i loro diventano le persone migranti, la comunità LGBTQIA+, o magari le donne, le persone con un corpo non conforme, la comunità musulmana: avendo chiaramente identificato un gruppo altro-da-noi ecco che si può procedere a incolparlo di tutti i mali del mondo. A parte avere creato una nuova categoria, ben riconoscibile, di nemici, al contempo si riesce nel miracoloso intento di lavarsi la coscienza: se le cose vanno male non è colpa mia, è colpa loro. Per quanto l’inclusione possa sembrare un antidoto ai fenomeni di alterizzazione, a mio avviso – e ad avviso di studiosi come Fabrizio Acanfora – si tratta di una definizione fuorviante, che non oppone nuove narrazioni alla tendenza normocentrica della società nella quale viviamo. Per questo, seguendo proprio le osservazioni di Acanfora, preferisco parlare di convivenza delle differenze e di linguaggio ampio, per dare l’idea di qualcosa che è in movimento, in espansione; una società nella quale la diversità sia considerata come naturale varietà e venga ritenuta una risorsa invece che un accidente da accomodare e, di concerto, una lingua che vada incontro a questo modo di rapportarsi con l’alterità. Non tolleranza, dunque, non integrazione, che sono a loro volta espressioni figlie dell’idea di una presunta superiorità culturale europea, bianca, eccetera, ma nemmeno inclusione, termine più bonario dei precedenti, ma ancora intriso, a mio avviso, di un certo grado di saviorism. A mutate necessità socioculturali corrispondono, dunque, mutamenti di sensibilità, e a tutto questo non possono che corrispondere mutamenti linguistici, dato che la lingua riproduce, al suo interno, visioni del mondo, convinzioni, credenze e rapporti di potere; del resto non potrebbe essere altrimenti, perché ogni lingua non può che rispecchiare ciò che conosce e riconosce di momento in momento. In altre parole, non ci si può aspettare da nessun sistema linguistico la capacità di prevedere il futuro e di avere, quindi, già immaginato tutte le esigenze delle comunità dei parlanti a venire. Aprirsi verso la convivenza delle differenze vuol dire rinunciare alla contrapposizione normale-diverso, come pure all’idea che essere normale, qualsiasi cosa questo significhi, sia un descrittore qualitativo oltre che un semplice dato statistico: la normalità è ciò che sta nella parte centrale della curva gaussiana, sic et simpliciter. Pur riconoscendo l’afflato positivo dell’istanza, non è detto che sia altrettanto semplice abbracciare questa nuova visione, se non altro perché cresciamo in un contesto che, invece, decanta il “normale” come non solo desiderabile, ma anche come l’unica caratteristica desiderabile; inoltre, la normalità viene descritta come statica, decisa una volta per tutte, non come un parametro mutevole. Ma questo non è vero; anche nel breve volgere di qualche generazione, le sensibilità sono cambiate, e alcuni modi di vedere la varietà umana che erano considerati accettabili un secolo, cinquanta o vent’anni fa, oggi non lo sono più. Cito da un sussidiario della quinta elementare risalente agli anni del Ventennio fascista una descrizione delle “razze” umane (Il libro della V classe elementare, Libreria dello Stato, Roma a. X, p. 204): La popolazione del mondo è formata di genti molto diverse. Noi abbiamo la pelle rosea a fondo bianco, e in generale il naso ben pronunciato, le labbra sottili, i capelli lisci. Ma ci sono lontano da noi, a oriente, in Asia, uomini dalla pelle giallastra, dal naso schiacciato, e con gli occhi inclinati all’ingiù verso il naso; e a sud, in Africa, uomini dalla pelle nera, dalle labbra grosse, dai capelli crespi. Nelle lontane Americhe, ora abitate in gran parte di popoli bianchi come noi, dominavano, prima che Cristoforo Colombo le scoprisse, certe popolazioni di alta statura, dal viso allungato e dal colorito rossastro, i Pellirosse, dei quali oggi si trovano solo piccoli nuclei. Nelle isole tra l’Asia e l’America vive oggi una popolazione bella di forme, ma di colore olivastro. Per queste differenze di colore si dice che gli uomini si distinguono in razze, che sono le seguenti: razza bianca europea, razza gialla asiatica, razza nera africana, razza oliva malese. Ma veramente i popoli di razza rossa e di razza oliva non sarebbero in origine che popoli di razza gialla. Oggi sappiamo che le razze non esistono, dal punto di vista scientifico, e che le varie caratteristiche somatiche umane sono disposte lungo un continuum, senza stacchi netti, come in generale i molteplici aspetti della Natura (che non ama le opposizioni binarie); sappiamo anche che la popolazione italiana non viene considerata univocamente all’apice della bianchezza: esistono delle frange del suprematismo bianco – soprattutto statunitense – per le quali rientriamo a pieno titolo tra le persone non bianche, giusto per fare un esempio. Citare questo sussidiario mi è utile per avvicinarmi all’argomento di cui stiamo discutendo: la produzione letteraria per ragazzi. In primis, mi sembra ovvio che oggi un testo scolastico come quello citato non sarebbe accettabile: oltre che palesemente antiscientifico, sarebbe anche considerato apertamente razzista, dato che afferma la superiorità della “razza bianca”. Credo che esistano pochi soggetti disposti a dire che sarebbe giusto far studiare i e le giovani di oggi su un libro del genere. Ma quando si arriva alla letteratura, anche quella specificamente per giovani menti, il fronte si spacca: c’è chi vede come un fatto positivo, se non addirittura necessario, che i classici vengano riscritti in una prospettiva maggiormente attenta alla diversità, c’è chi invece grida allo scandalo in nome della fedeltà filologica, vedendo la modifica di opere del passato come operazione censoria, istanza woke (parola che oggi va molto di moda) e aberrazione dettata da un eccesso di politicamente corretto (altro sintagma oggigiorno usatissimo, anche da chi non ha idea di cosa si celi dietro di esso. E su questo, rimando al contributo di Federico Faloppa dal titolo Breve storia di una strumentalizzazione. Alle origini dell’espressione Politically Correct, in Non si può più dire niente?, 2022, UTET, pp. 69-88). La mia posizione credo scontenterà tutti gli schieramenti, sia quello a favore, sia quello contro. Parto dall’osservare che da ragazzina ho letto i grandi classici, dal Conte di Montecristo a Ben Hur, da Michele Strogoff a tutto Verne, da Piccole Donne alla Piccola Fadette nelle edizioni “per ragazzi” o “per ragazze” (ovviamente, ché non è mai troppo presto per dare un’educazione genderizzata), senza minimamente sospettare che nella maggior parte dei casi si trattava di adattamenti, non di opere originali. Allo stesso modo, ricordo che a casa della mia nonna italiana c’erano sempre delle copie di Selezione dal Readers’ Digest, che contenevano dei “Bignami” di opere classiche, insomma riscritture per rendere più fruibili testi altrimenti troppo complessi. Questo vuol dire che anche in passato si modificavano i classici, in barba alla filologia; certo, per chi invece aveva interesse a leggere l’opera filologicamente corretta, c’è sempre la possibilità di andarsi a cercare un’edizione originale. Dunque, quello che oggi sembra si stia facendo con alcune opere esplicitamente per ragazzi, come i romanzi di Roald Dahl, il caso a oggi più discusso, non è in assoluto una novità, se non che la riscrittura tocca aspetti che magari una volta non venivano presi in considerazione (vengono rimossi elementi lessicali che determinate categorie di persone possono trovare offensivi). Da linguista, e da filologa, la mia prima reazione, di fronte alle notizie circolate, è stata di grande fastidio. Poi mi sono soffermata a riflettere sulla questione, chiedendomi se potessero esserci delle circostanze nelle quali avrei avuto piacere di poter far leggere a una determinata persona una versione “pulita” di alcuni romanzi. Ed è allora che mi sono resa conto che, per quanto possa fare attenzione alla diversità, io appartengo per molti aspetti alla parte più agiata della popolazione: sono bianca, nata in un paese europeo, non ho disabilità fisiche, almeno al momento, ho un corpo tutto sommato conforme, addirittura rientro nella “norma” come identità di genere e orientamento sessuale. Ogni volta che parlo con persone che, invece, vivono le discriminazioni dall’interno (persone razzializzate, o con disabilità, o transgender, o neuroatipiche, o marginalizzate per qualche altro motivo), mi rendo conto di quanto la mia visione sia parziale, viziata da una posizione che non posso che definire di assoluto privilegio. Questo mi porta a sentire la necessità di relativizzare il mio punto di vista e di affermare che, se si fa sì che i testi originali rimangano a sul mercato, e accanto a questi si rendessero disponibili le versioni “emendate”, chiaramente indicate come modificate rispetto all’originale, non vedo nulla di male nell’ampliare il ventaglio di prodotti disponibili. Aggiunta, e non sostituzione. Ciononostante, concordo in parte anche con chi si scaglia contro queste riscritture, perché, pur essendo una convinta sostenitrice di una maggiore attenzione nei confronti delle parole che usiamo e della possibilità di trovare nuove vie, linguistiche e non, penso che esista il rischio dell’eccesso: per quanto non sia quasi mai d’accordo con il suo modo di dire le cose, condivido il pensiero di Guia Soncini quando afferma che rischiamo di crescere generazioni di persone che si impressionano per qualsiasi contenuto minimamente disturbante, finendo a vivere nell’ossessione del TW, del trigger warning, ossia l’avviso per contenuti potenzialmente traumatizzanti. Ritengo che la retta via stia da qualche parte nel mezzo: nella possibilità di rivedere le nostre parole prestando maggiormente attenzione alla diversità senza, però, farsi prendere dalla foga censoria di fronte a qualsiasi contenuto potenzialmente “brutto” o offensivo. Penso che talvolta occorra affrontare anche ciò che fa male, per imparare a non riproporlo, e che abbiamo tanto bisogno di fare l’unica cosa che, a mio avviso, ci può salvare dagli estremismi: studiare. Un’attività necessaria, ma che richiede un tempo e una dedizione che molte persone pensano di non avere.
Differenze e buone intenzioni / Vera Gheno. - In: LI.B.E.R. LIBRI PER BAMBINI E RAGAZZI. - ISSN 1120-4095. - STAMPA. - 140:(2023), pp. 22-25.
Differenze e buone intenzioni
Vera Gheno
2023
Abstract
Non amo la parola inclusione e non parlo praticamente mai di linguaggio inclusivo: le trovo espressioni inadatte a descrivere la direzione verso la quale dovremmo tendere come collettività. Il mio fastidio è legato al fatto che questi concetti non sono utili per cambiare prospettiva: continuano a presumere che ci sia chi è nella posizione di includere, i cosiddetti “normali”, e chi invece si ritrova a subìre l’inclusione, i cosiddetti “diversi”: diversi per colore della pelle, religione, forma del corpo, orientamento affettivo/sessuale, identità di genere, status socioeconomico, età, disabilità, modo di pensare, eccetera: diversi rispetto a qualsiasi parametro che la società si inventa per distinguere tra chi è normale e chi, ai suoi occhi, non lo è, creando inevitabilmente fenomeni di alterizzazione: noi vs loro. E così, di volta in volta, i loro diventano le persone migranti, la comunità LGBTQIA+, o magari le donne, le persone con un corpo non conforme, la comunità musulmana: avendo chiaramente identificato un gruppo altro-da-noi ecco che si può procedere a incolparlo di tutti i mali del mondo. A parte avere creato una nuova categoria, ben riconoscibile, di nemici, al contempo si riesce nel miracoloso intento di lavarsi la coscienza: se le cose vanno male non è colpa mia, è colpa loro. Per quanto l’inclusione possa sembrare un antidoto ai fenomeni di alterizzazione, a mio avviso – e ad avviso di studiosi come Fabrizio Acanfora – si tratta di una definizione fuorviante, che non oppone nuove narrazioni alla tendenza normocentrica della società nella quale viviamo. Per questo, seguendo proprio le osservazioni di Acanfora, preferisco parlare di convivenza delle differenze e di linguaggio ampio, per dare l’idea di qualcosa che è in movimento, in espansione; una società nella quale la diversità sia considerata come naturale varietà e venga ritenuta una risorsa invece che un accidente da accomodare e, di concerto, una lingua che vada incontro a questo modo di rapportarsi con l’alterità. Non tolleranza, dunque, non integrazione, che sono a loro volta espressioni figlie dell’idea di una presunta superiorità culturale europea, bianca, eccetera, ma nemmeno inclusione, termine più bonario dei precedenti, ma ancora intriso, a mio avviso, di un certo grado di saviorism. A mutate necessità socioculturali corrispondono, dunque, mutamenti di sensibilità, e a tutto questo non possono che corrispondere mutamenti linguistici, dato che la lingua riproduce, al suo interno, visioni del mondo, convinzioni, credenze e rapporti di potere; del resto non potrebbe essere altrimenti, perché ogni lingua non può che rispecchiare ciò che conosce e riconosce di momento in momento. In altre parole, non ci si può aspettare da nessun sistema linguistico la capacità di prevedere il futuro e di avere, quindi, già immaginato tutte le esigenze delle comunità dei parlanti a venire. Aprirsi verso la convivenza delle differenze vuol dire rinunciare alla contrapposizione normale-diverso, come pure all’idea che essere normale, qualsiasi cosa questo significhi, sia un descrittore qualitativo oltre che un semplice dato statistico: la normalità è ciò che sta nella parte centrale della curva gaussiana, sic et simpliciter. Pur riconoscendo l’afflato positivo dell’istanza, non è detto che sia altrettanto semplice abbracciare questa nuova visione, se non altro perché cresciamo in un contesto che, invece, decanta il “normale” come non solo desiderabile, ma anche come l’unica caratteristica desiderabile; inoltre, la normalità viene descritta come statica, decisa una volta per tutte, non come un parametro mutevole. Ma questo non è vero; anche nel breve volgere di qualche generazione, le sensibilità sono cambiate, e alcuni modi di vedere la varietà umana che erano considerati accettabili un secolo, cinquanta o vent’anni fa, oggi non lo sono più. Cito da un sussidiario della quinta elementare risalente agli anni del Ventennio fascista una descrizione delle “razze” umane (Il libro della V classe elementare, Libreria dello Stato, Roma a. X, p. 204): La popolazione del mondo è formata di genti molto diverse. Noi abbiamo la pelle rosea a fondo bianco, e in generale il naso ben pronunciato, le labbra sottili, i capelli lisci. Ma ci sono lontano da noi, a oriente, in Asia, uomini dalla pelle giallastra, dal naso schiacciato, e con gli occhi inclinati all’ingiù verso il naso; e a sud, in Africa, uomini dalla pelle nera, dalle labbra grosse, dai capelli crespi. Nelle lontane Americhe, ora abitate in gran parte di popoli bianchi come noi, dominavano, prima che Cristoforo Colombo le scoprisse, certe popolazioni di alta statura, dal viso allungato e dal colorito rossastro, i Pellirosse, dei quali oggi si trovano solo piccoli nuclei. Nelle isole tra l’Asia e l’America vive oggi una popolazione bella di forme, ma di colore olivastro. Per queste differenze di colore si dice che gli uomini si distinguono in razze, che sono le seguenti: razza bianca europea, razza gialla asiatica, razza nera africana, razza oliva malese. Ma veramente i popoli di razza rossa e di razza oliva non sarebbero in origine che popoli di razza gialla. Oggi sappiamo che le razze non esistono, dal punto di vista scientifico, e che le varie caratteristiche somatiche umane sono disposte lungo un continuum, senza stacchi netti, come in generale i molteplici aspetti della Natura (che non ama le opposizioni binarie); sappiamo anche che la popolazione italiana non viene considerata univocamente all’apice della bianchezza: esistono delle frange del suprematismo bianco – soprattutto statunitense – per le quali rientriamo a pieno titolo tra le persone non bianche, giusto per fare un esempio. Citare questo sussidiario mi è utile per avvicinarmi all’argomento di cui stiamo discutendo: la produzione letteraria per ragazzi. In primis, mi sembra ovvio che oggi un testo scolastico come quello citato non sarebbe accettabile: oltre che palesemente antiscientifico, sarebbe anche considerato apertamente razzista, dato che afferma la superiorità della “razza bianca”. Credo che esistano pochi soggetti disposti a dire che sarebbe giusto far studiare i e le giovani di oggi su un libro del genere. Ma quando si arriva alla letteratura, anche quella specificamente per giovani menti, il fronte si spacca: c’è chi vede come un fatto positivo, se non addirittura necessario, che i classici vengano riscritti in una prospettiva maggiormente attenta alla diversità, c’è chi invece grida allo scandalo in nome della fedeltà filologica, vedendo la modifica di opere del passato come operazione censoria, istanza woke (parola che oggi va molto di moda) e aberrazione dettata da un eccesso di politicamente corretto (altro sintagma oggigiorno usatissimo, anche da chi non ha idea di cosa si celi dietro di esso. E su questo, rimando al contributo di Federico Faloppa dal titolo Breve storia di una strumentalizzazione. Alle origini dell’espressione Politically Correct, in Non si può più dire niente?, 2022, UTET, pp. 69-88). La mia posizione credo scontenterà tutti gli schieramenti, sia quello a favore, sia quello contro. Parto dall’osservare che da ragazzina ho letto i grandi classici, dal Conte di Montecristo a Ben Hur, da Michele Strogoff a tutto Verne, da Piccole Donne alla Piccola Fadette nelle edizioni “per ragazzi” o “per ragazze” (ovviamente, ché non è mai troppo presto per dare un’educazione genderizzata), senza minimamente sospettare che nella maggior parte dei casi si trattava di adattamenti, non di opere originali. Allo stesso modo, ricordo che a casa della mia nonna italiana c’erano sempre delle copie di Selezione dal Readers’ Digest, che contenevano dei “Bignami” di opere classiche, insomma riscritture per rendere più fruibili testi altrimenti troppo complessi. Questo vuol dire che anche in passato si modificavano i classici, in barba alla filologia; certo, per chi invece aveva interesse a leggere l’opera filologicamente corretta, c’è sempre la possibilità di andarsi a cercare un’edizione originale. Dunque, quello che oggi sembra si stia facendo con alcune opere esplicitamente per ragazzi, come i romanzi di Roald Dahl, il caso a oggi più discusso, non è in assoluto una novità, se non che la riscrittura tocca aspetti che magari una volta non venivano presi in considerazione (vengono rimossi elementi lessicali che determinate categorie di persone possono trovare offensivi). Da linguista, e da filologa, la mia prima reazione, di fronte alle notizie circolate, è stata di grande fastidio. Poi mi sono soffermata a riflettere sulla questione, chiedendomi se potessero esserci delle circostanze nelle quali avrei avuto piacere di poter far leggere a una determinata persona una versione “pulita” di alcuni romanzi. Ed è allora che mi sono resa conto che, per quanto possa fare attenzione alla diversità, io appartengo per molti aspetti alla parte più agiata della popolazione: sono bianca, nata in un paese europeo, non ho disabilità fisiche, almeno al momento, ho un corpo tutto sommato conforme, addirittura rientro nella “norma” come identità di genere e orientamento sessuale. Ogni volta che parlo con persone che, invece, vivono le discriminazioni dall’interno (persone razzializzate, o con disabilità, o transgender, o neuroatipiche, o marginalizzate per qualche altro motivo), mi rendo conto di quanto la mia visione sia parziale, viziata da una posizione che non posso che definire di assoluto privilegio. Questo mi porta a sentire la necessità di relativizzare il mio punto di vista e di affermare che, se si fa sì che i testi originali rimangano a sul mercato, e accanto a questi si rendessero disponibili le versioni “emendate”, chiaramente indicate come modificate rispetto all’originale, non vedo nulla di male nell’ampliare il ventaglio di prodotti disponibili. Aggiunta, e non sostituzione. Ciononostante, concordo in parte anche con chi si scaglia contro queste riscritture, perché, pur essendo una convinta sostenitrice di una maggiore attenzione nei confronti delle parole che usiamo e della possibilità di trovare nuove vie, linguistiche e non, penso che esista il rischio dell’eccesso: per quanto non sia quasi mai d’accordo con il suo modo di dire le cose, condivido il pensiero di Guia Soncini quando afferma che rischiamo di crescere generazioni di persone che si impressionano per qualsiasi contenuto minimamente disturbante, finendo a vivere nell’ossessione del TW, del trigger warning, ossia l’avviso per contenuti potenzialmente traumatizzanti. Ritengo che la retta via stia da qualche parte nel mezzo: nella possibilità di rivedere le nostre parole prestando maggiormente attenzione alla diversità senza, però, farsi prendere dalla foga censoria di fronte a qualsiasi contenuto potenzialmente “brutto” o offensivo. Penso che talvolta occorra affrontare anche ciò che fa male, per imparare a non riproporlo, e che abbiamo tanto bisogno di fare l’unica cosa che, a mio avviso, ci può salvare dagli estremismi: studiare. Un’attività necessaria, ma che richiede un tempo e una dedizione che molte persone pensano di non avere.I documenti in FLORE sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.