La tesi di dottorato Il film a colori in Italia. 1930-1959 offre una ricognizione sui problemi fondamentali connessi allo sviluppo del colore nel cinema italiano dagli anni trenta ai primi anni cinquanta, cercando di evidenziare come lo studio della storia nazionale del film a colori debba essere affrontato in stretta connessione con il contesto tecnologico, economico, culturale e ideologico. Nel corso del trentennio esaminato, infatti, si delinea uno sforzo costante per tracciare una ipotesi di sviluppo tecnologico specificamente nazionale, dapprima nel contesto dell’indipendenza economica e dell’autarchia, e in seguito in quello dell’Italia della ricostruzione. Il quadro che ne deriva è quello di un sistema complesso di relazioni e interessi che coinvolge un arco cronologico di lungo periodo, durante il quale i cicli di innovazione non sono mai disgiunti da peculiari forme di promozione e discorsivizzazione della novità. A tale proposito, la ricostruzione storico proposta si avvale di un articolato ventaglio di fonti: i brevetti per le invenzioni realizzate negli anni trenta; i documenti di lavorazione, che testimoniano il travaglio produttivo dei primi lungometraggi a colori degli anni cinquanta; la pubblicistica di settore, che accompagna con le sue articolate prese di posizione l’intero trentennio di sviluppo tecnologico. Nello scorcio finale degli anni trenta, la comparsa dei primi sistemi esteri incentiva entro i confini nazionali le ricerche sul colore, che trovano un nuovo alleato nelle crescenti spinte autarchiche: un gran numero di inventori, stimolati dagli auspici istituzionali sulla nascita di un colore nazionale, cui non segue alcuna concreta azione di sostegno, propone in questi anni una serie di soluzioni originali e personali, talvolta immaginifiche, senza che nessuno di loro riesca a dar corso a una produzione regolare. Nel periodo successivo, dagli anni postbellici alle soglie del boom, è invece nella società nazionale Ferrania che si concretizza per il breve spazio di un decennio la possibilità di dar luogo a un colore italiano (Ferraniacolor, 1949-1959), con un aggiornamento del sogno autarchico al nuovo assetto politico e culturale. Nel quadro della ricostruzione e dell’Italia sovvenzionata dal Piano Marshall, l’alleanza strategica tra la società milanese, i settori tecnici e industriali del cinema italiano e i nuovi vertici politici crea le condizioni per un netto incentivo della produzione nazionale a colori, che viene sempre più a saldarsi con il desiderio di ripresa e di nuovi consumi che di lì a poco si sarebbe realizzato nel cosiddetto miracolo economico. Ampio spazio del lavoro è dedicato all’analisi di alcuni film ritenuti esemplari delle differenti tendenze retorico-stilistiche in atto negli anni cinquanta. Emergono tre tendenze principali che caratterizzano i film italiani a colori nei primi anni di diffusione della novità tecnologica. Un termine dialettico di riferimento sembra essere costituito dalle proposte stilistiche elaborate in seno al cinema hollywoodiano, che a loro volto sono fondate su un rapporto di tensione produttiva con il principio del color restraint, enunciato nel 1935 da Natalie Kalmus, direttrice del color control department della Technicolor (Nathalie Kalmus, Color Consciousness, «Journal of the Society of Motion Pictures Engineers», 2, August 1935, pp. 139-147). Per la Kalmus, il potere di distrazione del colore deve essere attentamente controllato, in modo da non impedire allo spettatore la comprensione della storia raccontata: la proposta della consulente per il colore è quella di un colore leggibile, drammatizzato e gerarchizzato, in grado di integrarsi al linguaggio hollywoodiano senza generare rivoluzioni formali. Nell’Italia degli anni cinquanta, in cui le pellicole hollywoodiane invadono gli schermi, i film in Technicolor costituiscono un termine di riferimento pressoché obbligato per chi intende percorrere la strada del colore. La prima tendenza che si manifesta è sulla stessa lunghezza d’onda delle proposte più euforizzanti del cinema d’oltreoceano (per esempio il musical). Sulla scorta della nozione di attrazione elaborata da Tom Gunning – che il lavoro propone di estendere a categoria formale valida per l’intera storia del cinema – questo uso del colore viene definito attrazionale: esso si manifesta essenzialmente nel dominio del film comico, del film rivista e del film musicale (Totò a colori, Steno, 1952; Aida, Clemente Fracassi, 1953). Sul piano formale, i film cercando di rispondere alla riduzione delle opzioni stilistiche imposte dalle restrizioni tecnologiche con una grande esibizione di colore. La seconda tendenza risulta maggiormente in simbiosi con i principi fondamentali del color restraint. Nei film che ad essa vengono ricondotti, l’analisi evidenzia un processo di limitazione del potere di distrazione del colore al fine di agevolare la leggibilità del racconto: per questa ragione, si può parlare di un uso narrativo del colore. Esso è più agevolmente verificabile nel genere della cosiddetta commedia italiana (Racconti romani, Gianni Franciolini, 1955), in cui si manifesta essenzialmente attraverso un processo di progressiva riacquisizione delle tecniche preesistenti del film in bianco e nero (ad esempio, gli effetti di chiaroscuro e la profondità di campo). La terza tendenza trova la sua piena manifestazione all’interno dei particolari interessi riflessivi e metalinguistici del cinema moderno: essa propone un uso poetico e critico-espressivo del colore. Indicata da Antonioni in un articolo del 1947 (Michelangelo Antonioni, Il colore e l’America, «Fiera Letteraria», 27 novembre 1947), che polemizza con l’uso del colore proposto dal cinema di Hollywood, questa tendenza si impone in maniera stabile negli anni sessanta (Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni, 1964). Alcuni dei suoi tratti caratterizzanti possono essere rintracciati in alcuni film del decennio precedente, in particolare Senso (Luchino Visconti, 1954) e Giulietta e Romeo (Renato Castellani, 1954).

Il film a colori in Italia (1930-1959) / F. Pierotti. - (2006).

Il film a colori in Italia (1930-1959)

PIEROTTI, FEDERICO
2006

Abstract

La tesi di dottorato Il film a colori in Italia. 1930-1959 offre una ricognizione sui problemi fondamentali connessi allo sviluppo del colore nel cinema italiano dagli anni trenta ai primi anni cinquanta, cercando di evidenziare come lo studio della storia nazionale del film a colori debba essere affrontato in stretta connessione con il contesto tecnologico, economico, culturale e ideologico. Nel corso del trentennio esaminato, infatti, si delinea uno sforzo costante per tracciare una ipotesi di sviluppo tecnologico specificamente nazionale, dapprima nel contesto dell’indipendenza economica e dell’autarchia, e in seguito in quello dell’Italia della ricostruzione. Il quadro che ne deriva è quello di un sistema complesso di relazioni e interessi che coinvolge un arco cronologico di lungo periodo, durante il quale i cicli di innovazione non sono mai disgiunti da peculiari forme di promozione e discorsivizzazione della novità. A tale proposito, la ricostruzione storico proposta si avvale di un articolato ventaglio di fonti: i brevetti per le invenzioni realizzate negli anni trenta; i documenti di lavorazione, che testimoniano il travaglio produttivo dei primi lungometraggi a colori degli anni cinquanta; la pubblicistica di settore, che accompagna con le sue articolate prese di posizione l’intero trentennio di sviluppo tecnologico. Nello scorcio finale degli anni trenta, la comparsa dei primi sistemi esteri incentiva entro i confini nazionali le ricerche sul colore, che trovano un nuovo alleato nelle crescenti spinte autarchiche: un gran numero di inventori, stimolati dagli auspici istituzionali sulla nascita di un colore nazionale, cui non segue alcuna concreta azione di sostegno, propone in questi anni una serie di soluzioni originali e personali, talvolta immaginifiche, senza che nessuno di loro riesca a dar corso a una produzione regolare. Nel periodo successivo, dagli anni postbellici alle soglie del boom, è invece nella società nazionale Ferrania che si concretizza per il breve spazio di un decennio la possibilità di dar luogo a un colore italiano (Ferraniacolor, 1949-1959), con un aggiornamento del sogno autarchico al nuovo assetto politico e culturale. Nel quadro della ricostruzione e dell’Italia sovvenzionata dal Piano Marshall, l’alleanza strategica tra la società milanese, i settori tecnici e industriali del cinema italiano e i nuovi vertici politici crea le condizioni per un netto incentivo della produzione nazionale a colori, che viene sempre più a saldarsi con il desiderio di ripresa e di nuovi consumi che di lì a poco si sarebbe realizzato nel cosiddetto miracolo economico. Ampio spazio del lavoro è dedicato all’analisi di alcuni film ritenuti esemplari delle differenti tendenze retorico-stilistiche in atto negli anni cinquanta. Emergono tre tendenze principali che caratterizzano i film italiani a colori nei primi anni di diffusione della novità tecnologica. Un termine dialettico di riferimento sembra essere costituito dalle proposte stilistiche elaborate in seno al cinema hollywoodiano, che a loro volto sono fondate su un rapporto di tensione produttiva con il principio del color restraint, enunciato nel 1935 da Natalie Kalmus, direttrice del color control department della Technicolor (Nathalie Kalmus, Color Consciousness, «Journal of the Society of Motion Pictures Engineers», 2, August 1935, pp. 139-147). Per la Kalmus, il potere di distrazione del colore deve essere attentamente controllato, in modo da non impedire allo spettatore la comprensione della storia raccontata: la proposta della consulente per il colore è quella di un colore leggibile, drammatizzato e gerarchizzato, in grado di integrarsi al linguaggio hollywoodiano senza generare rivoluzioni formali. Nell’Italia degli anni cinquanta, in cui le pellicole hollywoodiane invadono gli schermi, i film in Technicolor costituiscono un termine di riferimento pressoché obbligato per chi intende percorrere la strada del colore. La prima tendenza che si manifesta è sulla stessa lunghezza d’onda delle proposte più euforizzanti del cinema d’oltreoceano (per esempio il musical). Sulla scorta della nozione di attrazione elaborata da Tom Gunning – che il lavoro propone di estendere a categoria formale valida per l’intera storia del cinema – questo uso del colore viene definito attrazionale: esso si manifesta essenzialmente nel dominio del film comico, del film rivista e del film musicale (Totò a colori, Steno, 1952; Aida, Clemente Fracassi, 1953). Sul piano formale, i film cercando di rispondere alla riduzione delle opzioni stilistiche imposte dalle restrizioni tecnologiche con una grande esibizione di colore. La seconda tendenza risulta maggiormente in simbiosi con i principi fondamentali del color restraint. Nei film che ad essa vengono ricondotti, l’analisi evidenzia un processo di limitazione del potere di distrazione del colore al fine di agevolare la leggibilità del racconto: per questa ragione, si può parlare di un uso narrativo del colore. Esso è più agevolmente verificabile nel genere della cosiddetta commedia italiana (Racconti romani, Gianni Franciolini, 1955), in cui si manifesta essenzialmente attraverso un processo di progressiva riacquisizione delle tecniche preesistenti del film in bianco e nero (ad esempio, gli effetti di chiaroscuro e la profondità di campo). La terza tendenza trova la sua piena manifestazione all’interno dei particolari interessi riflessivi e metalinguistici del cinema moderno: essa propone un uso poetico e critico-espressivo del colore. Indicata da Antonioni in un articolo del 1947 (Michelangelo Antonioni, Il colore e l’America, «Fiera Letteraria», 27 novembre 1947), che polemizza con l’uso del colore proposto dal cinema di Hollywood, questa tendenza si impone in maniera stabile negli anni sessanta (Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni, 1964). Alcuni dei suoi tratti caratterizzanti possono essere rintracciati in alcuni film del decennio precedente, in particolare Senso (Luchino Visconti, 1954) e Giulietta e Romeo (Renato Castellani, 1954).
2006
Alessandro Bernardi
F. Pierotti
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