Si tratta della relazione composta per la Giornata di studio dedicata nel 2002 a Alfieri e Petrarca dal Comitato per le celebrazioni di Vittorio Alfieri e dal Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova e pubblicata nel 2005 con gli altri contributi degli Atti, a cura di G. Santato e G. Bettin, presso la Casa d’Alfieri nel volume VIII degli «Annali Alfieriani». Il saggio, prendendo le mosse da alcune osservazioni della Lettera di Ranieri de’ Calzabigi all’autore sulle quattro sue prime tragedie e della Risposta dell’autore e ricorrendo anche a citazioni tratte dall’autobiografia, mette a fuoco l’idea di lingua di Vittorio Alfieri (segnatamente della poesia tragica moderna, nonché dello stile e forma corrispondenti) e la sua ricerca di un’armonia propria del verso tragico, differente da quella degli altri generi poetici e distante dalla loro specificità tanto quanto dalla banalità prosaica della conversazione; e sottolinea l’individuazione da parte dell’autore dell’ingrediente essenziale del parlato tragico nella collocazione non comune delle parole e nell’impiego di una brevità di modi espressivi noti a chi abbia assimilato per lunga consuetudine di studio e di letture le primigenie proprietà della lingua italiana. Questo modo di venire all’introibo, mentre per un verso consente di entrare in argomento già avvertiti che la lettura alfieriana, tenace peraltro e più volte replicata del Canzoniere di Petrarca, va intesa, non tanto quale appropriazione preliminare del vocabolario della poesia, quanto mirata soprattutto a cogliere nel dettato lirico dei Fragmenta gli elementi utili all’armonia tragica perseguita; per l’altro incoraggia l’adozione di un atteggiamento nuovo, rispetto a quello tenuto da Ezio Raimondi nel suo studio del 1979 che, osservando la componente petrarchesca sciolta quasi senza residui nella pasta del discorso tragico alfieriano, ne reperiva le tracce superstiti con l’inventario paziente di tessere e sintagmi del Canzoniere: resti, non perfettamente amalgamati, molti dei quali oltre tutto già forme basilari del lessico a dominante petrarchesca di una plurisecolare tradizione lirica e tragica. Si è cercato pertanto di mostrare quale parte abbia giocato il Canzoniere nella messa a punto del meccanismo del verso sciolto di dialogo, di cui Alfieri parla nella Vita, poggiante su una nuova giacitura di parole e su una variazione conseguente di ritmo, distinguendo gli esempi addotti secondo una casistica individuata e funzionale (di natura sintattica e prosodica) e fornendo prove della programmatica tendenza di Alfieri a variare giacitura alle cantilenanti clausole petrarchesche (con prelievi da Filippo, Antigone, Ottavia, Mirra, Congiura, Bruto primo, Bruto secondo, Antonio e Cleopatra, Polinice, Abele, Saul, Timoleone, Agamennone): prove rese anche più evidenti dal confronto del suo modo imitativo più libero, rispetto a quello della tradizione tragica cinquecentesca (si danno significativi raffronti con la Marianna di Dolce, l’Orbecche di Giraldi, la Rosmunda di Rucellai, la Sofonisba di Trissino, la Merope di Maffei e la Canace di Speroni). Il rapporto delle tragedie alfieriane con l’ipotesto lirico petrarchesco che emerge da un’indagine siffatta ha incoraggiato da un lato a sostituire il catalogo indifferenziato dei riscontri con la scelta ragionata del riscontro più convincente (colto nella ricca complessità del contesto allargato, molto più implicato col dettato petrarchesco di quanto faccia presumere il singolo lemma o il sintagma isolato), dall’altro a tentare (con esiti soddisfacenti, seppure basati su limitati prelievi) anche altre verifiche. Da esse risultano con evidenza sia l’attenzione di Alfieri (e la sua sensibilità nell’elaborazione del proprio dialogo tragico) verso componimenti petrarcheschi riconducibili alla modalità colloquiale, sia l’alto grado di imitazione del Canzoniere, per affinità di genere, nei luoghi “cantati” di alcune tragedie (come il canto polimetrico di David nel Saul), sia anche, fatti salvi il ritmo franto e il rifiuto di giaciture più cantabili e riconoscibili come petrarchesche, la creazione di una sonorità propria talora ottenuta in virtù di una geniale frammentazione dei suoni e della relativa forza dirompente, analoghe a quelle documentate per Petrarca e ben ravvisabili sotto l’apparente levigatezza del fraseggio.

Il petrarchismo delle tragedie alfieriane / C. Molinari. - In: ANNALI ALFIERIANI. - ISSN 1972-9073. - STAMPA. - VIII:(2005), pp. 63-101.

Il petrarchismo delle tragedie alfieriane

MOLINARI, CARLA
2005

Abstract

Si tratta della relazione composta per la Giornata di studio dedicata nel 2002 a Alfieri e Petrarca dal Comitato per le celebrazioni di Vittorio Alfieri e dal Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova e pubblicata nel 2005 con gli altri contributi degli Atti, a cura di G. Santato e G. Bettin, presso la Casa d’Alfieri nel volume VIII degli «Annali Alfieriani». Il saggio, prendendo le mosse da alcune osservazioni della Lettera di Ranieri de’ Calzabigi all’autore sulle quattro sue prime tragedie e della Risposta dell’autore e ricorrendo anche a citazioni tratte dall’autobiografia, mette a fuoco l’idea di lingua di Vittorio Alfieri (segnatamente della poesia tragica moderna, nonché dello stile e forma corrispondenti) e la sua ricerca di un’armonia propria del verso tragico, differente da quella degli altri generi poetici e distante dalla loro specificità tanto quanto dalla banalità prosaica della conversazione; e sottolinea l’individuazione da parte dell’autore dell’ingrediente essenziale del parlato tragico nella collocazione non comune delle parole e nell’impiego di una brevità di modi espressivi noti a chi abbia assimilato per lunga consuetudine di studio e di letture le primigenie proprietà della lingua italiana. Questo modo di venire all’introibo, mentre per un verso consente di entrare in argomento già avvertiti che la lettura alfieriana, tenace peraltro e più volte replicata del Canzoniere di Petrarca, va intesa, non tanto quale appropriazione preliminare del vocabolario della poesia, quanto mirata soprattutto a cogliere nel dettato lirico dei Fragmenta gli elementi utili all’armonia tragica perseguita; per l’altro incoraggia l’adozione di un atteggiamento nuovo, rispetto a quello tenuto da Ezio Raimondi nel suo studio del 1979 che, osservando la componente petrarchesca sciolta quasi senza residui nella pasta del discorso tragico alfieriano, ne reperiva le tracce superstiti con l’inventario paziente di tessere e sintagmi del Canzoniere: resti, non perfettamente amalgamati, molti dei quali oltre tutto già forme basilari del lessico a dominante petrarchesca di una plurisecolare tradizione lirica e tragica. Si è cercato pertanto di mostrare quale parte abbia giocato il Canzoniere nella messa a punto del meccanismo del verso sciolto di dialogo, di cui Alfieri parla nella Vita, poggiante su una nuova giacitura di parole e su una variazione conseguente di ritmo, distinguendo gli esempi addotti secondo una casistica individuata e funzionale (di natura sintattica e prosodica) e fornendo prove della programmatica tendenza di Alfieri a variare giacitura alle cantilenanti clausole petrarchesche (con prelievi da Filippo, Antigone, Ottavia, Mirra, Congiura, Bruto primo, Bruto secondo, Antonio e Cleopatra, Polinice, Abele, Saul, Timoleone, Agamennone): prove rese anche più evidenti dal confronto del suo modo imitativo più libero, rispetto a quello della tradizione tragica cinquecentesca (si danno significativi raffronti con la Marianna di Dolce, l’Orbecche di Giraldi, la Rosmunda di Rucellai, la Sofonisba di Trissino, la Merope di Maffei e la Canace di Speroni). Il rapporto delle tragedie alfieriane con l’ipotesto lirico petrarchesco che emerge da un’indagine siffatta ha incoraggiato da un lato a sostituire il catalogo indifferenziato dei riscontri con la scelta ragionata del riscontro più convincente (colto nella ricca complessità del contesto allargato, molto più implicato col dettato petrarchesco di quanto faccia presumere il singolo lemma o il sintagma isolato), dall’altro a tentare (con esiti soddisfacenti, seppure basati su limitati prelievi) anche altre verifiche. Da esse risultano con evidenza sia l’attenzione di Alfieri (e la sua sensibilità nell’elaborazione del proprio dialogo tragico) verso componimenti petrarcheschi riconducibili alla modalità colloquiale, sia l’alto grado di imitazione del Canzoniere, per affinità di genere, nei luoghi “cantati” di alcune tragedie (come il canto polimetrico di David nel Saul), sia anche, fatti salvi il ritmo franto e il rifiuto di giaciture più cantabili e riconoscibili come petrarchesche, la creazione di una sonorità propria talora ottenuta in virtù di una geniale frammentazione dei suoni e della relativa forza dirompente, analoghe a quelle documentate per Petrarca e ben ravvisabili sotto l’apparente levigatezza del fraseggio.
2005
VIII
63
101
C. Molinari
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