Comprendere il quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia significa comprendere il suo “tempo”. Un “tempo” particolare per il nostro paese e un “tempo” tra i più significativi dell’architettura italiana. Schematizzando potremmo dire che tale “tempo” era sostanzialmente costituito da due modi di essere, opposti ma simmetrici, che caratterizzavano, e per certi versi caratterizzano anche ora, i due atteggiamenti tipici del “professionismo” italiano. Da un lato c’erano gli architetti che hanno giocato “la carta dei riformatori della società o degli ingegneri dell’anima”, come avrebbe detto qualcuno, “che attraverso la costruzione delle periferie miravano a creare l’uomo nuovo, il cittadino (…) di una conurbazione razionale e ordinata”1. E questo avveniva a seguito di un dibattito variegato, molteplice e complesso, sul tema del “superamento” dell’architettura “razionale”, in anni molto particolari quali quelli della ricostruzione post bellica. A questo atteggiamento appartengono certamente gli autori del quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia: Franco Albini, Franca Helg, Enea Manfredini. Dall’altro lato c’è l’atteggiamento opposto, definito da Giancarlo De Carlo, in una “Casabella-Continuità” del 1954 quando presenta la casa in condominio di Gardella in via Marchiondi a Milano, come uno dei fatti più importanti della ricostruzione italiana nel dopoguerra. “E’, anzi, la faccia rovescia della ricostruzione italiana; l’altra faccia, quella buona, è la ripresa dell’edilizia popolare. Mentre la ripresa dell’edilizia popolare è nata dalle più intelligenti iniziative pubbliche e si è sviluppata (…) con la partecipazione dei migliori architetti, l’edilizia condominiale è cresciuta sotto il controllo della speculazione e con l’intervento quasi esclusivo degli specialisti in compravendita di aree fabbricabili e in cabale di regolamento edilizio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti”2. Tale secondo atteggiamento, sempre condannato e criticato dagli esponenti del primo, finì poi con il coinvolgere, spesso in maniera ingiusta, pure i migliori architetti italiani. Dal presunto più o meno felice inserimento delle Fondamenta alle Zattere a Venezia, al presunto fuori scala dell’INA di Parma che si inserirebbe con difficoltà lungo la quinta urbana di via Cavour, sino alla Torre Velasca di Milano che, per Gino Valle, rappresentava “un falso culturale, un travestire i dati della speculazione con Filarete”3. Nove anni dopo il citato numero di Casabella, quindi nel 1963, Francesco Rosi con la sceneggiatura sua e di Raffaele La Capria, rappresenterà in modo eloquente il tema della speculazione edilizia italiana durante gli anni della ricostruzione e del boom economico nel film Le mani sulla città4, uno degli ultimi ascrivibili al neorealismo e particolarmente caro, oggi, a Roberto Saviano. La Rosta Nuova appartiene invece, per usare le parole di De Carlo, “alla faccia buona” della ricostruzione italiana, quale esempio tipico, insieme a molti altri, del secondo settennio (1956-1962) della Gestione INA-Casa, fondamentale iniziativa pubblica del nostro paese5. “Il 24 febbraio 1949 il Parlamento approvò la Legge che mise in moto quello che, dal nome del Ministro che l’aveva promosso, fu chiamato in un primo tempo Piano Fanfani e poi INA-Casa, come si legge”, ancora ora, “sulle piccole targhe di ceramica dai colori vivaci sui muri di molte delle abitazioni che per effetto di quel provvedimento furono costruite. Al termine dei quattordici anni della sua attuazione assommarono a trecentocinquantamila alloggi, tanti quanti potrebbe contenere la popolazione di tutta una città metropolitana”6. Iniziativa incredibilmente meritoria. Nel corso degli anni successivi, però, si assistette a una sorta di “revisionismo critico” nei confronti del neorealismo o, come sostenuto da qualcuno, del realismo architettonico italiano. Ed è bene ricordare che il quartiere Rosta Nuova rientra in pieno, anche se nella fase ultima, in questa particolare stagione dell’architettura italiana. Critiche che provengono dai due poli d‘eccellenza dell’architettura moderna italiana, tanto diversi ma egualmente perentori: Milano, la città industriale con committenza prevalentemente privata e Roma, la città terziaria e residenziale, legata da sempre alla politica e quindi a committenza prevalentemente pubblica, priva, nell’immediato dopoguerra, di una tradizione moderna, diversamente da Milano che rappresentava esattamente l’opposto. Tra le prese di posizione negative nei confronti del piano INA-Casa ne citeremo due. Una del 1969 e l’altra del 1974. La prima, di scuola milanese, è di Gregotti per il quale la Gestione INA-Casa che doveva presiedere alla costruzione di case per lavoratori fu l’occasione perduta per molti: per i costruttori, per gli architetti, per lo Stato. “Una politica di minoranze, fatta di associazione di tendenza, rivelò tutta la sua fragilità di fronte al problema dell’INA-Casa che, guidato ancora da un’antica classe di burocrati accademici, finì col rifondere e appiattire il dibattito sulla base della distribuzione corporativa e clientelistica del lavoro”7. Che invece probabilmente riguardò solo episodicamente alcune iniziative (e forse anche Rosta Nuova, seppur marginalmente, ne risentì) senza peraltro inficiare il grande lavoro promosso dallo Stato. La seconda, di scuola romana, è di Giorgio Muratore quando ricorda come attorno alla rivista Mètron si delinearono quelli che sarebbero divenuti gli elementi portanti del dibattito architettonico del dopoguerra. Si tentò di individuare “un’alternativa culturalmente e ideologicamente rinnovata ai modi edilizi dell’anteguerra” mirata a un “rinnovamento radicale delle metodologie e degli obiettivi. Fu così (…) che di fronte ai problemi più macroscopici della ricostruzione, ci si trovò spesso impreparati a rispondere sul piano adeguato e furono perdute alcune occasioni importanti (…). L’esperienza del Piano Fanfani è in questo senso sintomatica. Ricercare la dimensione astratta, artificiale e idealizzata del paese sembrò allora essere la soluzione più semplice ed economica, e fu perseguita con gli strumenti di uno sperimentalismo (…) appena mascherato in chiave sociologica e populista”8. Il bilancio del Piano INA-Casa è da considerarsi comunque altamente positivo. Per l’Italia fu un’iniziativa pubblica, nell’ambito dell’edilizia sociale, senza precedenti e senza repliche. Proprio nulla a che vedere con le “dannose volubili e volatili proposte spacciate per piani casa in tempi recenti”9. Ulteriore considerazione, prima di cercare di “comprendere” in senso stretto il quartiere Rosta Nuova, è relativa alla particolare attenzione che gli architetti italiani, o almeno buona parte dei migliori di essi, mostrano con maggiore evidenza tra il 1951 e il 1958 (che sono gli anni in cui nasce il progetto di Rosta Nuova) e che segna, nel bene e nel male dirà Gregotti, una svolta importante nell’architettura del nostro paese. “Noi chiameremo questa svolta col nome di aspirazione alla realtà e cercheremo di analizzare le forme fondamentali secondo le quali si presenta: l’aspirazione alla realtà come storia e come tradizione, l’aspirazione alla realtà come aspetto dell’ideologia nazional-popolare della sinistra politica, e infine l’aspirazione alla realtà come connessione con la preesistenza ambientale”10. Questo, seppure schematicamente, costituisce la particolarità, il contesto e il “tempo” in cui viene prima concepito e poi realizzato il quartiere INA-Casa Rosta Nuova di Reggio Emilia11. In questo lavoro è l’idea di città reale a emergere maggiormente. E’ l’idea di città reale con i suoi nodi tipici (strade, slarghi, piazze, piazzette, porticati, ecc.) a costituire il principale criterio di aggregazione degli edifici in linea. Il nucleo del quartiere, individuato in posizione baricentrica, è attraversato da una via che allude a talune caratteristiche e proporzioni ricorrenti nelle strade urbane. In prossimità della piazza centrale gli edifici sono a quattro piani per sottolineare ed evidenziare il carattere pubblico del sito enfatizzato pure dalla presenza, al piano terreno, di portici e di nuclei commerciali. Discostandosi dal centro del quartiere gli edifici in linea a destinazione residenziale divengono a tre piani. Lungo il perimetro dell’intervento sono previste case isolate a cinque piani per evitare una cesura tra il quartiere e il tessuto edilizio esistente nelle immediate vicinanze. Sono previsti spazi per la Chiesa12 con antistante sagrato, quale ulteriore piazza, il mercato, il centro sociale, un campo da gioco per il calcio, giardini per il gioco e il passeggio, una scuola materna e una scuola elementare: tutti gli “ingredienti” della città reale che funzionano così bene che il quartiere è tuttora vivo e vitale. I suoi slarghi e le sue piazze per la vita di relazione continuano a mostrare la propria efficacia. Diverse coppie giovani oggi ambiscono ad abitarvi e i giovani che già vi risiedono ne parlano entusiasticamente. Gli edifici a tre piani sono in muratura portante. Quelli a quattro hanno la struttura del primo livello in cemento armato. I muri d’ambito sono in muratura di mattoni a faccia vista. La copertura degli edifici residenziali è a due falde con cornicione sporgente. Tutti gli “ingredienti” della tradizione emiliana sono qui rappresentati. Città reale e tradizione: l’essenza del realismo architettonico italiano. “La responsabilità verso la tradizione” è il titolo di un editoriale di Rogers del ’54 in cui afferma con vigore come sia giunto il momento di stabilire “le relazioni tra la tradizione spontanea”, che lui definisce come “popolare” “e la tradizione colta per saldarle in un’unica tradizione. (…) L’accademismo più pericoloso è quello dei formalisti moderni”. Rogers continua chiarendo il suo concetto di tradizione in architettura ricordando la propria visita al Municipio di Säynätsalo di Aalto. “Come ogni capolavoro anche questo desta nuove sorprese se potete misurarvi con esso, toccarne la materia, respirarne lo spazio. Non a caso viene in mente San Gimignano; vengono in mente certe architetture italiane, articolate su terreni irregolari, impreviste per il contrappunto degli scorci successivi e, tuttavia, affettuose nei cortili e nelle piazze che vi cingono alle spalle (…) come un comodo abito tagliato su misura (da un sarto italiano)”. E conclude sintetizzando e oggettivando il senso del proprio pensiero. “Consegue che l’architetto ha una duplice responsabilità. L’una verso le origini e l’altra verso i fini della sua opera: bisogna che abbia tanto talento da cogliere la verità della storia in cui vive: la interpreti e, poi, la proclami e la difenda”13. Il quartiere Rosta Nuova è a Reggio Emilia. Una città di provincia. Da sempre una città di sinistra e da sempre bene amministrata. La mia città. E nell’architettura italiana un fenomeno di particolare interesse è proprio “il contributo che certe isole della Provincia hanno dato; contributo intendiamoci niente affatto periferico ma anzi intessuto di esperienze tra le più vive e discusse di questo dopoguerra (…). Ancora una volta ci viene offerta l’occasione di ribadire una nostra vecchia tesi (…) che un elevato standard del costruire non nasce senza esempi che siano profondamente impegnati anche sul piano espressivo. Quest’opera che pubblichiamo (…) è radicata a un processo conformativo rigorosamente razionale. Ha come padri spirituali le opere di Enea Manfredini e, più lontano, di Franco Albini. Del primo questa architettura ha ereditato il mestiere e la passione del costruire, dell’altro l’ostinazione e la morale d’artista”14. E’ questa, secondo Gregotti, l’eredità più importante del Rosta Nuova: cioè il mestiere e la passione del costruire, l’ostinazione e la morale d’artista. Ma dal 1960, anno in cui scrive il pezzo su “Casabella”, a oggi sono cambiate molte cose. Prima di tutto perché è trascorso oltre mezzo secolo e poi perché altre si sono confermate e consolidate come valori perenni, che non variano nel tempo, in quanto immanenti, irrinunciabili, ed è su tali valori che vale la pena porre l’attenzione perché essi e non altri costituiscono l’autentica eredità di Rosta Nuova, cioè l’eredità di Albini e Manfredini per gli architetti dell’Emilia in generale e di Reggio in particolare. A patto che ci sia chi la sappia cogliere e apprezzare nella giusta scala di valori. Tali valori sono prima di tutto il voler credere al lavoro dell’architetto come impegno civile; il credere alla funzione sociale del progetto, che significa allontanarlo dalla dimensione velleitaria e gratuita per ricollocarlo in una dimensione soprattutto etica; il credere al progetto come mestiere, che significa credere alla possibilità di discuterlo in maniera utile e di insegnarlo: di trasmettere cioè delle regole e dei principi di modo che altri possano farne buon uso, operando lontano dalle mode e dai problemi di stile; credere nel progetto moderno inteso come rappresentazione della ragione profonda di ciò che si costruisce ma soprattutto avvalersi dell’economia dei mezzi tecnici ed espressivi; perseguire il raggiungimento di un’ ”architettura senza tempo” che paia sempre essere esistita. Ciò che significa operare in continuità con la città che vuol poi dire in continuità con la storia e la tradizione o, meglio, con la propria storia e la propria tradizione. E tutto questo c’è in Rosta Nuova, ed è presente nell’opera di chi ha creduto in questo inconsapevole insegnamento, facendone propri i principi e le regole oltre che l’ideologia. E’ il principio immanente di quella “aspirazione alla realtà”, tanto cara a Gregotti, che finisce per connotare quell’ “eccellenza della normalità” di cui si avverte sempre più il bisogno e che pare invece essere dimenticata da chi, committente pubblico o privato poco importa, indulge in quella deriva formalista che fece dire a Fulvio Irace, nel 2004, che la prima cosa di cui la città contemporanea ha bisogno è quella “di una firma importante che la lanci nel mondo della moda”15. Il prodotto che ne deriva, noto a tutti, è contraddistinto dall’autoreferenzialità “che poi significa antisocialità e non solo dell’architettura (…). L’architettura oggi deve stupire a qualunque costo, deve richiamare il grande pubblico (…) con messe in scena di cui lo spettacolo ha bisogno per andare avanti”16. Ed è proprio contro questo stato di cose, contro questa “scuola di cattivo pensiero”, contro questa “non architettura”, che l’esempio del quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia con i suoi contenuti più intimi e con il suo significato più profondo intende porsi con grande e illuminata attualità. Per abbandonare la devastazione della città consolidata ritornando alla costruzione della città più giusta attraverso la straordinaria funzione democratica dell’architettura.
Semplice, nuovo, giusto. Visita al Quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia / Manfredini, Alberto; Rinaldi Andrea; Cattani Elena. - STAMPA. - (2017), pp. 1-96.
Semplice, nuovo, giusto. Visita al Quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia
MANFREDINI, ALBERTO;
2017
Abstract
Comprendere il quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia significa comprendere il suo “tempo”. Un “tempo” particolare per il nostro paese e un “tempo” tra i più significativi dell’architettura italiana. Schematizzando potremmo dire che tale “tempo” era sostanzialmente costituito da due modi di essere, opposti ma simmetrici, che caratterizzavano, e per certi versi caratterizzano anche ora, i due atteggiamenti tipici del “professionismo” italiano. Da un lato c’erano gli architetti che hanno giocato “la carta dei riformatori della società o degli ingegneri dell’anima”, come avrebbe detto qualcuno, “che attraverso la costruzione delle periferie miravano a creare l’uomo nuovo, il cittadino (…) di una conurbazione razionale e ordinata”1. E questo avveniva a seguito di un dibattito variegato, molteplice e complesso, sul tema del “superamento” dell’architettura “razionale”, in anni molto particolari quali quelli della ricostruzione post bellica. A questo atteggiamento appartengono certamente gli autori del quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia: Franco Albini, Franca Helg, Enea Manfredini. Dall’altro lato c’è l’atteggiamento opposto, definito da Giancarlo De Carlo, in una “Casabella-Continuità” del 1954 quando presenta la casa in condominio di Gardella in via Marchiondi a Milano, come uno dei fatti più importanti della ricostruzione italiana nel dopoguerra. “E’, anzi, la faccia rovescia della ricostruzione italiana; l’altra faccia, quella buona, è la ripresa dell’edilizia popolare. Mentre la ripresa dell’edilizia popolare è nata dalle più intelligenti iniziative pubbliche e si è sviluppata (…) con la partecipazione dei migliori architetti, l’edilizia condominiale è cresciuta sotto il controllo della speculazione e con l’intervento quasi esclusivo degli specialisti in compravendita di aree fabbricabili e in cabale di regolamento edilizio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti”2. Tale secondo atteggiamento, sempre condannato e criticato dagli esponenti del primo, finì poi con il coinvolgere, spesso in maniera ingiusta, pure i migliori architetti italiani. Dal presunto più o meno felice inserimento delle Fondamenta alle Zattere a Venezia, al presunto fuori scala dell’INA di Parma che si inserirebbe con difficoltà lungo la quinta urbana di via Cavour, sino alla Torre Velasca di Milano che, per Gino Valle, rappresentava “un falso culturale, un travestire i dati della speculazione con Filarete”3. Nove anni dopo il citato numero di Casabella, quindi nel 1963, Francesco Rosi con la sceneggiatura sua e di Raffaele La Capria, rappresenterà in modo eloquente il tema della speculazione edilizia italiana durante gli anni della ricostruzione e del boom economico nel film Le mani sulla città4, uno degli ultimi ascrivibili al neorealismo e particolarmente caro, oggi, a Roberto Saviano. La Rosta Nuova appartiene invece, per usare le parole di De Carlo, “alla faccia buona” della ricostruzione italiana, quale esempio tipico, insieme a molti altri, del secondo settennio (1956-1962) della Gestione INA-Casa, fondamentale iniziativa pubblica del nostro paese5. “Il 24 febbraio 1949 il Parlamento approvò la Legge che mise in moto quello che, dal nome del Ministro che l’aveva promosso, fu chiamato in un primo tempo Piano Fanfani e poi INA-Casa, come si legge”, ancora ora, “sulle piccole targhe di ceramica dai colori vivaci sui muri di molte delle abitazioni che per effetto di quel provvedimento furono costruite. Al termine dei quattordici anni della sua attuazione assommarono a trecentocinquantamila alloggi, tanti quanti potrebbe contenere la popolazione di tutta una città metropolitana”6. Iniziativa incredibilmente meritoria. Nel corso degli anni successivi, però, si assistette a una sorta di “revisionismo critico” nei confronti del neorealismo o, come sostenuto da qualcuno, del realismo architettonico italiano. Ed è bene ricordare che il quartiere Rosta Nuova rientra in pieno, anche se nella fase ultima, in questa particolare stagione dell’architettura italiana. Critiche che provengono dai due poli d‘eccellenza dell’architettura moderna italiana, tanto diversi ma egualmente perentori: Milano, la città industriale con committenza prevalentemente privata e Roma, la città terziaria e residenziale, legata da sempre alla politica e quindi a committenza prevalentemente pubblica, priva, nell’immediato dopoguerra, di una tradizione moderna, diversamente da Milano che rappresentava esattamente l’opposto. Tra le prese di posizione negative nei confronti del piano INA-Casa ne citeremo due. Una del 1969 e l’altra del 1974. La prima, di scuola milanese, è di Gregotti per il quale la Gestione INA-Casa che doveva presiedere alla costruzione di case per lavoratori fu l’occasione perduta per molti: per i costruttori, per gli architetti, per lo Stato. “Una politica di minoranze, fatta di associazione di tendenza, rivelò tutta la sua fragilità di fronte al problema dell’INA-Casa che, guidato ancora da un’antica classe di burocrati accademici, finì col rifondere e appiattire il dibattito sulla base della distribuzione corporativa e clientelistica del lavoro”7. Che invece probabilmente riguardò solo episodicamente alcune iniziative (e forse anche Rosta Nuova, seppur marginalmente, ne risentì) senza peraltro inficiare il grande lavoro promosso dallo Stato. La seconda, di scuola romana, è di Giorgio Muratore quando ricorda come attorno alla rivista Mètron si delinearono quelli che sarebbero divenuti gli elementi portanti del dibattito architettonico del dopoguerra. Si tentò di individuare “un’alternativa culturalmente e ideologicamente rinnovata ai modi edilizi dell’anteguerra” mirata a un “rinnovamento radicale delle metodologie e degli obiettivi. Fu così (…) che di fronte ai problemi più macroscopici della ricostruzione, ci si trovò spesso impreparati a rispondere sul piano adeguato e furono perdute alcune occasioni importanti (…). L’esperienza del Piano Fanfani è in questo senso sintomatica. Ricercare la dimensione astratta, artificiale e idealizzata del paese sembrò allora essere la soluzione più semplice ed economica, e fu perseguita con gli strumenti di uno sperimentalismo (…) appena mascherato in chiave sociologica e populista”8. Il bilancio del Piano INA-Casa è da considerarsi comunque altamente positivo. Per l’Italia fu un’iniziativa pubblica, nell’ambito dell’edilizia sociale, senza precedenti e senza repliche. Proprio nulla a che vedere con le “dannose volubili e volatili proposte spacciate per piani casa in tempi recenti”9. Ulteriore considerazione, prima di cercare di “comprendere” in senso stretto il quartiere Rosta Nuova, è relativa alla particolare attenzione che gli architetti italiani, o almeno buona parte dei migliori di essi, mostrano con maggiore evidenza tra il 1951 e il 1958 (che sono gli anni in cui nasce il progetto di Rosta Nuova) e che segna, nel bene e nel male dirà Gregotti, una svolta importante nell’architettura del nostro paese. “Noi chiameremo questa svolta col nome di aspirazione alla realtà e cercheremo di analizzare le forme fondamentali secondo le quali si presenta: l’aspirazione alla realtà come storia e come tradizione, l’aspirazione alla realtà come aspetto dell’ideologia nazional-popolare della sinistra politica, e infine l’aspirazione alla realtà come connessione con la preesistenza ambientale”10. Questo, seppure schematicamente, costituisce la particolarità, il contesto e il “tempo” in cui viene prima concepito e poi realizzato il quartiere INA-Casa Rosta Nuova di Reggio Emilia11. In questo lavoro è l’idea di città reale a emergere maggiormente. E’ l’idea di città reale con i suoi nodi tipici (strade, slarghi, piazze, piazzette, porticati, ecc.) a costituire il principale criterio di aggregazione degli edifici in linea. Il nucleo del quartiere, individuato in posizione baricentrica, è attraversato da una via che allude a talune caratteristiche e proporzioni ricorrenti nelle strade urbane. In prossimità della piazza centrale gli edifici sono a quattro piani per sottolineare ed evidenziare il carattere pubblico del sito enfatizzato pure dalla presenza, al piano terreno, di portici e di nuclei commerciali. Discostandosi dal centro del quartiere gli edifici in linea a destinazione residenziale divengono a tre piani. Lungo il perimetro dell’intervento sono previste case isolate a cinque piani per evitare una cesura tra il quartiere e il tessuto edilizio esistente nelle immediate vicinanze. Sono previsti spazi per la Chiesa12 con antistante sagrato, quale ulteriore piazza, il mercato, il centro sociale, un campo da gioco per il calcio, giardini per il gioco e il passeggio, una scuola materna e una scuola elementare: tutti gli “ingredienti” della città reale che funzionano così bene che il quartiere è tuttora vivo e vitale. I suoi slarghi e le sue piazze per la vita di relazione continuano a mostrare la propria efficacia. Diverse coppie giovani oggi ambiscono ad abitarvi e i giovani che già vi risiedono ne parlano entusiasticamente. Gli edifici a tre piani sono in muratura portante. Quelli a quattro hanno la struttura del primo livello in cemento armato. I muri d’ambito sono in muratura di mattoni a faccia vista. La copertura degli edifici residenziali è a due falde con cornicione sporgente. Tutti gli “ingredienti” della tradizione emiliana sono qui rappresentati. Città reale e tradizione: l’essenza del realismo architettonico italiano. “La responsabilità verso la tradizione” è il titolo di un editoriale di Rogers del ’54 in cui afferma con vigore come sia giunto il momento di stabilire “le relazioni tra la tradizione spontanea”, che lui definisce come “popolare” “e la tradizione colta per saldarle in un’unica tradizione. (…) L’accademismo più pericoloso è quello dei formalisti moderni”. Rogers continua chiarendo il suo concetto di tradizione in architettura ricordando la propria visita al Municipio di Säynätsalo di Aalto. “Come ogni capolavoro anche questo desta nuove sorprese se potete misurarvi con esso, toccarne la materia, respirarne lo spazio. Non a caso viene in mente San Gimignano; vengono in mente certe architetture italiane, articolate su terreni irregolari, impreviste per il contrappunto degli scorci successivi e, tuttavia, affettuose nei cortili e nelle piazze che vi cingono alle spalle (…) come un comodo abito tagliato su misura (da un sarto italiano)”. E conclude sintetizzando e oggettivando il senso del proprio pensiero. “Consegue che l’architetto ha una duplice responsabilità. L’una verso le origini e l’altra verso i fini della sua opera: bisogna che abbia tanto talento da cogliere la verità della storia in cui vive: la interpreti e, poi, la proclami e la difenda”13. Il quartiere Rosta Nuova è a Reggio Emilia. Una città di provincia. Da sempre una città di sinistra e da sempre bene amministrata. La mia città. E nell’architettura italiana un fenomeno di particolare interesse è proprio “il contributo che certe isole della Provincia hanno dato; contributo intendiamoci niente affatto periferico ma anzi intessuto di esperienze tra le più vive e discusse di questo dopoguerra (…). Ancora una volta ci viene offerta l’occasione di ribadire una nostra vecchia tesi (…) che un elevato standard del costruire non nasce senza esempi che siano profondamente impegnati anche sul piano espressivo. Quest’opera che pubblichiamo (…) è radicata a un processo conformativo rigorosamente razionale. Ha come padri spirituali le opere di Enea Manfredini e, più lontano, di Franco Albini. Del primo questa architettura ha ereditato il mestiere e la passione del costruire, dell’altro l’ostinazione e la morale d’artista”14. E’ questa, secondo Gregotti, l’eredità più importante del Rosta Nuova: cioè il mestiere e la passione del costruire, l’ostinazione e la morale d’artista. Ma dal 1960, anno in cui scrive il pezzo su “Casabella”, a oggi sono cambiate molte cose. Prima di tutto perché è trascorso oltre mezzo secolo e poi perché altre si sono confermate e consolidate come valori perenni, che non variano nel tempo, in quanto immanenti, irrinunciabili, ed è su tali valori che vale la pena porre l’attenzione perché essi e non altri costituiscono l’autentica eredità di Rosta Nuova, cioè l’eredità di Albini e Manfredini per gli architetti dell’Emilia in generale e di Reggio in particolare. A patto che ci sia chi la sappia cogliere e apprezzare nella giusta scala di valori. Tali valori sono prima di tutto il voler credere al lavoro dell’architetto come impegno civile; il credere alla funzione sociale del progetto, che significa allontanarlo dalla dimensione velleitaria e gratuita per ricollocarlo in una dimensione soprattutto etica; il credere al progetto come mestiere, che significa credere alla possibilità di discuterlo in maniera utile e di insegnarlo: di trasmettere cioè delle regole e dei principi di modo che altri possano farne buon uso, operando lontano dalle mode e dai problemi di stile; credere nel progetto moderno inteso come rappresentazione della ragione profonda di ciò che si costruisce ma soprattutto avvalersi dell’economia dei mezzi tecnici ed espressivi; perseguire il raggiungimento di un’ ”architettura senza tempo” che paia sempre essere esistita. Ciò che significa operare in continuità con la città che vuol poi dire in continuità con la storia e la tradizione o, meglio, con la propria storia e la propria tradizione. E tutto questo c’è in Rosta Nuova, ed è presente nell’opera di chi ha creduto in questo inconsapevole insegnamento, facendone propri i principi e le regole oltre che l’ideologia. E’ il principio immanente di quella “aspirazione alla realtà”, tanto cara a Gregotti, che finisce per connotare quell’ “eccellenza della normalità” di cui si avverte sempre più il bisogno e che pare invece essere dimenticata da chi, committente pubblico o privato poco importa, indulge in quella deriva formalista che fece dire a Fulvio Irace, nel 2004, che la prima cosa di cui la città contemporanea ha bisogno è quella “di una firma importante che la lanci nel mondo della moda”15. Il prodotto che ne deriva, noto a tutti, è contraddistinto dall’autoreferenzialità “che poi significa antisocialità e non solo dell’architettura (…). L’architettura oggi deve stupire a qualunque costo, deve richiamare il grande pubblico (…) con messe in scena di cui lo spettacolo ha bisogno per andare avanti”16. Ed è proprio contro questo stato di cose, contro questa “scuola di cattivo pensiero”, contro questa “non architettura”, che l’esempio del quartiere Rosta Nuova di Reggio Emilia con i suoi contenuti più intimi e con il suo significato più profondo intende porsi con grande e illuminata attualità. Per abbandonare la devastazione della città consolidata ritornando alla costruzione della città più giusta attraverso la straordinaria funzione democratica dell’architettura.File | Dimensione | Formato | |
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