Fresca, friabile, fragrante: la fresella La fresella attraverso i secoli «Pasta di pane disseccata, per lo più a forma di ciambella o disco, con una doppia cottura in forno, con una faccia liscia e una ruvida, ottenuta tagliando orizzontalmente con lo spago l’impasto, a metà cottura; ravvivata con poca acqua e condita con olio e sale, pomodoro e origano, è elemento fondamentale di preparazioni alimentari tipiche della tradizione contadina pugliese e meridionale in genere; è detta anche frisa» (Vocabolario Treccani on line, s.v. fresella). Freselle, friselle (friseddhe in salentino) o frise: i nomi cambiano a seconda del luogo (la forma con la i è più diffusa in Puglia, quella con la e in Campania e in Calabria), ma il referente è simile, con qualche variazione. Intanto analizziamo il termine: seguendo l’etimologia più accreditata, fresella è diminutivo di fresa ‘(pasta) abbrustolita’, a sua volta dal latino fresa ‘tritata’, participio passato femminile del verbo frindere ‘macinare, sminuzzare, triturare’. Lo Zingarelli ci fornisce anche una data di ingresso in italiano: 1931. Precedentemente, il termine era diffuso solo in specifiche regioni dell'Italia, e proprio per questa sua origine popolare e dialettale non sono molti i dizionari dell'italiano che lo registrano. Le origini della fresella sono misteriose. Simile, nella filosofia di base, a molti altri tipi di pane raffermo da fare rinvenire sparsi per il mondo (citiamo solo il pane carasau sardo e le gallette croccanti tipiche dei paesi scandinavi), pare fosse uno dei cibi d’elezione di marinai e di viaggiatori (si conservava, infatti, molto a lungo, e poteva essere imbevuta anche di acqua di mare); forse è giunta alle nostre coste meridionali dalla Grecia. Già ai tempi dei romani, del resto, erano diffusi vari tipi di gallette, come ci ricorda Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nel Libro XXII, 68 della Storia naturale, che illustra i benefici del panis nauticus ammollato. La biscottatura, insomma, è un molto diffuso e molto antico per la conservazione del pane. Talora le freselle vengono chiamate anche pane dei crociati: pare, infatti, che fossero uno dei cibi d'elezione per i templari in partenza per la Terra Santa dai porti pugliesi. Le testimonianze letterarie che si riescono a trovare sono poche e praticamente tutte dialettali: la fresella viene nominata –per la sua friabilità, non per la sua durezza – a più riprese da Felippo Sgruttendio nella Tiorba a Taccone (1646), ad esempio nella Corda VI, 4: E già tu saie comme pe Cecca io canto, Che m' ha fatto ste fecate freselle, E saie c' ha riso cchiù quann' agg' io chianto, Parennole ste pene bagattelle. [e già tu sai come per Cecca io canto, che mi ha ridotto in fresella il fegato, e sai che ha riso più di quanto io abbia pianto, sembrandole queste pene piccolezze.] Avvicinandoci ai nostri tempi, le testimonianze popolari sulla fresella si moltiplicano; da molte parti si cita che nella Napoli nella seconda metà dell’Ottocento avremmo potuto sentire il richiamo del tarallaro, che, oltre agli ovvi taralli, spesso si portava appresso anche qualche fresella: «pe ve scarfà lo stomaco in chesta piattella, cotiche cu freselle ognuno sta a magnà!». La fresella compare in una poesia di Salvatore di Giacomo (1860-1934), Irma (in Gli sfregi di Napoli: Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei, 2005, Napoli, Liguori, pp. 164-165), in cui si narra la storia di una prostituta: D’ ‘a lucanna, aieressera, mmiez’ ‘a via nne fuie cacciata: mmiez’ ‘a via sulagna e nnera tutt’ ‘a notte Irma è restata. […] Passa gente. È fatto iuorno. «Psst! Siente!...» E rire... e chiamma... C’ ha dda fa’ si ha perzo ‘o scuorno? C’ ha dda fa’? Se more ‘e famma. Mmerz’ ‘e nnove s’ ha mangiata na fresella nfosa all’ acqua. E mo, comme a na mappata, sta llà nterra. E dorme, stracqua. [Da una locanda, ieri sera, è stata cacciata in mezzo alla strada: in mezzo a una strada solitaria e buia Irma è rimasta tutta la notte. […] Passa la gente, si è fatto giorno, «Ehi, senti!» E ride… e chiama Che deve fare se ha perso il pudore? Che deve fare? Si muore di fame. Verso le nove ha mangiato una fresella inzuppata d'acqua E ora, come un mucchio di stracci Sta là in terra. E dorme, stanca.] Un altro poeta dialettale partenopeo, Ferdinando Russo (1866-1927), nomina pure la fresella, che però qui assume un significato licenzioso (in un componimento chiamato, non a caso, O pilo 'il pelo', pubblicato nel 1910 nella raccolta Poesie Napoletane [Napoli, Polito]). Va saputo, infatti, che molto probabilmente per la sua forma generalmente bucata al centro, il nostro pane biscottato viene anche usato per indicare… le pudenda femminili! Un ulteriore salto temporale ci porta al presente. La fresella non scompare dai testi (in prevalenza partenopei, come abbiamo visto finora) e fa una sua apparizione "moderna" nel monologo intitolato Notte di Secondigliano di Peppe Lanzetta (in Una vita postdatata. Lampi e tuoni dal Bronx napoletano, 1998, Feltrinelli, Milano, p. 10): Tengo una fame carogna, quasi quasi mi alzo e mi faccio una fresella piena di origano e pomodori, mi schiatto una birrozza e un paio di Marlboro di contrabbando e amen… Per chi predilige il fatto in casa… Le freselle sono quindi dei pani di dimensioni variabili ma non troppo grandi, piatti e di forma tondeggiante, con o senza buco a seconda della tradizione locale (quelle bucate avevano il vantaggio di essere facili da trasportare, infilate su una cordicella), fatte di farina di grano o orzo o un loro miscuglio, cotte intere, poi tagliate in due longitudinalmente e lasciate “biscottare” nel forno a una temperatura più bassa (anticamente, si sfruttava il calore residuo del forno a legna in raffreddamento). Anche il taglio della fresella nasconde una vera e propria arte: i fornai pugliesi usano tradizionalmente uno spago, un capo del quale viene tenuto in bocca e l’altro nella mano; il panino viene tagliato tramite un gesto rotatorio (tecnica a strozzo); altri usano per lo stesso scopo del filo di ferro. Si ottengono, così, due freselle leggermente differenti: quella te sutta (salentino per ‘di sotto’), più piatta, croccante e con la faccia interna più liscia e quella te subbra (‘di sopra’), più tondeggiante, con la faccia interna più ruvida e che tende ad ammollarsi prima, acquisendo una consistenza più tenera. Ognuna delle sue metà ha i suoi estimatori. Le freselle non sono di per sé molto gustose, e sono state concepite come un modo per conservare il pane a lungo, per poi consumarlo dopo averlo inumidito con qualche liquido, solitamente acqua salata, e servito con qualche gustoso companatico. La base della ricetta è simile a quella del pane: farina, sale e acqua (meno di quanta ne useremmo per il pane) e lievito madre (circa 200-250 grammi per chilo di farina) o lievito di birra (30 grammi). L’impasto va poi lavorato e ridotto in “salsicciotti”, da arrotolare poi in ciambelle con o senza buco tra gli 8 e i 15 centimetri, che vanno lasciate. Si procede poi alla cottura: si suggerisce una temperatura di 220° per il primo quarto d’ora, abbassando poi il forno a 180° per ulteriori 15 minuti. Si estraggono le freselle semicotte, si tagliano in due e poi si ripassano per mezz’ora in forno, a 160°. Per quanto riguarda le ricette per preparare le freselle, dopo averle opportunamente ammollate con acqua salata, la tradizione pugliese suggerisce di condirle con aglio, olio di oliva, pepe e basilico e servirle ricoperte di pomodoro fresco a pezzi; a Napoli si preferisce invece gustarle come base per la caponata napoletana (da non confondere con l'omonima ricetta siciliana), che prevede di accompagnare la ghiottoneria con un misto di tonno, pomodoro fresco, olive, acciughe e qualche foglia di lattuga e di scarola, il tutto condito con olio, sale, basilico e origano; una delle ricette più diffuse in Calabria consiglia invece di decorare la fresella con pomodoro fresco, cipolle di Tropea tagliate ad anelli, sale, aglio, olio e, ovviamente, peperoncino! Bibliografia Aragosti Andrea (a cura di), 1985, Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale. 3.2: Botanica: Libri 20-27, Torino, Einaudi. Di Giacomo Salvatore, 2005, Gli sfregi di Napoli: Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei, Napoli, Liguori. Lanzetta Peppe, 1998, Una vita postdatata. Lampi e tuoni dal Bronx napoletano, Milano, Feltrinelli. Russo Ferdinando, 1910, Poesie Napoletane¸Napoli, Liguori.

Fresca, friabile, fragrante: la frisella (con Pierpalolo Lala) / Vera Gheno. - STAMPA. - (2015), pp. 134-138.

Fresca, friabile, fragrante: la frisella (con Pierpalolo Lala)

Vera Gheno
2015

Abstract

Fresca, friabile, fragrante: la fresella La fresella attraverso i secoli «Pasta di pane disseccata, per lo più a forma di ciambella o disco, con una doppia cottura in forno, con una faccia liscia e una ruvida, ottenuta tagliando orizzontalmente con lo spago l’impasto, a metà cottura; ravvivata con poca acqua e condita con olio e sale, pomodoro e origano, è elemento fondamentale di preparazioni alimentari tipiche della tradizione contadina pugliese e meridionale in genere; è detta anche frisa» (Vocabolario Treccani on line, s.v. fresella). Freselle, friselle (friseddhe in salentino) o frise: i nomi cambiano a seconda del luogo (la forma con la i è più diffusa in Puglia, quella con la e in Campania e in Calabria), ma il referente è simile, con qualche variazione. Intanto analizziamo il termine: seguendo l’etimologia più accreditata, fresella è diminutivo di fresa ‘(pasta) abbrustolita’, a sua volta dal latino fresa ‘tritata’, participio passato femminile del verbo frindere ‘macinare, sminuzzare, triturare’. Lo Zingarelli ci fornisce anche una data di ingresso in italiano: 1931. Precedentemente, il termine era diffuso solo in specifiche regioni dell'Italia, e proprio per questa sua origine popolare e dialettale non sono molti i dizionari dell'italiano che lo registrano. Le origini della fresella sono misteriose. Simile, nella filosofia di base, a molti altri tipi di pane raffermo da fare rinvenire sparsi per il mondo (citiamo solo il pane carasau sardo e le gallette croccanti tipiche dei paesi scandinavi), pare fosse uno dei cibi d’elezione di marinai e di viaggiatori (si conservava, infatti, molto a lungo, e poteva essere imbevuta anche di acqua di mare); forse è giunta alle nostre coste meridionali dalla Grecia. Già ai tempi dei romani, del resto, erano diffusi vari tipi di gallette, come ci ricorda Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nel Libro XXII, 68 della Storia naturale, che illustra i benefici del panis nauticus ammollato. La biscottatura, insomma, è un molto diffuso e molto antico per la conservazione del pane. Talora le freselle vengono chiamate anche pane dei crociati: pare, infatti, che fossero uno dei cibi d'elezione per i templari in partenza per la Terra Santa dai porti pugliesi. Le testimonianze letterarie che si riescono a trovare sono poche e praticamente tutte dialettali: la fresella viene nominata –per la sua friabilità, non per la sua durezza – a più riprese da Felippo Sgruttendio nella Tiorba a Taccone (1646), ad esempio nella Corda VI, 4: E già tu saie comme pe Cecca io canto, Che m' ha fatto ste fecate freselle, E saie c' ha riso cchiù quann' agg' io chianto, Parennole ste pene bagattelle. [e già tu sai come per Cecca io canto, che mi ha ridotto in fresella il fegato, e sai che ha riso più di quanto io abbia pianto, sembrandole queste pene piccolezze.] Avvicinandoci ai nostri tempi, le testimonianze popolari sulla fresella si moltiplicano; da molte parti si cita che nella Napoli nella seconda metà dell’Ottocento avremmo potuto sentire il richiamo del tarallaro, che, oltre agli ovvi taralli, spesso si portava appresso anche qualche fresella: «pe ve scarfà lo stomaco in chesta piattella, cotiche cu freselle ognuno sta a magnà!». La fresella compare in una poesia di Salvatore di Giacomo (1860-1934), Irma (in Gli sfregi di Napoli: Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei, 2005, Napoli, Liguori, pp. 164-165), in cui si narra la storia di una prostituta: D’ ‘a lucanna, aieressera, mmiez’ ‘a via nne fuie cacciata: mmiez’ ‘a via sulagna e nnera tutt’ ‘a notte Irma è restata. […] Passa gente. È fatto iuorno. «Psst! Siente!...» E rire... e chiamma... C’ ha dda fa’ si ha perzo ‘o scuorno? C’ ha dda fa’? Se more ‘e famma. Mmerz’ ‘e nnove s’ ha mangiata na fresella nfosa all’ acqua. E mo, comme a na mappata, sta llà nterra. E dorme, stracqua. [Da una locanda, ieri sera, è stata cacciata in mezzo alla strada: in mezzo a una strada solitaria e buia Irma è rimasta tutta la notte. […] Passa la gente, si è fatto giorno, «Ehi, senti!» E ride… e chiama Che deve fare se ha perso il pudore? Che deve fare? Si muore di fame. Verso le nove ha mangiato una fresella inzuppata d'acqua E ora, come un mucchio di stracci Sta là in terra. E dorme, stanca.] Un altro poeta dialettale partenopeo, Ferdinando Russo (1866-1927), nomina pure la fresella, che però qui assume un significato licenzioso (in un componimento chiamato, non a caso, O pilo 'il pelo', pubblicato nel 1910 nella raccolta Poesie Napoletane [Napoli, Polito]). Va saputo, infatti, che molto probabilmente per la sua forma generalmente bucata al centro, il nostro pane biscottato viene anche usato per indicare… le pudenda femminili! Un ulteriore salto temporale ci porta al presente. La fresella non scompare dai testi (in prevalenza partenopei, come abbiamo visto finora) e fa una sua apparizione "moderna" nel monologo intitolato Notte di Secondigliano di Peppe Lanzetta (in Una vita postdatata. Lampi e tuoni dal Bronx napoletano, 1998, Feltrinelli, Milano, p. 10): Tengo una fame carogna, quasi quasi mi alzo e mi faccio una fresella piena di origano e pomodori, mi schiatto una birrozza e un paio di Marlboro di contrabbando e amen… Per chi predilige il fatto in casa… Le freselle sono quindi dei pani di dimensioni variabili ma non troppo grandi, piatti e di forma tondeggiante, con o senza buco a seconda della tradizione locale (quelle bucate avevano il vantaggio di essere facili da trasportare, infilate su una cordicella), fatte di farina di grano o orzo o un loro miscuglio, cotte intere, poi tagliate in due longitudinalmente e lasciate “biscottare” nel forno a una temperatura più bassa (anticamente, si sfruttava il calore residuo del forno a legna in raffreddamento). Anche il taglio della fresella nasconde una vera e propria arte: i fornai pugliesi usano tradizionalmente uno spago, un capo del quale viene tenuto in bocca e l’altro nella mano; il panino viene tagliato tramite un gesto rotatorio (tecnica a strozzo); altri usano per lo stesso scopo del filo di ferro. Si ottengono, così, due freselle leggermente differenti: quella te sutta (salentino per ‘di sotto’), più piatta, croccante e con la faccia interna più liscia e quella te subbra (‘di sopra’), più tondeggiante, con la faccia interna più ruvida e che tende ad ammollarsi prima, acquisendo una consistenza più tenera. Ognuna delle sue metà ha i suoi estimatori. Le freselle non sono di per sé molto gustose, e sono state concepite come un modo per conservare il pane a lungo, per poi consumarlo dopo averlo inumidito con qualche liquido, solitamente acqua salata, e servito con qualche gustoso companatico. La base della ricetta è simile a quella del pane: farina, sale e acqua (meno di quanta ne useremmo per il pane) e lievito madre (circa 200-250 grammi per chilo di farina) o lievito di birra (30 grammi). L’impasto va poi lavorato e ridotto in “salsicciotti”, da arrotolare poi in ciambelle con o senza buco tra gli 8 e i 15 centimetri, che vanno lasciate. Si procede poi alla cottura: si suggerisce una temperatura di 220° per il primo quarto d’ora, abbassando poi il forno a 180° per ulteriori 15 minuti. Si estraggono le freselle semicotte, si tagliano in due e poi si ripassano per mezz’ora in forno, a 160°. Per quanto riguarda le ricette per preparare le freselle, dopo averle opportunamente ammollate con acqua salata, la tradizione pugliese suggerisce di condirle con aglio, olio di oliva, pepe e basilico e servirle ricoperte di pomodoro fresco a pezzi; a Napoli si preferisce invece gustarle come base per la caponata napoletana (da non confondere con l'omonima ricetta siciliana), che prevede di accompagnare la ghiottoneria con un misto di tonno, pomodoro fresco, olive, acciughe e qualche foglia di lattuga e di scarola, il tutto condito con olio, sale, basilico e origano; una delle ricette più diffuse in Calabria consiglia invece di decorare la fresella con pomodoro fresco, cipolle di Tropea tagliate ad anelli, sale, aglio, olio e, ovviamente, peperoncino! Bibliografia Aragosti Andrea (a cura di), 1985, Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale. 3.2: Botanica: Libri 20-27, Torino, Einaudi. Di Giacomo Salvatore, 2005, Gli sfregi di Napoli: Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei, Napoli, Liguori. Lanzetta Peppe, 1998, Una vita postdatata. Lampi e tuoni dal Bronx napoletano, Milano, Feltrinelli. Russo Ferdinando, 1910, Poesie Napoletane¸Napoli, Liguori.
2015
Rubbettino
Massimo Arcangeli (a cura di)
Peccati di lingua. Le 100 parole italiane del gusto
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138
Vera Gheno
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