La ricerca indaga il rapporto tra psichiatria e Grande Guerra da un'ottica che considera la complessità sia degli orientamenti assunti dagli psichiatri italiani sulle patologie belliche che delle pratiche sanitarie attuate nei confronti dei soldati. L'analisi delle teorie e delle prassi in alcune figure rappresentative del panorama psichiatrico italiano, operata sullo sfondo di una riflessione critica sui concetti psichiatrici di organicismo e predisposizione alle malattie mentali, è affiancata dal confronto tra due approcci totalmente diversi che furono costretti a convivere durante il conflitto: quello proprio della psichiatria militare, volto ad un’azione che salvaguardasse le necessità dell’esercito in guerra, e quello caratteristico invece della normale pratica clinica degli ospedali psichiatrici civili. Le due prospettive non erano sempre nettamente separate: la maggior parte degli psichiatri indossò l’uniforme durante la guerra, ma è possibile rilevare una tensione costante tra gli obblighi del proprio ruolo nello sforzo bellico e l’etica professionale dettata dalla disciplina neuropsichiatrica. La scelta delle strutture di cui analizzare le vicende è stata fatta in base alle diverse caratteristiche che poteva assumere l’intervento psichiatrico in vari contesti, differenti a seconda degli orientamenti dei direttori e della vicinanza con il fronte di combattimento. Dove la guerra era lontana, come nei manicomi di Arezzo e Napoli, la normale pratica sanitaria fu meno influenzata dai problemi caratteristici di strutture maggiormente coinvolte nel servizio sanitario militare come quelle di Treviso, Venezia e Reggio Emilia. La nascita e la diffusione dei centri neurologici militari dimostra poi che l’intervento psichiatrico non era limitato ai soli manicomi. Costituivano infatti una valida alternativa per alcune categorie di malati del sistema nervoso con compromissione di facoltà psichiche, i quali avevano la possibilità di essere curati in ambienti liberi e con sistemi terapeutici meno invasivi di quelli propri dei manicomi. Uno dei temi significativi per una rilettura del fenomeno degli “scemi di guerra” è stato infine quello della simulazione di malattie nervose e mentali: costituì una delle principali preoccupazioni dei comandi militari ma non ricevette la stessa attenzione da parte degli psichiatri, la maggior parte dei quali sottolineò piuttosto la loro scarsa presenza. Ci furono contesti, tuttavia, come quello del manicomio provinciale di Napoli, in cui il fenomeno non sembra sia stato minoritario, portando ad un capovolgimento del classico stereotipo del soldato italiano che subisce passivamente sia la guerra che l’intervento psichiatrico.
Soldati e neuropsichiatria nell'Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918) / Marco Romano. - (2019).
Soldati e neuropsichiatria nell'Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918)
ROMANO, MARCO
2019
Abstract
La ricerca indaga il rapporto tra psichiatria e Grande Guerra da un'ottica che considera la complessità sia degli orientamenti assunti dagli psichiatri italiani sulle patologie belliche che delle pratiche sanitarie attuate nei confronti dei soldati. L'analisi delle teorie e delle prassi in alcune figure rappresentative del panorama psichiatrico italiano, operata sullo sfondo di una riflessione critica sui concetti psichiatrici di organicismo e predisposizione alle malattie mentali, è affiancata dal confronto tra due approcci totalmente diversi che furono costretti a convivere durante il conflitto: quello proprio della psichiatria militare, volto ad un’azione che salvaguardasse le necessità dell’esercito in guerra, e quello caratteristico invece della normale pratica clinica degli ospedali psichiatrici civili. Le due prospettive non erano sempre nettamente separate: la maggior parte degli psichiatri indossò l’uniforme durante la guerra, ma è possibile rilevare una tensione costante tra gli obblighi del proprio ruolo nello sforzo bellico e l’etica professionale dettata dalla disciplina neuropsichiatrica. La scelta delle strutture di cui analizzare le vicende è stata fatta in base alle diverse caratteristiche che poteva assumere l’intervento psichiatrico in vari contesti, differenti a seconda degli orientamenti dei direttori e della vicinanza con il fronte di combattimento. Dove la guerra era lontana, come nei manicomi di Arezzo e Napoli, la normale pratica sanitaria fu meno influenzata dai problemi caratteristici di strutture maggiormente coinvolte nel servizio sanitario militare come quelle di Treviso, Venezia e Reggio Emilia. La nascita e la diffusione dei centri neurologici militari dimostra poi che l’intervento psichiatrico non era limitato ai soli manicomi. Costituivano infatti una valida alternativa per alcune categorie di malati del sistema nervoso con compromissione di facoltà psichiche, i quali avevano la possibilità di essere curati in ambienti liberi e con sistemi terapeutici meno invasivi di quelli propri dei manicomi. Uno dei temi significativi per una rilettura del fenomeno degli “scemi di guerra” è stato infine quello della simulazione di malattie nervose e mentali: costituì una delle principali preoccupazioni dei comandi militari ma non ricevette la stessa attenzione da parte degli psichiatri, la maggior parte dei quali sottolineò piuttosto la loro scarsa presenza. Ci furono contesti, tuttavia, come quello del manicomio provinciale di Napoli, in cui il fenomeno non sembra sia stato minoritario, portando ad un capovolgimento del classico stereotipo del soldato italiano che subisce passivamente sia la guerra che l’intervento psichiatrico.File | Dimensione | Formato | |
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