“L’inflessibilità di un comunista consiste nell’oscillare allo stesso ritmo della linea del partito” recitava un detto russo dell’epoca di Stalin. Di una tale forma di relativizzazione si è avvalso il leader politico, Stalin in primis, per governare attraverso il linguaggio. Trova così spiegazione uno dei lasciti più controversi, e meno comprensibili per la sensibilità contemporanea, del comunismo sovietico: gli scritti di Stalin sulla linguistica. E – a parte l’ovvia sorpresa di scoprire un “dittatore totalitario” impegnato in discussioni teoriche sul linguaggio – trova anche spiegazione un’alleanza che possiamo dare per tramontata: quella tra politica e cultura. Tentare una definizione filosofica di comunismo, o almeno aggiornarla: basterebbe questo a decretare l’importanza del libro di Groys, che a tal fine esamina il linguaggio dello stalinismo e i suoi legami con il sistema sovietico dal 1917 fino alla sua autodissoluzione dialettica nel 1989; e, infine, si chiede: è possibile che il comunismo riemerga nel XXI secolo? Supporre che il comunismo sovietico sia archiviabile come un’esperienza ormai conclusa significa, secondo Groys, accondiscendere alle peggiori inclinazioni della filosofia della storia (in cui ricadono molte diagnosi epocali della comunicazione contemporanea). Perché se con comunismo si intende una sorta di “svolta linguistica” nella prassi sociale, il sogno di produrre rapporti sociali sulla base egualitaria del linguaggio non può non riproporsi nella storia dell’uomo. “Io intenderò qui con comunismo un progetto che vuole su-bordinare l’economia alla politica. L’economia funziona attraverso il medium del denaro. La politica attraverso le parole (…). La rivoluzione comunista è il passaggio di una società dal medium del denaro a quello del linguaggio” (Boris Groys).

Postscritto comunista / Silvia Rodeschini. - STAMPA. - (2008), pp. 24-95.

Postscritto comunista

RODESCHINI, SILVIA
2008

Abstract

“L’inflessibilità di un comunista consiste nell’oscillare allo stesso ritmo della linea del partito” recitava un detto russo dell’epoca di Stalin. Di una tale forma di relativizzazione si è avvalso il leader politico, Stalin in primis, per governare attraverso il linguaggio. Trova così spiegazione uno dei lasciti più controversi, e meno comprensibili per la sensibilità contemporanea, del comunismo sovietico: gli scritti di Stalin sulla linguistica. E – a parte l’ovvia sorpresa di scoprire un “dittatore totalitario” impegnato in discussioni teoriche sul linguaggio – trova anche spiegazione un’alleanza che possiamo dare per tramontata: quella tra politica e cultura. Tentare una definizione filosofica di comunismo, o almeno aggiornarla: basterebbe questo a decretare l’importanza del libro di Groys, che a tal fine esamina il linguaggio dello stalinismo e i suoi legami con il sistema sovietico dal 1917 fino alla sua autodissoluzione dialettica nel 1989; e, infine, si chiede: è possibile che il comunismo riemerga nel XXI secolo? Supporre che il comunismo sovietico sia archiviabile come un’esperienza ormai conclusa significa, secondo Groys, accondiscendere alle peggiori inclinazioni della filosofia della storia (in cui ricadono molte diagnosi epocali della comunicazione contemporanea). Perché se con comunismo si intende una sorta di “svolta linguistica” nella prassi sociale, il sogno di produrre rapporti sociali sulla base egualitaria del linguaggio non può non riproporsi nella storia dell’uomo. “Io intenderò qui con comunismo un progetto che vuole su-bordinare l’economia alla politica. L’economia funziona attraverso il medium del denaro. La politica attraverso le parole (…). La rivoluzione comunista è il passaggio di una società dal medium del denaro a quello del linguaggio” (Boris Groys).
2008
Das kommunistische Postskriptum
Boris Groys
Meltemi
Roma
Silvia Rodeschini
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