La ristampa dello studio giovanile di Norberto Bobbio dedicato all’analogia nella logica del diritto è l’occasione per una rinnovata e aggiornata riflessione sull’analogia nel diritto penale, stante l’importanza fondamentale che assume tuttora il principio “Nullum crimen nulla poena sine lege”. Il divieto di interpretazione analogica delle norme penali, infatti, non può isolarsi dal primato della legalità, per il quale: a) il diritto penale è innanzitutto un fenomeno legislativo; b) il vincolo di soggezione del giudice alla legge è più forte che in altri rami dell’ordinamento, per evidenti istanze di garanzia del favor libertatis; c) il diritto penale è fisiologicamente discontinuo. In particolare, la frammentarietà del diritto penale passa per due vincoli: l’uno positivo rivolto alle fonti di produzione del diritto penale e dunque essenzialmente al legislatore (stante il principio della riserva di legge); l’altro negativo rivolto all’interprete. Quest’ultimo consiste nel precludere all’interprete (essenzialmente al giudice) l’estensione analogica delle scelte di criminalizzazione effettuate dal legislatore. Il penalista di oggi, nutritosi di questi insegnamenti, può rimanere sorpreso dal pensiero del giovane Bobbio, che, per un verso, si scaglia contro l’arbitrium iudicis che è sotteso alla “cattiva” analogia, per l’altro e per l’appunto, considera compatibile con il principio di legalità l’estensione interpretativa del diritto penale da parte del giudice. In effetti, una più attenta lettura dell’intero ragionamento di Bobbio chiarisce che per Bobbio la “cattiva” analogia consiste nella libera creazione giudiziale del diritto, favorita se non prodotta dalle cattive leggi che difettano di determinatezza o che addirittura si connotano per clausole incriminatici appositamente aperte, come tali pensate dal legislatore per essere completate dal giudice. Per converso, la “buona” analogia consisterebbe nell’interpretazione giudiziale che rende completo, anche nel campo penale, l’ordinamento giuridico. In breve: Bobbio, per un verso, sembra precorrere quelle correnti di pensiero che affermano l’identità strutturale tra analogia e interpretazione; per l’altro, considera l’analogia un procedimento meramente logico e avalutativo, che consente al giudice di desumere dall’ordinamento penale null’altro che scelte già presenti nelle pieghe dell’ordito normativo. Com’è evidente, Bobbio, da un lato, non riconosce alla lacuna il suo valore libertario, per l’altro nega che l’analogia comporti valutazioni giudiziali inevitabilmente discrezionali, ossia il senso profondo del divieto di analogia nel campo penale. Il favore di Bobbio nei confronti della “buona” analogia induce a riflettere sull’odierno stato di salute del divieto di analogia e, più in generale, del principio di legalità. Non può sottacersi, infatti, che quando Bobbio scriveva le sue pagine giovanili, il diritto penale era un fenomeno prevalentemente legislativo; il clima culturale dell’epoca era rappresentato dall’egemonia dell’indirizzo tecnico-giuridico patrocinato da Arturo Rocco, che rappresentava il giudice come operatore neutrale. Ma il pensiero di Bobbio sull’analogia quale fattore di asserita esaltazione della volontà legislativa si infrange sulla tendenza al superamento della legge come fonte privilegiata del diritto penale, cui fa da riscontro la “scoperta” dell’inoggettività dell’interpretazione, con spostamento dell’asse del sistema dal diritto legislativo a quello giurisprudenziale e, in qualche caso, giudiziario tout court, perché praeter legem. La conseguenza di tutto ciò, non sempre esplicitata, è che non pare più bastevole la legittimazione dello ius dicere su un piano puramente tecnico. Il giudice, infatti, diventa diretto interprete e gestore del conflitto: la sua attenzione si sposta dall’involucro formale dell’illecito alla sua dimensione sostanziale, fino all’estremo del giudice diretto interprete del sociale senza il filtro della norma. Deve tenersi presente, inoltre, che il capitolo della legge penale è tradizionalmente pervaso da un sentimento di sospetto nei confronti del giudice: sia chiaro, non della sua persona, ma della sua funzione. L’intero sistema delle garanzie muove da tale preoccupazione. Sotto questo profilo le pagine di Bobbio sul contenimento dell’arbitrium iudicis dovrebbero suonare ancora da monito, specie contro l’odierna tendenza a preoccuparsi principalmente del rischio dell’arbitrium legislatoris.
Rileggendo Norberto Bobbio. L'analogia nella logica del diritto / F. Giunta. - In: CRIMINALIA. - ISSN 1972-3857. - STAMPA. - 1:(2007), pp. 447-454.
Rileggendo Norberto Bobbio. L'analogia nella logica del diritto.
GIUNTA, FAUSTO BIAGIO
2007
Abstract
La ristampa dello studio giovanile di Norberto Bobbio dedicato all’analogia nella logica del diritto è l’occasione per una rinnovata e aggiornata riflessione sull’analogia nel diritto penale, stante l’importanza fondamentale che assume tuttora il principio “Nullum crimen nulla poena sine lege”. Il divieto di interpretazione analogica delle norme penali, infatti, non può isolarsi dal primato della legalità, per il quale: a) il diritto penale è innanzitutto un fenomeno legislativo; b) il vincolo di soggezione del giudice alla legge è più forte che in altri rami dell’ordinamento, per evidenti istanze di garanzia del favor libertatis; c) il diritto penale è fisiologicamente discontinuo. In particolare, la frammentarietà del diritto penale passa per due vincoli: l’uno positivo rivolto alle fonti di produzione del diritto penale e dunque essenzialmente al legislatore (stante il principio della riserva di legge); l’altro negativo rivolto all’interprete. Quest’ultimo consiste nel precludere all’interprete (essenzialmente al giudice) l’estensione analogica delle scelte di criminalizzazione effettuate dal legislatore. Il penalista di oggi, nutritosi di questi insegnamenti, può rimanere sorpreso dal pensiero del giovane Bobbio, che, per un verso, si scaglia contro l’arbitrium iudicis che è sotteso alla “cattiva” analogia, per l’altro e per l’appunto, considera compatibile con il principio di legalità l’estensione interpretativa del diritto penale da parte del giudice. In effetti, una più attenta lettura dell’intero ragionamento di Bobbio chiarisce che per Bobbio la “cattiva” analogia consiste nella libera creazione giudiziale del diritto, favorita se non prodotta dalle cattive leggi che difettano di determinatezza o che addirittura si connotano per clausole incriminatici appositamente aperte, come tali pensate dal legislatore per essere completate dal giudice. Per converso, la “buona” analogia consisterebbe nell’interpretazione giudiziale che rende completo, anche nel campo penale, l’ordinamento giuridico. In breve: Bobbio, per un verso, sembra precorrere quelle correnti di pensiero che affermano l’identità strutturale tra analogia e interpretazione; per l’altro, considera l’analogia un procedimento meramente logico e avalutativo, che consente al giudice di desumere dall’ordinamento penale null’altro che scelte già presenti nelle pieghe dell’ordito normativo. Com’è evidente, Bobbio, da un lato, non riconosce alla lacuna il suo valore libertario, per l’altro nega che l’analogia comporti valutazioni giudiziali inevitabilmente discrezionali, ossia il senso profondo del divieto di analogia nel campo penale. Il favore di Bobbio nei confronti della “buona” analogia induce a riflettere sull’odierno stato di salute del divieto di analogia e, più in generale, del principio di legalità. Non può sottacersi, infatti, che quando Bobbio scriveva le sue pagine giovanili, il diritto penale era un fenomeno prevalentemente legislativo; il clima culturale dell’epoca era rappresentato dall’egemonia dell’indirizzo tecnico-giuridico patrocinato da Arturo Rocco, che rappresentava il giudice come operatore neutrale. Ma il pensiero di Bobbio sull’analogia quale fattore di asserita esaltazione della volontà legislativa si infrange sulla tendenza al superamento della legge come fonte privilegiata del diritto penale, cui fa da riscontro la “scoperta” dell’inoggettività dell’interpretazione, con spostamento dell’asse del sistema dal diritto legislativo a quello giurisprudenziale e, in qualche caso, giudiziario tout court, perché praeter legem. La conseguenza di tutto ciò, non sempre esplicitata, è che non pare più bastevole la legittimazione dello ius dicere su un piano puramente tecnico. Il giudice, infatti, diventa diretto interprete e gestore del conflitto: la sua attenzione si sposta dall’involucro formale dell’illecito alla sua dimensione sostanziale, fino all’estremo del giudice diretto interprete del sociale senza il filtro della norma. Deve tenersi presente, inoltre, che il capitolo della legge penale è tradizionalmente pervaso da un sentimento di sospetto nei confronti del giudice: sia chiaro, non della sua persona, ma della sua funzione. L’intero sistema delle garanzie muove da tale preoccupazione. Sotto questo profilo le pagine di Bobbio sul contenimento dell’arbitrium iudicis dovrebbero suonare ancora da monito, specie contro l’odierna tendenza a preoccuparsi principalmente del rischio dell’arbitrium legislatoris.File | Dimensione | Formato | |
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