La ricerca condotta, nel tentativo di analizzare le risposte date dal diritto del lavoro comunitario e nazionale alle molteplici questioni sollevate dalle migrazioni per motivi economici, ha messo in luce alcuni punti focali della materia. Le caratteristiche dell’ordinamento internazionale, stante la carenza di un contesto di riferimento sufficientemente solido ed unitario, non hanno consentito lo sviluppo in subiecta materia di un apparato complessivo e coeso tale da disciplinare in modo coerente ed efficace il fenomeno migratorio, ed in particolare quell’aspetto particolarmente significativo di tale fenomeno che è rappresentato dalle migrazioni per motivi di lavoro. Le frammentarie ed incomplete disposizioni di diritto internazionale che rilevano sul punto, pertanto, non lasciano spazio alla possibilità di ricostruire le linee di fondo di una politica unitaria. A livello comunitario, invece, la presenza di un autonomo ordinamento giuridico, in virtù del quale si è raggiunto un tasso di integrazione decisamente più soddisfacente tra gli Stati membri, ha consentito l’emersione quantomeno di alcuni tratti distintivi delle politiche migratorie dell’Unione. Le finalità essenzialmente economiche che hanno dato origine al processo di integrazione europea hanno lasciato fin dal principio in subordine le preoccupazioni di ordine sociale. Per questo motivo, non stupisce che nel Trattato di Roma del 1957 non vi sia traccia alcuna di disposizioni in materia di immigrazione, anche perché non si poneva ancora il problema della gestione dell’immigrazione extracomunitaria, che allora aveva una portata decisamente esigua. Lo status dei cittadini di Paesi terzi, fin dall’origine della Comunità, è rimasto sostanzialmente rimesso alle discipline nazionali, mentre solo per i cittadini degli Stati membri è stato fin da subito delineato un regime di diritto comunitario. Questa contrapposizione caratterizzerà gli sviluppi successivi della materia. La genesi lenta e difficoltosa di una disciplina organica a livello comunitario delle migrazioni per motivi economici è essenzialmente dovuta a due fattori: in primo luogo, si tratta di una competenza comunitaria relativamente giovane, se si considera che la materia dell’immigrazione è stata “comunitarizzata” solo nel 1999 ad Amsterdam; in secondo luogo, gli Stati hanno sempre manifestato la propria riluttanza nei confronti di un’armonizzazione sovranazionale delle discipline nazionali in materia di immigrazione. E’ per questa ragione che con gli Accordi di Schengen, prima, e l’Atto unico, poi, gli Stati hanno preferito procedere, su base volontaria, lungo la strada della cooperazione intergovernativa, che non ha comporto alcuna forma di abbandono di competenze statali. Oggetto di cooperazione sono stati solo quegli aspetti del fenomeno migratorio funzionali all’instaurazione del mercato interno, allo scopo di evitare gli effetti indesiderati della libera circolazione, e quindi principalmente quelli connessi alla lotta contro l’immigrazione clandestina. La reazione agli ingressi indesiderati si dimostrerà essere un’altra costante delle politiche migratorie comunitarie. Neppure la collocazione del metodo intergovernativo all’interno del sistema istituzionale comunitario, attuata a Maastricht nel 1992, ha dato una spinta decisiva allo sviluppo di una governance europea nella materia in esame, concretandosi in sostanza in un ulteriore rafforzamento della politica restrittiva nei confronti del fenomeno migratorio. Il punto di svolta, come si diceva, è costituito dal Trattato di Amsterdam che, attraverso la strada della “comunitarizzazione flessibile”, ha portato finalmente nell’alveo del sistema comunitario sia la materia dell’immigrazione, sia parte dell’acquis di Schengen. La prudenza e la gradualità del passaggio al metodo comunitario, criticate da più parti, hanno tuttavia consentito una tale “comunitarizzazione”, avvenuta in misura determinante proprio grazie alle deroghe introdotte rispetto al diritto comunitario generale, confermando che una delle costanti delle politiche europee in tema di immigrazione è rappresentata proprio dalla dialettica tra il metodo comunitario e quello intergovernativo. Gli assi prioritari di intervento dell’Unione, tuttavia, restavano ancora il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne e le misure di espulsione, mentre le misure in materia di migrazione legale, anche per motivi di lavoro, venivano sottoposte alla procedura consultiva ed alla regola dell’unanimità, ad ulteriore conferma della riluttanza degli Stati membri nei confronti di una compiuta “comunitarizzazione” della politica dell’immigrazione. Il carattere più programmatico che normativo del Trattato di Amsterdam ha comportato la previsione di nuove competenze delle istituzioni comunitarie, ma non di chiare indicazioni sulle politiche da adottare. L’esigenza di una politica europea comune e generale in materia di immigrazione è quindi stata nuovamente sottolineata dalle ambiziose Conclusioni del Consiglio di Tampere del 1999, cui ha fatto seguito l’anno seguente la più concreta Comunicazione della Commissione specificamente dedicata alla politica migratoria comunitaria, che ha rilanciato il dibattito proprio sull’immigrazione dovuta a spinte economiche di mercato. Ciononostante, i noti avvenimenti che hanno caratterizzato lo scenario internazionale dopo l’11 settembre 2001 hanno portato ad un nuovo irrigidimento degli orientamenti politici in materia di immigrazione. La regola dell’unanimità ha reso particolarmente problematica l’adozione di atti normativi nel settore delle politiche migratorie, e neppure lo strumento del metodo aperto di coordinamento ha consentito di superare tale impasse regolativo. In particolare, non ha avuto seguito neppure l’interessante Proposta di Direttiva in materia di ingresso e soggiorno per motivi economici che, nonostante un approccio al fenomeno eminentemente economicistico, ha il merito di aver finalmente delineato una procedura comune in tema di ingresso degli immigrati per motivi di lavoro sulla base di una valutazione della situazione dei mercati del lavoro nazionali. Il passaggio alla regola della maggioranza qualificata ed alla procedura di codecisione senza dubbio rappresentano il superamento di uno dei principali ostacoli che negli anni si è frapposto alla realizzazione di una politica migratoria comunitaria. L’accantonamento dell’ambizioso progetto del Trattato costituzionale, però, ha fatto slittare tale importante innovazione al momento dell’entrata in vigore il Trattato di Lisbona. Ugualmente, è stata rinviata anche l’“unionizzazione” della politica migratoria comunitaria che, attraverso il superamento della struttura fondata sui tre pilastri, e dunque della distinzione tra materie “comunitarizzate” e materie “intergovernative”, dovrebbe finalmente consentire una visione tendenzialmente omnicomprensiva del fenomeno. La condizione dei cittadini dei Paesi terzi, inoltre, ne uscirà ulteriormente rafforzata, in forza dell’attribuzione dello status giuridicamente vincolante alla Carta di Nizza, da un lato, e dell’adesione dell’Unione alla Cedu, dall’altro, che potrebbero agevolarne l’accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale. Nell’attesa dell’entrata in vigore del nuovo Trattato, neppure l’attuazione del Programma dell’Aia, che comunque ridimensiona le ambizioni manifestate a Tampere, ha consentito l’emersione di un quadro completo e coerente in materia di politiche migratorie. Anzi, risulta in qualche modo confermata l’impossibilità di definire norme comuni per l’ammissione di lavoratori di Paesi terzi, anche perché si è scelto di preferire sul punto un’impostazione di tipo settoriale, considerata l’unica strada percorribile per superare le riserve che gli Stati membri continuano ad avere su un settore considerato ancora di interesse principalmente nazionale. La mancanza di una chiara governance del fenomeno a livello comunitario ha in qualche modo influito sull’evoluzione della disciplina nazionale. Di fronte all’emersione della questione migratoria in Italia, principalmente tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dello scorso secolo, sarebbe stato lecito attendersi un intervento tempestivo e puntuale da parte del legislatore nazionale. Ciò non è avvenuto, e gli spazi lasciati vuoti dalla latitanza del legislatore sono stati in gran parte colmati da un’ipertrofica regolamentazione amministrativa, che identificava il fenomeno essenzialmente come un problema di ordine pubblico e sicurezza sociale. La legiferazione “per circolari” ha caratterizzato la disciplina dell’accesso al lavoro degli stranieri fino alla metà degli anni Ottanta, ponendosi in aperto contrasto con la riserva di legge sancita dall’art. 10, comma 2, Cost. in materia di condizione giuridica dello straniero. Essa, quindi, ha delineato per lungo tempo l’impianto essenziale della materia, un impianto privo di qualsiasi tipo di organicità, quando non addirittura contraddittorio e difficilmente conoscibile. Se con la legge Foschi del 1986 ci si era limitati a dare la veste della legge al corpus delle circolari ministeriali che si erano stratificate nel tempo, è solo con la legge Martelli del 1990 che si è tentata una prima regolamentazione di largo respiro al fenomeno migratorio, introducendo in particolare il meccanismo della programmazione dei flussi in ingresso per ragioni di lavoro dei non comunitari, che costituisce a tutt’oggi un asse portante della disciplina. L’incapacità del mondo politico di gestire la programmazione dei flussi e di predisporre le misure di integrazione degli stranieri palesarono, tuttavia, l’inadeguatezza della legge a governare il fenomeno. Il passaggio da una logica di interventi di tipo settoriale alla prima disciplina volta a regolare l’insieme degli aspetti concernenti l’ingresso, il trattamento e l’allontanamento dello straniero è rappresentato dalla legge Turco-Napolitano e dal T.U. sull’immigrazione del 1998, che sanciscono il radicale mutamento degli indirizzi di politica legislativa in materia di immigrazione. Accanto alle misure miranti a combattere il fenomeno dell’immigrazione clandestina, la legge combinava le esigenze di realizzazione di un’efficace politica di ingressi legali e programmati, prevalentemente per motivi di lavoro, con quelle di integrazione dei non comunitari. La programmazione delle politiche nazionali di immigrazione era collocata in una logica di più ampio respiro, fermo restando il principio della limitazione degli ingressi di stranieri per motivi di lavoro in funzione delle esigenze del mercato del lavoro nazionale. La disciplina dell’accesso al lavoro vedeva confermato il binomio autorizzazione al lavoro - permesso di soggiorno, al quale si accompagnavano le sostanziali novità del superamento del c.d. test della necessità economica, dell’introduzione della carta di soggiorno e dell’istituto dello sponsor, grazie al quale era prevista la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno ai fini dell’inserimento nel mercato del lavoro. In particolare, emergevano con forza anche la tutela dei diritti e l’affermazione del principio di non discriminazione, presupposti indispensabili per l’integrazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese. In presenza di una gestione delle quote troppo restrittiva, le periodiche sanatorie si sono dimostrate l’unico strumento capace di dare regolarità ai lavoratori stranieri che non riuscivano ad entrare in Italia, evidenziando d’altro canto l’incapacità istituzionale di provvedere ad una efficace politica di immigrazione. La pratica delle regolarizzazioni, che risulta essere il vero fulcro delle politiche migratorie italiane, non è stata abbandonata neppure dalla legge Bossi-Fini, che è intervenuta sul T.U. nel 2002 modificandolo per lo più in senso restrittivo. Oltre ad inasprirne l’impianto repressivo e sanzionatorio, la legge ha aggravato le già macchinose procedure di ingresso per motivi di lavoro, subordinando l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero, nonché la concessione allo stesso di diritti, all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita. D’altro canto, le politiche di rottura rispetto a quelle fatte proprie dalla legge Turco-Napolitano si sostanziano altresì nel sostanziale disinteresse dimostrato nei confronti degli aspetti relativi all’integrazione ed alla tutela dei diritti riconosciuti allo straniero. L’impianto della disciplina della programmazione dei flussi migratori non è stato oggetto di rilevanti modifiche. Analogamente, il cardine del sistema di controllo amministrativo della materia continua ad essere il permesso di soggiorno, e ciò dimostra come l’interesse di ordine pubblico al controllo degli stranieri continui a rappresentare un tratto distintivo anche dell’attuale assetto della disciplina. Un ulteriore segno in tal senso è rappresentato dalla previsione di un unico ente responsabile dell’intero procedimento di assunzione di lavoratori subordinati stranieri, lo Sportello unico per l’immigrazione, che fa capo alla Prefettura. La reintroduzione del c.d. test della necessità economica, l’abrogazione dello sponsor e del permesso di soggiorno per ricerca di lavoro (che, combinati con il meccanismo della chiamata nominativa del lavoratore ancora residente all’estero, non fanno altro che incentivare gli ingressi clandestini), la previsione del nuovo contratto di soggiorno per lavoro subordinato e gli oneri che ne derivano, principalmente in capo al datore di lavoro, sembrano essere tutti sintomi della volontà di disincentivare, per quanto possibile, le assunzioni dei lavoratori immigrati. A ciò si aggiunga che i principi che disciplinano attualmente la materia appaiono palesemente inadeguati non solo a regolare il fenomeno migratorio - basti pensare all’incapacità di riassorbire le quote di irregolarità in via ordinaria, e non attraverso sanatorie eccezionali - ma, e prima ancora, a comprenderlo a fondo. Il rigido condizionamento della permanenza legale in Italia all’esistenza ed alla conservazione di un regolare rapporto di lavoro testimonia che la logica alla base degli interventi normativi continua ad essere quella della stretta funzionalizzazione degli ingressi dei non comunitari all’utilità economica del Paese, mentre gli interessi e le esigenze di tutela degli immigrati rimangono decisamente in secondo piano, non trovando adeguate risposte da parte degli attori politico-istituzionali. Depone in tal senso anche la disciplina dell’accesso degli stranieri alle prestazioni di natura assistenziale, che nel nostro Paese avviene spesso in violazione del principio di non discriminazione, senza che ciò sia sorretto da ragionevoli giustificazioni. In questo caso le previsioni del T.U., che aveva sancito una sostanziale equiparazione tra italiani e non quanto all’accesso alla sicurezza sociale, sono state modificate in senso restrittivo dalla legge finanziaria per il 2001, che in modo particolare ha circoscritto il novero dei potenziali beneficiari delle provvidenze assistenziali sulla base del requisito del titolo di soggiorno da essi posseduto. Una tale situazione di arretramento legislativo, che ha comportato il generarsi di un trattamento discriminatorio in danno dei cittadini non comunitari, non è stata ancora censurata in modo deciso dalla Corte costituzionale, più volte sollecitata sulla questione dai giudici di merito, che invece hanno generalmente dimostrato una sensibilità più spiccata nei confronti della problematica. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un generale principio di non discriminazione quanto all’accesso alla sicurezza sociale risulta tuttavia confermato sia da disposizioni di diritto comunitario, sia dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che, fondandosi anche sul richiamo diretto alla Carta di Nizza, è finalmente apparsa più sensibile alla questione della tutela dei diritti sociali fondamentali. Inoltre, un ruolo rilevante in materia è quello giocato dalla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, i quali hanno recentemente confermato la propria impostazione volta a ricomprendere nell’ambito di applicazione del principio di non discriminazione sancito dalla Cedu anche le prestazioni sociali. Una tale ricostruzione potrebbe, in linea di principio, influire in modo rilevante su quella dei giudici di Lussemburgo, in particolar modo attraverso un ripensamento della rigida nozione di “situazione puramente interna” che, al momento, impedisce un’applicazione generalizzata del Regolamento n. 859 del 2003, il quale sancisce il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale anche per i cittadini di Paesi terzi regolarmente residenti ed occupati nell’Unione. Il tema dell’accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale dei cittadini non comunitari rappresenta, in definitiva, una cartina tornasole per riflettere sulla validità dell’impianto normativo in materia di immigrazione; esso, come si è cercato di dimostrare, rispecchia un’oggettiva incapacità, non solo nazionale, di trovare una prospettiva di lungo periodo che sappia contemperare il diritto a migrare con quello della tutela delle società di accoglienza. A tal fine sembra sicuramente utile la prospettiva del giuslavorista, principalmente allo scopo di recuperare la tradizionale funzione del diritto del lavoro quale strumento di livellamento delle diseguaglianze economiche e sociali. Restituendo al lavoro la valenza di canale privilegiato di accesso alla cittadinanza ed ai diritti, in una parola all’integrazione sociale, è possibile sposare la logica della cittadinanza sociale come garanzia dei diritti sociali fondamentali per qualsiasi individuo, indipendentemente dalla sua nazionalità.

L'accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale dei cittadini non comunitari nelle fonti europee e nazionali / W. Chiaromonte. - (2009).

L'accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale dei cittadini non comunitari nelle fonti europee e nazionali

CHIAROMONTE, WILLIAM
2009

Abstract

La ricerca condotta, nel tentativo di analizzare le risposte date dal diritto del lavoro comunitario e nazionale alle molteplici questioni sollevate dalle migrazioni per motivi economici, ha messo in luce alcuni punti focali della materia. Le caratteristiche dell’ordinamento internazionale, stante la carenza di un contesto di riferimento sufficientemente solido ed unitario, non hanno consentito lo sviluppo in subiecta materia di un apparato complessivo e coeso tale da disciplinare in modo coerente ed efficace il fenomeno migratorio, ed in particolare quell’aspetto particolarmente significativo di tale fenomeno che è rappresentato dalle migrazioni per motivi di lavoro. Le frammentarie ed incomplete disposizioni di diritto internazionale che rilevano sul punto, pertanto, non lasciano spazio alla possibilità di ricostruire le linee di fondo di una politica unitaria. A livello comunitario, invece, la presenza di un autonomo ordinamento giuridico, in virtù del quale si è raggiunto un tasso di integrazione decisamente più soddisfacente tra gli Stati membri, ha consentito l’emersione quantomeno di alcuni tratti distintivi delle politiche migratorie dell’Unione. Le finalità essenzialmente economiche che hanno dato origine al processo di integrazione europea hanno lasciato fin dal principio in subordine le preoccupazioni di ordine sociale. Per questo motivo, non stupisce che nel Trattato di Roma del 1957 non vi sia traccia alcuna di disposizioni in materia di immigrazione, anche perché non si poneva ancora il problema della gestione dell’immigrazione extracomunitaria, che allora aveva una portata decisamente esigua. Lo status dei cittadini di Paesi terzi, fin dall’origine della Comunità, è rimasto sostanzialmente rimesso alle discipline nazionali, mentre solo per i cittadini degli Stati membri è stato fin da subito delineato un regime di diritto comunitario. Questa contrapposizione caratterizzerà gli sviluppi successivi della materia. La genesi lenta e difficoltosa di una disciplina organica a livello comunitario delle migrazioni per motivi economici è essenzialmente dovuta a due fattori: in primo luogo, si tratta di una competenza comunitaria relativamente giovane, se si considera che la materia dell’immigrazione è stata “comunitarizzata” solo nel 1999 ad Amsterdam; in secondo luogo, gli Stati hanno sempre manifestato la propria riluttanza nei confronti di un’armonizzazione sovranazionale delle discipline nazionali in materia di immigrazione. E’ per questa ragione che con gli Accordi di Schengen, prima, e l’Atto unico, poi, gli Stati hanno preferito procedere, su base volontaria, lungo la strada della cooperazione intergovernativa, che non ha comporto alcuna forma di abbandono di competenze statali. Oggetto di cooperazione sono stati solo quegli aspetti del fenomeno migratorio funzionali all’instaurazione del mercato interno, allo scopo di evitare gli effetti indesiderati della libera circolazione, e quindi principalmente quelli connessi alla lotta contro l’immigrazione clandestina. La reazione agli ingressi indesiderati si dimostrerà essere un’altra costante delle politiche migratorie comunitarie. Neppure la collocazione del metodo intergovernativo all’interno del sistema istituzionale comunitario, attuata a Maastricht nel 1992, ha dato una spinta decisiva allo sviluppo di una governance europea nella materia in esame, concretandosi in sostanza in un ulteriore rafforzamento della politica restrittiva nei confronti del fenomeno migratorio. Il punto di svolta, come si diceva, è costituito dal Trattato di Amsterdam che, attraverso la strada della “comunitarizzazione flessibile”, ha portato finalmente nell’alveo del sistema comunitario sia la materia dell’immigrazione, sia parte dell’acquis di Schengen. La prudenza e la gradualità del passaggio al metodo comunitario, criticate da più parti, hanno tuttavia consentito una tale “comunitarizzazione”, avvenuta in misura determinante proprio grazie alle deroghe introdotte rispetto al diritto comunitario generale, confermando che una delle costanti delle politiche europee in tema di immigrazione è rappresentata proprio dalla dialettica tra il metodo comunitario e quello intergovernativo. Gli assi prioritari di intervento dell’Unione, tuttavia, restavano ancora il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne e le misure di espulsione, mentre le misure in materia di migrazione legale, anche per motivi di lavoro, venivano sottoposte alla procedura consultiva ed alla regola dell’unanimità, ad ulteriore conferma della riluttanza degli Stati membri nei confronti di una compiuta “comunitarizzazione” della politica dell’immigrazione. Il carattere più programmatico che normativo del Trattato di Amsterdam ha comportato la previsione di nuove competenze delle istituzioni comunitarie, ma non di chiare indicazioni sulle politiche da adottare. L’esigenza di una politica europea comune e generale in materia di immigrazione è quindi stata nuovamente sottolineata dalle ambiziose Conclusioni del Consiglio di Tampere del 1999, cui ha fatto seguito l’anno seguente la più concreta Comunicazione della Commissione specificamente dedicata alla politica migratoria comunitaria, che ha rilanciato il dibattito proprio sull’immigrazione dovuta a spinte economiche di mercato. Ciononostante, i noti avvenimenti che hanno caratterizzato lo scenario internazionale dopo l’11 settembre 2001 hanno portato ad un nuovo irrigidimento degli orientamenti politici in materia di immigrazione. La regola dell’unanimità ha reso particolarmente problematica l’adozione di atti normativi nel settore delle politiche migratorie, e neppure lo strumento del metodo aperto di coordinamento ha consentito di superare tale impasse regolativo. In particolare, non ha avuto seguito neppure l’interessante Proposta di Direttiva in materia di ingresso e soggiorno per motivi economici che, nonostante un approccio al fenomeno eminentemente economicistico, ha il merito di aver finalmente delineato una procedura comune in tema di ingresso degli immigrati per motivi di lavoro sulla base di una valutazione della situazione dei mercati del lavoro nazionali. Il passaggio alla regola della maggioranza qualificata ed alla procedura di codecisione senza dubbio rappresentano il superamento di uno dei principali ostacoli che negli anni si è frapposto alla realizzazione di una politica migratoria comunitaria. L’accantonamento dell’ambizioso progetto del Trattato costituzionale, però, ha fatto slittare tale importante innovazione al momento dell’entrata in vigore il Trattato di Lisbona. Ugualmente, è stata rinviata anche l’“unionizzazione” della politica migratoria comunitaria che, attraverso il superamento della struttura fondata sui tre pilastri, e dunque della distinzione tra materie “comunitarizzate” e materie “intergovernative”, dovrebbe finalmente consentire una visione tendenzialmente omnicomprensiva del fenomeno. La condizione dei cittadini dei Paesi terzi, inoltre, ne uscirà ulteriormente rafforzata, in forza dell’attribuzione dello status giuridicamente vincolante alla Carta di Nizza, da un lato, e dell’adesione dell’Unione alla Cedu, dall’altro, che potrebbero agevolarne l’accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale. Nell’attesa dell’entrata in vigore del nuovo Trattato, neppure l’attuazione del Programma dell’Aia, che comunque ridimensiona le ambizioni manifestate a Tampere, ha consentito l’emersione di un quadro completo e coerente in materia di politiche migratorie. Anzi, risulta in qualche modo confermata l’impossibilità di definire norme comuni per l’ammissione di lavoratori di Paesi terzi, anche perché si è scelto di preferire sul punto un’impostazione di tipo settoriale, considerata l’unica strada percorribile per superare le riserve che gli Stati membri continuano ad avere su un settore considerato ancora di interesse principalmente nazionale. La mancanza di una chiara governance del fenomeno a livello comunitario ha in qualche modo influito sull’evoluzione della disciplina nazionale. Di fronte all’emersione della questione migratoria in Italia, principalmente tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dello scorso secolo, sarebbe stato lecito attendersi un intervento tempestivo e puntuale da parte del legislatore nazionale. Ciò non è avvenuto, e gli spazi lasciati vuoti dalla latitanza del legislatore sono stati in gran parte colmati da un’ipertrofica regolamentazione amministrativa, che identificava il fenomeno essenzialmente come un problema di ordine pubblico e sicurezza sociale. La legiferazione “per circolari” ha caratterizzato la disciplina dell’accesso al lavoro degli stranieri fino alla metà degli anni Ottanta, ponendosi in aperto contrasto con la riserva di legge sancita dall’art. 10, comma 2, Cost. in materia di condizione giuridica dello straniero. Essa, quindi, ha delineato per lungo tempo l’impianto essenziale della materia, un impianto privo di qualsiasi tipo di organicità, quando non addirittura contraddittorio e difficilmente conoscibile. Se con la legge Foschi del 1986 ci si era limitati a dare la veste della legge al corpus delle circolari ministeriali che si erano stratificate nel tempo, è solo con la legge Martelli del 1990 che si è tentata una prima regolamentazione di largo respiro al fenomeno migratorio, introducendo in particolare il meccanismo della programmazione dei flussi in ingresso per ragioni di lavoro dei non comunitari, che costituisce a tutt’oggi un asse portante della disciplina. L’incapacità del mondo politico di gestire la programmazione dei flussi e di predisporre le misure di integrazione degli stranieri palesarono, tuttavia, l’inadeguatezza della legge a governare il fenomeno. Il passaggio da una logica di interventi di tipo settoriale alla prima disciplina volta a regolare l’insieme degli aspetti concernenti l’ingresso, il trattamento e l’allontanamento dello straniero è rappresentato dalla legge Turco-Napolitano e dal T.U. sull’immigrazione del 1998, che sanciscono il radicale mutamento degli indirizzi di politica legislativa in materia di immigrazione. Accanto alle misure miranti a combattere il fenomeno dell’immigrazione clandestina, la legge combinava le esigenze di realizzazione di un’efficace politica di ingressi legali e programmati, prevalentemente per motivi di lavoro, con quelle di integrazione dei non comunitari. La programmazione delle politiche nazionali di immigrazione era collocata in una logica di più ampio respiro, fermo restando il principio della limitazione degli ingressi di stranieri per motivi di lavoro in funzione delle esigenze del mercato del lavoro nazionale. La disciplina dell’accesso al lavoro vedeva confermato il binomio autorizzazione al lavoro - permesso di soggiorno, al quale si accompagnavano le sostanziali novità del superamento del c.d. test della necessità economica, dell’introduzione della carta di soggiorno e dell’istituto dello sponsor, grazie al quale era prevista la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno ai fini dell’inserimento nel mercato del lavoro. In particolare, emergevano con forza anche la tutela dei diritti e l’affermazione del principio di non discriminazione, presupposti indispensabili per l’integrazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese. In presenza di una gestione delle quote troppo restrittiva, le periodiche sanatorie si sono dimostrate l’unico strumento capace di dare regolarità ai lavoratori stranieri che non riuscivano ad entrare in Italia, evidenziando d’altro canto l’incapacità istituzionale di provvedere ad una efficace politica di immigrazione. La pratica delle regolarizzazioni, che risulta essere il vero fulcro delle politiche migratorie italiane, non è stata abbandonata neppure dalla legge Bossi-Fini, che è intervenuta sul T.U. nel 2002 modificandolo per lo più in senso restrittivo. Oltre ad inasprirne l’impianto repressivo e sanzionatorio, la legge ha aggravato le già macchinose procedure di ingresso per motivi di lavoro, subordinando l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero, nonché la concessione allo stesso di diritti, all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita. D’altro canto, le politiche di rottura rispetto a quelle fatte proprie dalla legge Turco-Napolitano si sostanziano altresì nel sostanziale disinteresse dimostrato nei confronti degli aspetti relativi all’integrazione ed alla tutela dei diritti riconosciuti allo straniero. L’impianto della disciplina della programmazione dei flussi migratori non è stato oggetto di rilevanti modifiche. Analogamente, il cardine del sistema di controllo amministrativo della materia continua ad essere il permesso di soggiorno, e ciò dimostra come l’interesse di ordine pubblico al controllo degli stranieri continui a rappresentare un tratto distintivo anche dell’attuale assetto della disciplina. Un ulteriore segno in tal senso è rappresentato dalla previsione di un unico ente responsabile dell’intero procedimento di assunzione di lavoratori subordinati stranieri, lo Sportello unico per l’immigrazione, che fa capo alla Prefettura. La reintroduzione del c.d. test della necessità economica, l’abrogazione dello sponsor e del permesso di soggiorno per ricerca di lavoro (che, combinati con il meccanismo della chiamata nominativa del lavoratore ancora residente all’estero, non fanno altro che incentivare gli ingressi clandestini), la previsione del nuovo contratto di soggiorno per lavoro subordinato e gli oneri che ne derivano, principalmente in capo al datore di lavoro, sembrano essere tutti sintomi della volontà di disincentivare, per quanto possibile, le assunzioni dei lavoratori immigrati. A ciò si aggiunga che i principi che disciplinano attualmente la materia appaiono palesemente inadeguati non solo a regolare il fenomeno migratorio - basti pensare all’incapacità di riassorbire le quote di irregolarità in via ordinaria, e non attraverso sanatorie eccezionali - ma, e prima ancora, a comprenderlo a fondo. Il rigido condizionamento della permanenza legale in Italia all’esistenza ed alla conservazione di un regolare rapporto di lavoro testimonia che la logica alla base degli interventi normativi continua ad essere quella della stretta funzionalizzazione degli ingressi dei non comunitari all’utilità economica del Paese, mentre gli interessi e le esigenze di tutela degli immigrati rimangono decisamente in secondo piano, non trovando adeguate risposte da parte degli attori politico-istituzionali. Depone in tal senso anche la disciplina dell’accesso degli stranieri alle prestazioni di natura assistenziale, che nel nostro Paese avviene spesso in violazione del principio di non discriminazione, senza che ciò sia sorretto da ragionevoli giustificazioni. In questo caso le previsioni del T.U., che aveva sancito una sostanziale equiparazione tra italiani e non quanto all’accesso alla sicurezza sociale, sono state modificate in senso restrittivo dalla legge finanziaria per il 2001, che in modo particolare ha circoscritto il novero dei potenziali beneficiari delle provvidenze assistenziali sulla base del requisito del titolo di soggiorno da essi posseduto. Una tale situazione di arretramento legislativo, che ha comportato il generarsi di un trattamento discriminatorio in danno dei cittadini non comunitari, non è stata ancora censurata in modo deciso dalla Corte costituzionale, più volte sollecitata sulla questione dai giudici di merito, che invece hanno generalmente dimostrato una sensibilità più spiccata nei confronti della problematica. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un generale principio di non discriminazione quanto all’accesso alla sicurezza sociale risulta tuttavia confermato sia da disposizioni di diritto comunitario, sia dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che, fondandosi anche sul richiamo diretto alla Carta di Nizza, è finalmente apparsa più sensibile alla questione della tutela dei diritti sociali fondamentali. Inoltre, un ruolo rilevante in materia è quello giocato dalla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, i quali hanno recentemente confermato la propria impostazione volta a ricomprendere nell’ambito di applicazione del principio di non discriminazione sancito dalla Cedu anche le prestazioni sociali. Una tale ricostruzione potrebbe, in linea di principio, influire in modo rilevante su quella dei giudici di Lussemburgo, in particolar modo attraverso un ripensamento della rigida nozione di “situazione puramente interna” che, al momento, impedisce un’applicazione generalizzata del Regolamento n. 859 del 2003, il quale sancisce il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale anche per i cittadini di Paesi terzi regolarmente residenti ed occupati nell’Unione. Il tema dell’accesso al lavoro ed alla sicurezza sociale dei cittadini non comunitari rappresenta, in definitiva, una cartina tornasole per riflettere sulla validità dell’impianto normativo in materia di immigrazione; esso, come si è cercato di dimostrare, rispecchia un’oggettiva incapacità, non solo nazionale, di trovare una prospettiva di lungo periodo che sappia contemperare il diritto a migrare con quello della tutela delle società di accoglienza. A tal fine sembra sicuramente utile la prospettiva del giuslavorista, principalmente allo scopo di recuperare la tradizionale funzione del diritto del lavoro quale strumento di livellamento delle diseguaglianze economiche e sociali. Restituendo al lavoro la valenza di canale privilegiato di accesso alla cittadinanza ed ai diritti, in una parola all’integrazione sociale, è possibile sposare la logica della cittadinanza sociale come garanzia dei diritti sociali fondamentali per qualsiasi individuo, indipendentemente dalla sua nazionalità.
2009
Prof. Maurizio Cinelli, Università di Macerata
W. Chiaromonte
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