Inclusività è indubbiamente una delle buzzword, o parole d’ordine, del momento; sembra quasi che debba comparire obbligatoriamente in qualsiasi documento pubblico o aziendale per far sì che quest’ultimo appaia sufficientemente aggiornato. Questo, sia chiaro, non significa che tutte le persone che la impiegano siano in cattiva fede, o la usino a vanvera, ma piuttosto, che si corre il rischio di sprecarla abusandone: le parole, si sa, tendono a “plastificarsi” velocemente, diventando quasi moleste, così come è successo negli ultimi anni a resilienza. L’italiano mutua il termine dall’inglese: una lingua che, indubbiamente, ha iniziato la riflessione su questi temi ben prima di noi. Inclusivity viene creato sul modello di exclusivity negli anni Venti del Novecento; e già questa genesi è degna di nota: prima si crea la parola che indica qualcosa di riservato a pochi, fortunati esseri umani; solo in un secondo tempo si avverte l’esigenza di coniare il suo opposto, cioè un sostantivo che abbracci (o che tenti di abbracciare) tutti, magari tuttə. Evidentemente, nel nostro mondo e nel tessuto della nostra società sono successe cose che hanno portato all’emersione di questo concetto, rendendo necessaria – per molti – una riflessione sull’argomento. Come mai proprio adesso? Uno dei motivi sta nella globalizzazione che, con la sua opera di “contrazione” del mondo, ha fatto sì che entrare in contatto con le diversità divenisse più semplice e immediato, oltre, ovviamente, ad ampliare i nostri orizzonti possibili; d’altro canto, va considerato anche il ruolo di internet, che, in fondo, ha portato a conseguenze simili: quella di porci in continuo, costante, inevitabile e talvolta doloroso contatto con l’alterità. Sappiamo che il rapporto istintivo dell’essere umano con la diversità non è pacifico: lo xénos viene vissuto come potenziale pericolo e, come tale, provoca reazioni di paura. Non è strano, dunque, se la reazione di fronte alla richiesta di cambiare qualcosa dei propri comportamenti o delle proprie abitudini, magari per venire incontro alle esigenze di qualcun altro, non sia per forza né positiva né priva di resistenze: la xenofobia e il misoneismo hanno radici simili, che si celano nella scarsa voglia di cambiare rispetto all’abitudine, scoprendo magari che quello che si pensava essere il punto di vista per eccellenza non è altro che uno dei punti di vista possibili.

La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivo / Vera Gheno. - STAMPA. - (2022), pp. 107-124.

La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivo

Vera Gheno
2022

Abstract

Inclusività è indubbiamente una delle buzzword, o parole d’ordine, del momento; sembra quasi che debba comparire obbligatoriamente in qualsiasi documento pubblico o aziendale per far sì che quest’ultimo appaia sufficientemente aggiornato. Questo, sia chiaro, non significa che tutte le persone che la impiegano siano in cattiva fede, o la usino a vanvera, ma piuttosto, che si corre il rischio di sprecarla abusandone: le parole, si sa, tendono a “plastificarsi” velocemente, diventando quasi moleste, così come è successo negli ultimi anni a resilienza. L’italiano mutua il termine dall’inglese: una lingua che, indubbiamente, ha iniziato la riflessione su questi temi ben prima di noi. Inclusivity viene creato sul modello di exclusivity negli anni Venti del Novecento; e già questa genesi è degna di nota: prima si crea la parola che indica qualcosa di riservato a pochi, fortunati esseri umani; solo in un secondo tempo si avverte l’esigenza di coniare il suo opposto, cioè un sostantivo che abbracci (o che tenti di abbracciare) tutti, magari tuttə. Evidentemente, nel nostro mondo e nel tessuto della nostra società sono successe cose che hanno portato all’emersione di questo concetto, rendendo necessaria – per molti – una riflessione sull’argomento. Come mai proprio adesso? Uno dei motivi sta nella globalizzazione che, con la sua opera di “contrazione” del mondo, ha fatto sì che entrare in contatto con le diversità divenisse più semplice e immediato, oltre, ovviamente, ad ampliare i nostri orizzonti possibili; d’altro canto, va considerato anche il ruolo di internet, che, in fondo, ha portato a conseguenze simili: quella di porci in continuo, costante, inevitabile e talvolta doloroso contatto con l’alterità. Sappiamo che il rapporto istintivo dell’essere umano con la diversità non è pacifico: lo xénos viene vissuto come potenziale pericolo e, come tale, provoca reazioni di paura. Non è strano, dunque, se la reazione di fronte alla richiesta di cambiare qualcosa dei propri comportamenti o delle proprie abitudini, magari per venire incontro alle esigenze di qualcun altro, non sia per forza né positiva né priva di resistenze: la xenofobia e il misoneismo hanno radici simili, che si celano nella scarsa voglia di cambiare rispetto all’abitudine, scoprendo magari che quello che si pensava essere il punto di vista per eccellenza non è altro che uno dei punti di vista possibili.
2022
UTET
Matteo Bordone, Elisa Cuter, Federica D'Alessio, Giulio D'Antona, Federico Faloppa, Liv Ferracchiati, Vera Gheno, Jennifer Guerra, Christian Raimo, Daniele Rielli, Cinzia Sciuto, Neelam Srivastava, Laura Tonini, Raffaele Alberto Ventura
Non si può più dire niente? 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture
107
124
Vera Gheno
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Utilizza questo identificatore per citare o creare un link a questa risorsa: https://hdl.handle.net/2158/1258444
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