Questa tesi analizza la storia della classe lavoratrice argentina durante l’ultima dittatura militare del 1976-83. Il lavoro di tesi si articola in due parti: la prima affronta il tema dei dispositivi disciplinari cui furono sottoposti gli operai durante i sette anni della dittatura, la seconda invece affronta uno studio di caso, quello della Fiat Argentina, fra storia, memoria e studio della soggettività operaia. Attraverso l’utilizzo di fonti archivistiche e di un lavoro di campo attraverso il quale sono stati intervistati all’incirca trenta ex operai e impiegati, si fa luce sul rapporto storia-memoria e sui processi di significazione di un fenomeno come quello della dittatura da parte di un campione di ex operai che durante gli anni settanta non parteciparono direttamente alla “contestazione” sindacale. Il punto di partenza della tesi risiede nell’analisi di quelle memorie operaie che non ritennero la presenza della dittatura un fatto negativo. La memoria degli operai non politicizzati apre dunque allo studio degli “altri” anni Settanta, al racconto e alle storie di chi per differenti ragioni non prese parte alle mobilitazioni politico-sindacali e guerrigliere di quegli anni. Sta proprio nell’analisi di questa storia il punto di maggiore novità nel panorama storiografico di riferimento, che fino a questo momento si è concentrato viceversa solamente sullo studio dei settori politicizzati della società argentina. Nel primo capitolo si affronta il tema della repressione attraverso uno studio dei meccanismi coercitivi utilizzati dai militari. Nelle sue pagine si ricostruiscono i procedimenti costrittivi che produssero una vera e propria disarticolazione della conflittualità operaia. Nel secondo, pur continuando a sviluppare un discorso sulla repressione, mi concentro sull’analisi di quelle pratiche disciplinari non direttamente coercitive che pure contribuirono a limitare la possibilità d’azione dei lavoratori. Attraverso l’analisi dei linguaggi e dei discorsi contenuti in una serie di comunicazioni aziendali e nei manuali editi dalle forze armate argentine, si approfondiscono i fondamenti teorico-ideologici che furono alla base e allo stesso tempo parte dell’azione repressiva svolta dai militari. All’analisi delle comunicazioni aziendali si affianca anche lo studio di un regolamento di fabbrica emanato in piena dittatura fra processo disciplinare e pedagogia operaia. Questi primi capitoli svolgono una funzione introduttiva rispetto alla seconda parte della tesi dedicata a La Fiat Concord, una comunità operaia fra vita quotidiana, etica del lavoro e dittatura nella quale mi concentro specificatamente sul caso della Fiat in Argentina. Essa è costruita attraverso due piani fra loro incrociati: da un lato analizzo lo sviluppo dell’azienda e delle sue politiche, dall’altro osservo le memorie del lavoro e della dittatura degli ex operai intervistati. Nel terzo capitolo, si ricostruiscono genesi e sviluppo della presenza della Fiat fra Buenos Aires, Córdoba e Santa Fe. Sono qui delineati i punti salienti della storia aziendale, mantenendo l’attenzione sulle dinamiche del conflitto e della repressione in Concord. Entrambi i temi fanno da contesto allo studio della percezione della dittatura da parte degli operai. Si pone in una posizione intermedia fra la storia dell’impresa e la memoria degli operai il quarto capitolo, che dedica ampio spazio a rappresentazioni, pedagogie e culture del lavoro. Nelle sue pagine si affronta un’analisi dell’house organ della Concord, «Nosotros», edito fra 1972 e ’78, con l’obiettivo di osservare il progetto pedagogico-morale sviluppato dall’impresa. Si mette in evidenza il tentativo da parte della Concord di “costruire” una cultura del lavoro ben disposta verso le necessità produttive dell’impresa. Analizzato il complesso quadro di “costruzione” di una cultura operaia propriamente filo-aziendalista, una cultura che si basava sullo scivolamento delle relazioni di lavoro dall’ambito contrattualistico a quello morale, il capitolo lascia aperta una domanda per quelli successivi: dal momento che l’impresa costruisce un immaginario operaio positivo, in quale misura ci restituisce una realtà effettiva? Sulla scorta di queste domande si apre il quinto capitolo, specificatamente dedicato alle biografie operaie fra lavoro e vita quotidiana. Il capitolo è il risultato di una ricerca attorno al tema del lavoro, che come ho constatato durante il lavoro sul campo, si va significando per gli ex lavoratori quale elemento centrale di un’identità operaia profondamente orgogliosa del mestiere, così come dello status acquisito. Sia questo capitolo che il successivo si basano su fonti orali. Nel capitolo si affronta anche la relazione fra ricerca storica e social network i cui risultati sono esposti in un’apposita appendice documentaria. La scelta di dedicare un intero capitolo al tema del lavoro rinvia all’aspetto più evidente e caratterizzante dell’esperienza di vita di un operaio (il lavoro) ma anche alla significativa polisemia che esso assume nella memoria degli ex operai. Il capitolo si articola in quattro paragrafi: un primo dedicato all’idea di comunità “immaginata” virtuale. Il secondo paragrafo, dedicato alle biografie operaie, si concentra sui “bei racconti” e gli incipit che gli intervistati solitamente restituiscono dopo i primi minuti di registrazione. L’analisi di come una persona con un passato di quarant’anni in linea di montaggio descrive in meno di dieci minuti un tempo che è lungo, ma che risulta sospeso, inchiodato ai ritmi e ai tempi dei macchinari, apre ad un’analisi delle plurali percezioni del lavoro sia come fatto fisico, come svolgimento di un compito, che come preponderante leva identitaria. Il terzo paragrafo si concentra invece su mito, percezione e identità. Nelle sue pagine si dipana un racconto corale della linea di montaggio, dei meccanismi produttivi, della sociabilità operaia. Soprattutto la catena di montaggio appare come la grande protagonista del racconto, lasciandoci con l’impressione che essa non possa essere raccontata in maniera “storica”, che essa non vari, come la stessa vita dei lavoratori. Un racconto positivo del processo di adattamento al mondo industriale, alle sue discipline e regole è offerto nell’ultimo paragrafo che, attraverso una storia di vita, indaga i processi di “accettazione culturale” delle logiche del sistema industriale. Il sostanziale rigetto di qualsiasi forma di contestazione all’ordine di fabbrica, che è un segmento di quello sociale, rende l’immagine di una serie di lavoratori del tutto estranei al periodo delle contestazioni. Se nel quinto capitolo il lavoro e i suoi significati sono al centro dell’analisi, nel sesto è messa a fuoco propriamente la memoria della dittatura. Il capitolo indaga la percezione della presenza militare, della desaparición, del rischio, da parte di un gruppo di lavoratori che si autoinscrive nella cerchia dei “buoni”, di chi, conforme al proprio ruolo subordinato, non mette in questione la legittimità della violenza esercitata dalla dittatura militare. Nel primo paragrafo si affronta il tema della percezione del golpe e ordine simbolico. L’assioma dell’época de la violencia, un periodo mentale percepito da molti intervistati come comune, rimanda al vero e proprio trauma, e al conseguente rifiuto, della violenza esercitata dai gruppi guerriglieri. Così come si assiste all’accettazione culturale per i valori propri del mondo industriale (capitolo V), un processo del tutto simile vede la sostanziale naturalizzazione della presenza militare in fabbrica. Proprio l’ineluttabilità della presenza militare, la necessità di cercare un appiglio immaginato o tangibile che salvi dalla repressione è un’altra questione che lascia suppore quanto quella degli operai qui intervistati sia stata probabilmente una normalizzazione piuttosto che una sua convinta accettazione. Se nel paragrafo precedente si osserva in quale modo un gruppo di uomini in sintonia con la retorica e col progetto pedagogico dell’impresa visse gli anni della dittatura costruendo un’autorappresentazione fondata sulla dicotomia buono/cattivo, dicotomia che determinava automaticamente che il desaparecido meritasse quella fine, in questo possiamo osservare il caso di un operaio che, non mettendo in dubbio il ruolo dell’impresa così come dei militari e rifiutando al contrario qualsiasi spirito contestatario, vive il trauma della repressione. Nel terzo paragrafo si ricostruisce fra memoria e percezione la storia di Juan, desaparecido per “errore”. L’errore evidentemente rimanda allo stesso racconto del testimone e all’incredulità che un convinto operaio filo aziendalista prova di fronte ai metodi repressivi della dittatura. La ricerca di una “giustificazione” che possa razionalmente motivare il fatto traumatico, ma soprattutto possa scagionare l’impresa da qualsiasi responsabilità, fosse anche solo morale, lo porta a confezionare delle “scuse” che appaiono poco verosimili, nel tentativo di salvare la fabbrica che rimane al centro della propria autocostruzione di adulto. Attraverso l’uso delle fonti orali appare chiaramente come le memorie vadano costruendo talvolta dei veri e propri miti, delle leggende collettive. L’ultimo paragrafo si ricollega direttamente a questi temi. Se fino a questo momento si è osservato un racconto corale riferito al lavoro e alla dittatura, in questo paragrafo si ricostruisce l’immaginario sorto attorno alla desaparición di due operai dello stabilimento di El Palomar. Della storia di Francesco Carlisano e Antonio Rafael Tamayo si sa poco, la data della scomparsa, le asciutte informazioni contenute nelle deposizioni dei famigliari. Attorno alla scomparsa dei due operai, in una tensione con la realtà, i diversi testimoni della loro scomparsa, i vicini, i conoscenti e i compagni di lavoro elaborano un mito attorno la loro fine. Nel paragrafo ci si concentra proprio sull’analisi dei racconti e delle diverse versioni che in un costante intreccio, nel passare del tempo e nella risignificazione continua dell’esperienza passata da parte degli uomini, vanno costruendo un vero e proprio mito. Questo lavoro propone ad una rilettura attenta un tema, che, come osservato, la storiografia di riferimento sembra aver toccato solo marginalmente. Se Carassai ha finito per sfatare una delle certezze più consolidate circa gli anni Settanta, quella che voleva i borghesi e il ceto medio partecipi in blocco al processo di mobilitazione degli anni Settanta, allo stesso tempo con questo lavoro si è cominciato ad osservare che probabilmente non tutti gli operai furono rivoluzionari e contestatari di carriera o comunque loro sostenitori. Approfondendo le memorie dei non politicizzati sono emersi quei ricordi non inscrivibili al mainstream circa gli anni Settanta che così a lungo ha contraddistinto l’analisi sul passato recente semplificando e limitando alla militanza le tante soggettività che compongono un gruppo sociale. La “scoperta” che vi furono degli “altri” anni Settanta anche per la classe operaia, non intende decostruire il racconto politico-storiografico fino a qui osservato e studiato, semmai proporre un arricchimento e allargamento di visione prospettica di quel periodo.

«Gente que labura», operai in Argentina durante la dittatura. Vita quotidiana, soggettività e memoria: il caso della Fiat Concord (1976-1983) / Robertini, Camillo. - (2017).

«Gente que labura», operai in Argentina durante la dittatura. Vita quotidiana, soggettività e memoria: il caso della Fiat Concord (1976-1983)

ROBERTINI, CAMILLO
2017

Abstract

Questa tesi analizza la storia della classe lavoratrice argentina durante l’ultima dittatura militare del 1976-83. Il lavoro di tesi si articola in due parti: la prima affronta il tema dei dispositivi disciplinari cui furono sottoposti gli operai durante i sette anni della dittatura, la seconda invece affronta uno studio di caso, quello della Fiat Argentina, fra storia, memoria e studio della soggettività operaia. Attraverso l’utilizzo di fonti archivistiche e di un lavoro di campo attraverso il quale sono stati intervistati all’incirca trenta ex operai e impiegati, si fa luce sul rapporto storia-memoria e sui processi di significazione di un fenomeno come quello della dittatura da parte di un campione di ex operai che durante gli anni settanta non parteciparono direttamente alla “contestazione” sindacale. Il punto di partenza della tesi risiede nell’analisi di quelle memorie operaie che non ritennero la presenza della dittatura un fatto negativo. La memoria degli operai non politicizzati apre dunque allo studio degli “altri” anni Settanta, al racconto e alle storie di chi per differenti ragioni non prese parte alle mobilitazioni politico-sindacali e guerrigliere di quegli anni. Sta proprio nell’analisi di questa storia il punto di maggiore novità nel panorama storiografico di riferimento, che fino a questo momento si è concentrato viceversa solamente sullo studio dei settori politicizzati della società argentina. Nel primo capitolo si affronta il tema della repressione attraverso uno studio dei meccanismi coercitivi utilizzati dai militari. Nelle sue pagine si ricostruiscono i procedimenti costrittivi che produssero una vera e propria disarticolazione della conflittualità operaia. Nel secondo, pur continuando a sviluppare un discorso sulla repressione, mi concentro sull’analisi di quelle pratiche disciplinari non direttamente coercitive che pure contribuirono a limitare la possibilità d’azione dei lavoratori. Attraverso l’analisi dei linguaggi e dei discorsi contenuti in una serie di comunicazioni aziendali e nei manuali editi dalle forze armate argentine, si approfondiscono i fondamenti teorico-ideologici che furono alla base e allo stesso tempo parte dell’azione repressiva svolta dai militari. All’analisi delle comunicazioni aziendali si affianca anche lo studio di un regolamento di fabbrica emanato in piena dittatura fra processo disciplinare e pedagogia operaia. Questi primi capitoli svolgono una funzione introduttiva rispetto alla seconda parte della tesi dedicata a La Fiat Concord, una comunità operaia fra vita quotidiana, etica del lavoro e dittatura nella quale mi concentro specificatamente sul caso della Fiat in Argentina. Essa è costruita attraverso due piani fra loro incrociati: da un lato analizzo lo sviluppo dell’azienda e delle sue politiche, dall’altro osservo le memorie del lavoro e della dittatura degli ex operai intervistati. Nel terzo capitolo, si ricostruiscono genesi e sviluppo della presenza della Fiat fra Buenos Aires, Córdoba e Santa Fe. Sono qui delineati i punti salienti della storia aziendale, mantenendo l’attenzione sulle dinamiche del conflitto e della repressione in Concord. Entrambi i temi fanno da contesto allo studio della percezione della dittatura da parte degli operai. Si pone in una posizione intermedia fra la storia dell’impresa e la memoria degli operai il quarto capitolo, che dedica ampio spazio a rappresentazioni, pedagogie e culture del lavoro. Nelle sue pagine si affronta un’analisi dell’house organ della Concord, «Nosotros», edito fra 1972 e ’78, con l’obiettivo di osservare il progetto pedagogico-morale sviluppato dall’impresa. Si mette in evidenza il tentativo da parte della Concord di “costruire” una cultura del lavoro ben disposta verso le necessità produttive dell’impresa. Analizzato il complesso quadro di “costruzione” di una cultura operaia propriamente filo-aziendalista, una cultura che si basava sullo scivolamento delle relazioni di lavoro dall’ambito contrattualistico a quello morale, il capitolo lascia aperta una domanda per quelli successivi: dal momento che l’impresa costruisce un immaginario operaio positivo, in quale misura ci restituisce una realtà effettiva? Sulla scorta di queste domande si apre il quinto capitolo, specificatamente dedicato alle biografie operaie fra lavoro e vita quotidiana. Il capitolo è il risultato di una ricerca attorno al tema del lavoro, che come ho constatato durante il lavoro sul campo, si va significando per gli ex lavoratori quale elemento centrale di un’identità operaia profondamente orgogliosa del mestiere, così come dello status acquisito. Sia questo capitolo che il successivo si basano su fonti orali. Nel capitolo si affronta anche la relazione fra ricerca storica e social network i cui risultati sono esposti in un’apposita appendice documentaria. La scelta di dedicare un intero capitolo al tema del lavoro rinvia all’aspetto più evidente e caratterizzante dell’esperienza di vita di un operaio (il lavoro) ma anche alla significativa polisemia che esso assume nella memoria degli ex operai. Il capitolo si articola in quattro paragrafi: un primo dedicato all’idea di comunità “immaginata” virtuale. Il secondo paragrafo, dedicato alle biografie operaie, si concentra sui “bei racconti” e gli incipit che gli intervistati solitamente restituiscono dopo i primi minuti di registrazione. L’analisi di come una persona con un passato di quarant’anni in linea di montaggio descrive in meno di dieci minuti un tempo che è lungo, ma che risulta sospeso, inchiodato ai ritmi e ai tempi dei macchinari, apre ad un’analisi delle plurali percezioni del lavoro sia come fatto fisico, come svolgimento di un compito, che come preponderante leva identitaria. Il terzo paragrafo si concentra invece su mito, percezione e identità. Nelle sue pagine si dipana un racconto corale della linea di montaggio, dei meccanismi produttivi, della sociabilità operaia. Soprattutto la catena di montaggio appare come la grande protagonista del racconto, lasciandoci con l’impressione che essa non possa essere raccontata in maniera “storica”, che essa non vari, come la stessa vita dei lavoratori. Un racconto positivo del processo di adattamento al mondo industriale, alle sue discipline e regole è offerto nell’ultimo paragrafo che, attraverso una storia di vita, indaga i processi di “accettazione culturale” delle logiche del sistema industriale. Il sostanziale rigetto di qualsiasi forma di contestazione all’ordine di fabbrica, che è un segmento di quello sociale, rende l’immagine di una serie di lavoratori del tutto estranei al periodo delle contestazioni. Se nel quinto capitolo il lavoro e i suoi significati sono al centro dell’analisi, nel sesto è messa a fuoco propriamente la memoria della dittatura. Il capitolo indaga la percezione della presenza militare, della desaparición, del rischio, da parte di un gruppo di lavoratori che si autoinscrive nella cerchia dei “buoni”, di chi, conforme al proprio ruolo subordinato, non mette in questione la legittimità della violenza esercitata dalla dittatura militare. Nel primo paragrafo si affronta il tema della percezione del golpe e ordine simbolico. L’assioma dell’época de la violencia, un periodo mentale percepito da molti intervistati come comune, rimanda al vero e proprio trauma, e al conseguente rifiuto, della violenza esercitata dai gruppi guerriglieri. Così come si assiste all’accettazione culturale per i valori propri del mondo industriale (capitolo V), un processo del tutto simile vede la sostanziale naturalizzazione della presenza militare in fabbrica. Proprio l’ineluttabilità della presenza militare, la necessità di cercare un appiglio immaginato o tangibile che salvi dalla repressione è un’altra questione che lascia suppore quanto quella degli operai qui intervistati sia stata probabilmente una normalizzazione piuttosto che una sua convinta accettazione. Se nel paragrafo precedente si osserva in quale modo un gruppo di uomini in sintonia con la retorica e col progetto pedagogico dell’impresa visse gli anni della dittatura costruendo un’autorappresentazione fondata sulla dicotomia buono/cattivo, dicotomia che determinava automaticamente che il desaparecido meritasse quella fine, in questo possiamo osservare il caso di un operaio che, non mettendo in dubbio il ruolo dell’impresa così come dei militari e rifiutando al contrario qualsiasi spirito contestatario, vive il trauma della repressione. Nel terzo paragrafo si ricostruisce fra memoria e percezione la storia di Juan, desaparecido per “errore”. L’errore evidentemente rimanda allo stesso racconto del testimone e all’incredulità che un convinto operaio filo aziendalista prova di fronte ai metodi repressivi della dittatura. La ricerca di una “giustificazione” che possa razionalmente motivare il fatto traumatico, ma soprattutto possa scagionare l’impresa da qualsiasi responsabilità, fosse anche solo morale, lo porta a confezionare delle “scuse” che appaiono poco verosimili, nel tentativo di salvare la fabbrica che rimane al centro della propria autocostruzione di adulto. Attraverso l’uso delle fonti orali appare chiaramente come le memorie vadano costruendo talvolta dei veri e propri miti, delle leggende collettive. L’ultimo paragrafo si ricollega direttamente a questi temi. Se fino a questo momento si è osservato un racconto corale riferito al lavoro e alla dittatura, in questo paragrafo si ricostruisce l’immaginario sorto attorno alla desaparición di due operai dello stabilimento di El Palomar. Della storia di Francesco Carlisano e Antonio Rafael Tamayo si sa poco, la data della scomparsa, le asciutte informazioni contenute nelle deposizioni dei famigliari. Attorno alla scomparsa dei due operai, in una tensione con la realtà, i diversi testimoni della loro scomparsa, i vicini, i conoscenti e i compagni di lavoro elaborano un mito attorno la loro fine. Nel paragrafo ci si concentra proprio sull’analisi dei racconti e delle diverse versioni che in un costante intreccio, nel passare del tempo e nella risignificazione continua dell’esperienza passata da parte degli uomini, vanno costruendo un vero e proprio mito. Questo lavoro propone ad una rilettura attenta un tema, che, come osservato, la storiografia di riferimento sembra aver toccato solo marginalmente. Se Carassai ha finito per sfatare una delle certezze più consolidate circa gli anni Settanta, quella che voleva i borghesi e il ceto medio partecipi in blocco al processo di mobilitazione degli anni Settanta, allo stesso tempo con questo lavoro si è cominciato ad osservare che probabilmente non tutti gli operai furono rivoluzionari e contestatari di carriera o comunque loro sostenitori. Approfondendo le memorie dei non politicizzati sono emersi quei ricordi non inscrivibili al mainstream circa gli anni Settanta che così a lungo ha contraddistinto l’analisi sul passato recente semplificando e limitando alla militanza le tante soggettività che compongono un gruppo sociale. La “scoperta” che vi furono degli “altri” anni Settanta anche per la classe operaia, non intende decostruire il racconto politico-storiografico fino a qui osservato e studiato, semmai proporre un arricchimento e allargamento di visione prospettica di quel periodo.
2017
Simone Neri Serneri
ITALIA
Robertini, Camillo
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Tesi_dottorato_robertini_3_02_2017.pdf

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Descrizione: Tesi dottorato
Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1080112
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