La ricerca ha a oggetto lo studio della difesa in giudizio dell’amministrazione resistente nella giurisdizione generale di legittimità e è stata condotta guardando al processo amministrativo e, più in generale, al fenomeno processuale nella prospettiva delle relazioni che si instaurano tra i soggetti che vi prendono parte. In particolar modo, il lavoro muove dall’ipotesi che al mutamento della concezione dell’azione corrisponda un mutamento analogo dei poteri e delle facoltà del giudice e delle altre parti costituite. Pertanto, il primo obiettivo è stato quello di verificare l’esistenza di questa relazione, attraverso l’esame delle riflessioni dei processualcivilisti, che per oltre cinquant’anni hanno dibattuto sul significato dell’azione e sui rapporti giuridici che legano chi agisce per la tutela di un proprio diritto con la parte che si difende negando la fondatezza di quelle affermazioni (cap. I, sez. I). Preso atto dell’esistenza di questo rapporto di dipendenza tra la concezione del processo e il ruolo che in esso è attribuito alle parti, si sono indagate le ragioni del tradizionale disinteresse della dottrina per la difesa in giudizio dell’amministrazione resistente e si è sottoposta a verifica l’attualità di questo atteggiamento: si è ipotizzato, cioè, che all’esito della stagione di riforme che ha coinvolto il giudizio amministrativo nell’ultimo ventennio, portando con sé un profondo mutamento dei contenuti e del significato dell’ottocentesco «ricorso contro atti e provvedimenti di un’autorità», sia opportuno ripensare il ruolo processuale della parte pubblica convenuta (cap. I, sez. II). Infatti, a dispetto dell’attenzione che la scienza amministrativistica ha dimostrato negli ultimi decenni per i problemi legati alla pienezza e all’effettività di tutela del ricorrente e alla definizione dei poteri del giudice, l’amministrazione è sempre rimasta sullo sfondo. Percepita in dottrina come parte eventuale del processo (ancorché qualificata necessaria dall’art. 27 c.p.a.), essa è stata tradizionalmente guardata come una convitata di pietra: per un verso, l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice le garantiva comunque una piena tutela dell’interesse pubblico, indipendentemente dal suo contegno processuale; per altro verso, essa era tutelata dalla circostanza che la sentenza, dovendo fare salvi i suoi ulteriori provvedimenti, non avrebbe comunque potuto regolare in modo definitivo il rapporto giuridico sotteso all’atto impugnato. Nella sua veste originaria, pertanto, il processo rappresentava una parentesi tra due fasi di esercizio del potere amministrativo, affatto scalfito dal passaggio in giudicato della sentenza, se non per quei soli segmenti dell’accertamento concernenti gli eventuali profili di illegittimità lamentati dal ricorrente. Va detto, però, che se la scelta di costruire il giudizio amministrativo come un processo da ricorso contro atti nel quale l’amministrazione intimata gioca un ruolo marginale aveva manifestato segnali di debolezza sin dall’entrata in vigore della Costituzione, con l’approvazione del c.p.a. quel modello è stato definitivamente abbandonato. Per saggiare la fondatezza di quest’affermazione, si sono quindi sottoposti a critica i capisaldi della teoria del processo da ricorso, mettendone prima in discussione il profilo lessicale (ipotizzando cioè che l’atto introduttivo del giudizio amministrativo sia più correttamente da inquadrare in termini di citazione) e poi analizzando le ricadute applicative di quella impostazione (cap. II). Si è innanzitutto messa in discussione la convinzione che nel giudizio amministrativo, differentemente da quello ordinario, il rapporto processuale si instauri al momento della costituzione in giudizio del ricorrente e non per effetto della sola notifica del ricorso: in tal senso, si è ritenuto che il riconoscimento per l’ente intimato, avvenuto per la prima volta con l’introduzione del c.p.a., di costituirsi indipendentemente dal deposito del ricorso (art. 46, co. 1), consenta di anticipare la pendenza della lite al momento in cui l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione (§2). Si sono poi presi in esame l’obbligo dell’amministrazione di depositare il provvedimento impugnato (art. 46, co. 2, c.p.a.) e la sua facoltà di opporsi alla rinuncia agli atti del ricorrente (art. 84, co. 3, c.p.a.), interpretandoli come indici del definitivo abbandono del c.d. ‘processo a senso unico’, nel quale era contemplata la totale inerzia dell’ente intimato (§§3 e 6). Ancora, si è immaginata l’ammissibilità, anche nel giudizio di legittimità, della contumacia della parte resistente, facendo dipendere da essa conseguenze processuali analoghe a quelle che si producono nei confronti del convenuto che non si costituisce nel giudizio ordinario (§4). Si è proceduto quindi a una rivisitazione del meccanismo di funzionamento del ‘metodo acquisitivo’, suggerendo di limitarlo ai soli casi in cui l’esercizio dei poteri officiosi appaia necessario a ristabilire la parità delle parti sul piano sostanziale ed escludendo, pertanto, ogni possibilità di soccorso istruttorio del giudice nei confronti di un’amministrazione processualmente negligente (§5). Infine, s’è letto nell’ultratrentennale tentativo dottrinario e giurisprudenziale di assegnare al giudicato amministrativo effetti quanto più possibile satisfattivi della pretesa attorea la volontà di superare l’impostazione pubblicistica del processo all’atto (§7). Alla luce dei risultati ottenuti, nella parte conclusiva del secondo capitolo si sono quindi provate a individuare le conseguenze della mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione, che si è detta convenuta e non più intimata: quelle che si producono sul piano processuale, con il rischio di stabilizzazione in capo al ricorrente di utilità che non gli sono riconosciute dal diritto sostanziale (§9); quelle che si possono registrare sul fronte del buon andamento e dell’economicità dell’azione amministrativa per effetto di un’incompleta (o assente) attività difensiva; da ultimo, la responsabilità erariale e disciplinare dei funzionari preposti a determinare le strategie processuali dell’ente per quegli effetti del giudicato che si potevano evitare (o quantomeno mitigare) mediante l’allestimento di una adeguata attività difensiva (§10). Il punto di caduta di questo ragionamento sarà quindi non soltanto quello di ammettere che una difesa dell’amministrazione possa esservi, ma addirittura di giungere a ipotizzare che un’adeguata resistenza dell’ente convenuto sia da configurare in termini di obbligo, date le innumerevoli conseguenze giuridiche che si producono per effetto di una sua eventuale inerzia. Per quanto l’affermazione dell’obbligo di difendersi rappresenti, come s’illustrerà sub cap. II, una mera ipotesi di studio, bisognosa di ulteriori approfondimenti e verifiche, la presa di coscienza che le strategie processuali dell’amministrazione convenuta non sono prive di conseguenze giuridiche, sia sul piano processuale che su quello dei rapporti sostanziali cristallizzati nel giudicato, conduce definitivamente fuori dalla logica del processo da ricorso, consentendo l’emersione dell’amministrazione resistente da quel ruolo marginale dove era stata tradizionalmente relegata. Una volta attribuita all’amministrazione la dignità di un’autentica parte del processo, si è cercato di dare contenuto al suo contegno difensivo (cap. III). Innanzitutto, si sono provati a tratteggiare i limiti oggettivi della difesa dell’amministrazione convenuta, nel tentativo di distinguere gli argomenti che essa può spendere in giudizio da quelli che debbono invece essere riservati alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza (§3). Sennonché, per risolvere questo problema è stato prima necessario indagare il funzionamento del principio di preclusione del dedotto e del deducibile nel processo amministrativo (§§1-2): infatti, per definire correttamente ciò che l’amministrazione può rilevare mediante l’esperimento di una difesa processuale e quel che, invece, non può in alcun modo entrare nel processo, è necessario definire preliminarmente quali siano i limiti interni della giurisdizione e quali gli effetti preclusivi del giudicato. Da quest’indagine sono emerse, come si dirà nei paragrafi centrali del terzo capitolo, due conclusioni: da una parte la possibilità per l’amministrazione di difendersi mediante il ricorso a eccezioni di merito in senso proprio; dall’altra, l’inammissibilità delle eccezioni a carattere riconvenzionale e, a maggior ragione, delle domande riconvenzionali, attraverso le quali l’ente convenuto finirebbe per portare a conoscenza del giudice una parte di potere non ancora esercitata, conducendolo fuori dai limiti della sua giurisdizione. Infine, si è dedicata l’ultima parte del lavoro a un’indagine sul regime di rilevabilità delle eccezioni di merito in senso proprio, al fine di verificare se, come accade nel giudizio ordinario, anche in quello amministrativo possa immaginarsi, quantomeno in ipotesi, che la rilevazione dell’esistenza di un fatto sia interdetta all’attività officiosa del giudice e venga riservata all’autonoma iniziativa delle parti: così, dopo aver dato risposta positiva a quest’interrogativo (§4), si sono analizzati negli ultimi paragrafi i casi dell’irrilevanza causale dei vizi sulla forma e sul procedimento e della permanenza dei profili di discrezionalità nell’azione di adempimento, che sono stati (il primo) o potrebbero esserlo (il secondo) qualificabili in termini di eccezione in senso stretto (§§5-7).
Per uno studio sulla difesa dell’amministrazione in giudizio / Federico Orso. - (2019).
Per uno studio sulla difesa dell’amministrazione in giudizio
Federico Orso
2019
Abstract
La ricerca ha a oggetto lo studio della difesa in giudizio dell’amministrazione resistente nella giurisdizione generale di legittimità e è stata condotta guardando al processo amministrativo e, più in generale, al fenomeno processuale nella prospettiva delle relazioni che si instaurano tra i soggetti che vi prendono parte. In particolar modo, il lavoro muove dall’ipotesi che al mutamento della concezione dell’azione corrisponda un mutamento analogo dei poteri e delle facoltà del giudice e delle altre parti costituite. Pertanto, il primo obiettivo è stato quello di verificare l’esistenza di questa relazione, attraverso l’esame delle riflessioni dei processualcivilisti, che per oltre cinquant’anni hanno dibattuto sul significato dell’azione e sui rapporti giuridici che legano chi agisce per la tutela di un proprio diritto con la parte che si difende negando la fondatezza di quelle affermazioni (cap. I, sez. I). Preso atto dell’esistenza di questo rapporto di dipendenza tra la concezione del processo e il ruolo che in esso è attribuito alle parti, si sono indagate le ragioni del tradizionale disinteresse della dottrina per la difesa in giudizio dell’amministrazione resistente e si è sottoposta a verifica l’attualità di questo atteggiamento: si è ipotizzato, cioè, che all’esito della stagione di riforme che ha coinvolto il giudizio amministrativo nell’ultimo ventennio, portando con sé un profondo mutamento dei contenuti e del significato dell’ottocentesco «ricorso contro atti e provvedimenti di un’autorità», sia opportuno ripensare il ruolo processuale della parte pubblica convenuta (cap. I, sez. II). Infatti, a dispetto dell’attenzione che la scienza amministrativistica ha dimostrato negli ultimi decenni per i problemi legati alla pienezza e all’effettività di tutela del ricorrente e alla definizione dei poteri del giudice, l’amministrazione è sempre rimasta sullo sfondo. Percepita in dottrina come parte eventuale del processo (ancorché qualificata necessaria dall’art. 27 c.p.a.), essa è stata tradizionalmente guardata come una convitata di pietra: per un verso, l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice le garantiva comunque una piena tutela dell’interesse pubblico, indipendentemente dal suo contegno processuale; per altro verso, essa era tutelata dalla circostanza che la sentenza, dovendo fare salvi i suoi ulteriori provvedimenti, non avrebbe comunque potuto regolare in modo definitivo il rapporto giuridico sotteso all’atto impugnato. Nella sua veste originaria, pertanto, il processo rappresentava una parentesi tra due fasi di esercizio del potere amministrativo, affatto scalfito dal passaggio in giudicato della sentenza, se non per quei soli segmenti dell’accertamento concernenti gli eventuali profili di illegittimità lamentati dal ricorrente. Va detto, però, che se la scelta di costruire il giudizio amministrativo come un processo da ricorso contro atti nel quale l’amministrazione intimata gioca un ruolo marginale aveva manifestato segnali di debolezza sin dall’entrata in vigore della Costituzione, con l’approvazione del c.p.a. quel modello è stato definitivamente abbandonato. Per saggiare la fondatezza di quest’affermazione, si sono quindi sottoposti a critica i capisaldi della teoria del processo da ricorso, mettendone prima in discussione il profilo lessicale (ipotizzando cioè che l’atto introduttivo del giudizio amministrativo sia più correttamente da inquadrare in termini di citazione) e poi analizzando le ricadute applicative di quella impostazione (cap. II). Si è innanzitutto messa in discussione la convinzione che nel giudizio amministrativo, differentemente da quello ordinario, il rapporto processuale si instauri al momento della costituzione in giudizio del ricorrente e non per effetto della sola notifica del ricorso: in tal senso, si è ritenuto che il riconoscimento per l’ente intimato, avvenuto per la prima volta con l’introduzione del c.p.a., di costituirsi indipendentemente dal deposito del ricorso (art. 46, co. 1), consenta di anticipare la pendenza della lite al momento in cui l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione (§2). Si sono poi presi in esame l’obbligo dell’amministrazione di depositare il provvedimento impugnato (art. 46, co. 2, c.p.a.) e la sua facoltà di opporsi alla rinuncia agli atti del ricorrente (art. 84, co. 3, c.p.a.), interpretandoli come indici del definitivo abbandono del c.d. ‘processo a senso unico’, nel quale era contemplata la totale inerzia dell’ente intimato (§§3 e 6). Ancora, si è immaginata l’ammissibilità, anche nel giudizio di legittimità, della contumacia della parte resistente, facendo dipendere da essa conseguenze processuali analoghe a quelle che si producono nei confronti del convenuto che non si costituisce nel giudizio ordinario (§4). Si è proceduto quindi a una rivisitazione del meccanismo di funzionamento del ‘metodo acquisitivo’, suggerendo di limitarlo ai soli casi in cui l’esercizio dei poteri officiosi appaia necessario a ristabilire la parità delle parti sul piano sostanziale ed escludendo, pertanto, ogni possibilità di soccorso istruttorio del giudice nei confronti di un’amministrazione processualmente negligente (§5). Infine, s’è letto nell’ultratrentennale tentativo dottrinario e giurisprudenziale di assegnare al giudicato amministrativo effetti quanto più possibile satisfattivi della pretesa attorea la volontà di superare l’impostazione pubblicistica del processo all’atto (§7). Alla luce dei risultati ottenuti, nella parte conclusiva del secondo capitolo si sono quindi provate a individuare le conseguenze della mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione, che si è detta convenuta e non più intimata: quelle che si producono sul piano processuale, con il rischio di stabilizzazione in capo al ricorrente di utilità che non gli sono riconosciute dal diritto sostanziale (§9); quelle che si possono registrare sul fronte del buon andamento e dell’economicità dell’azione amministrativa per effetto di un’incompleta (o assente) attività difensiva; da ultimo, la responsabilità erariale e disciplinare dei funzionari preposti a determinare le strategie processuali dell’ente per quegli effetti del giudicato che si potevano evitare (o quantomeno mitigare) mediante l’allestimento di una adeguata attività difensiva (§10). Il punto di caduta di questo ragionamento sarà quindi non soltanto quello di ammettere che una difesa dell’amministrazione possa esservi, ma addirittura di giungere a ipotizzare che un’adeguata resistenza dell’ente convenuto sia da configurare in termini di obbligo, date le innumerevoli conseguenze giuridiche che si producono per effetto di una sua eventuale inerzia. Per quanto l’affermazione dell’obbligo di difendersi rappresenti, come s’illustrerà sub cap. II, una mera ipotesi di studio, bisognosa di ulteriori approfondimenti e verifiche, la presa di coscienza che le strategie processuali dell’amministrazione convenuta non sono prive di conseguenze giuridiche, sia sul piano processuale che su quello dei rapporti sostanziali cristallizzati nel giudicato, conduce definitivamente fuori dalla logica del processo da ricorso, consentendo l’emersione dell’amministrazione resistente da quel ruolo marginale dove era stata tradizionalmente relegata. Una volta attribuita all’amministrazione la dignità di un’autentica parte del processo, si è cercato di dare contenuto al suo contegno difensivo (cap. III). Innanzitutto, si sono provati a tratteggiare i limiti oggettivi della difesa dell’amministrazione convenuta, nel tentativo di distinguere gli argomenti che essa può spendere in giudizio da quelli che debbono invece essere riservati alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza (§3). Sennonché, per risolvere questo problema è stato prima necessario indagare il funzionamento del principio di preclusione del dedotto e del deducibile nel processo amministrativo (§§1-2): infatti, per definire correttamente ciò che l’amministrazione può rilevare mediante l’esperimento di una difesa processuale e quel che, invece, non può in alcun modo entrare nel processo, è necessario definire preliminarmente quali siano i limiti interni della giurisdizione e quali gli effetti preclusivi del giudicato. Da quest’indagine sono emerse, come si dirà nei paragrafi centrali del terzo capitolo, due conclusioni: da una parte la possibilità per l’amministrazione di difendersi mediante il ricorso a eccezioni di merito in senso proprio; dall’altra, l’inammissibilità delle eccezioni a carattere riconvenzionale e, a maggior ragione, delle domande riconvenzionali, attraverso le quali l’ente convenuto finirebbe per portare a conoscenza del giudice una parte di potere non ancora esercitata, conducendolo fuori dai limiti della sua giurisdizione. Infine, si è dedicata l’ultima parte del lavoro a un’indagine sul regime di rilevabilità delle eccezioni di merito in senso proprio, al fine di verificare se, come accade nel giudizio ordinario, anche in quello amministrativo possa immaginarsi, quantomeno in ipotesi, che la rilevazione dell’esistenza di un fatto sia interdetta all’attività officiosa del giudice e venga riservata all’autonoma iniziativa delle parti: così, dopo aver dato risposta positiva a quest’interrogativo (§4), si sono analizzati negli ultimi paragrafi i casi dell’irrilevanza causale dei vizi sulla forma e sul procedimento e della permanenza dei profili di discrezionalità nell’azione di adempimento, che sono stati (il primo) o potrebbero esserlo (il secondo) qualificabili in termini di eccezione in senso stretto (§§5-7).File | Dimensione | Formato | |
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