Recensione di Franco Ruffini, «L’Indice dei libri del mese», ottobre 1998, n. 9, p. 27: «Gli spettatori che il 3 marzo 1585, ultima domenica di Carnevale, dopo un'attesa di molte ore, assistettero allo spettacolo inaugurale del, Teatro Olimpico di Vicenza si trovarono di fronte a quello che è considerato uno dei monumenti più insigni del teatro del Rinascimento. La coppia monumento/documento è uno dei riferimenti metodologici più spesso invocati nell’importante libro di Stefano Mazzoni intitolato appunto all'Olimpico di Vicenza. Ci torneremo sopra. Lo spettacolo era l'"Edipo tiranno" di Sofocle nella traduzione di Orsatto Giustiniani, con il coordinamento scenico di Angelo Ingegneri, uno dei primi teorici della messa in scena. Ma il vero spettacolo, oltre la favola scenica rappresenta pur con un così alto investimento culturale, fu il teatro stesso e in particolare la scena. Impostata da Andrea Palladio e portata a compimento da Vincenzo Scamozzi dopo la morte del Palladio nel 1580, per conto dell'Accademia Olimpica, essa presentava la realizzazione piena delle idee di Vitruvio, l'architetto romano che nel suo trattato “De Architectura” aveva consegnato al Rinascimento l’utopia della “città antica” e, in essa, del “teatro antico”. Dunque: una scena costruita e non dipinta, fornita di tre porte - la “ianua” regia al centro e gli “hospitalia” ai lati - per l'ingresso dei personaggi, e raccordata alla platea da due corpi aggettanti agli estremi, le “versurae procurrentes”, vera croce degli interpreti di Vitruvio. In più, estranee al dettato vitruviano, tre scene prospettiche, sia pur di rilievo, nei vani delle tre porte. Un quadro di intensa suggestione, e di profonda complessità culturale, anche, per quell'accostamento tra illusionismo prospettico e tridimensionalismo architettonico da subito percepito - e poi storiograficamente riguardato - come una forzatura, se non una vera e propria insubordinazione esegetica. Un monumento insigne del teatro del Rinascimento, abbiamo detto. Se l’opposizione documento/monumento ha un senso concreto, l’ha in quanto distingue (non oppone) il certificare dal rammemorare. Il documento certifica, il monumento ricorda. La domanda allora è di cosa sia “memento” il Teatro Olimpico di Vicenza, visto che della sua “perpetua memoria” si fa esplicita menzione nel titolo. Al di là della vicenda interna all’Accademia, il Teatro Olimpico ricorda - io credo - la storia di una battaglia durata almeno un secolo, e vinta infine dalla cultura materiale del teatro, sull’astratta cultura dei libri da un lato, e sugli imperativi della prassi dall'altro. Dalla prima edizione del trattato di Vitruvio nel 1486 fino all’edizione definitiva di Daniele Barbaro con illustrazioni di Andrea Palladio, l’esegesi di Vitruvio fu il tentativo ostinato e continuo di non isolare la tradizione dall'innovazione, il passato dal presente: il valore culturale dall'uso. Non isolare, cioè far convivere, integrare, creare quello spazio di transizione che è per natura il luogo del teatro. Con quelle prospettive messe in scena, contro l’innovazione che avrebbe voluto al contrario mettere in prospettiva la scena, ma anche contro la tradizione che avrebbe voluto semplicemente escludere la prospettiva (antivitruviana) dalla scena vitruviana, l’Olimpico di Vicenza fu il monumento della cultura del teatro come “spazio di transizione”. Qual è il contributo del libro di Mazzoni a questo monumento? È un contributo per molti aspetti definitivo, attento alle coordinate molteplici dei dati presi in esame, orgoglioso delle sue acquisizioni documentarie ma mai frettoloso o disinvolto nel rivendicarle: insomma, un contributo essenziale, che nulla concede al luogo comune e ai discorsi a volo alto, o all’enfasi. E però nulla o quasi concede neppure al pathos: forse dimenticando che l’enfasi non è la naturale espressione del pathos, ma ne è proprio lo snaturamento. Rileggendo e soprattutto contestualizzando nei dettagli il manoscritto sull' “Accademia Olimpica” dell’abate Bartolomeo Ziggiotti, aggregando attorno a questa fonte primaria una mole di documenti inediti e malnoti, Stefano Mazzoni sviluppa argomentazioni inoppugnabili, esemplare quella che assegna una volta per tutte integralmente allo Scamozzi la paternità delle tre prospettive: appoggia il monumento dell'Olimpico su fondamenta sicure. La scelta del testo da rappresentare e i modi della sua messa in scena vengono restituiti all'intreccio reale di gusti, opportunità e idiosincrasie che li determinò; vengono giustamente sottratti alla predestinazione culturale, che spesso è solo l’alibi d’una ricerca pigra. E la ricostruzione della giornata inaugurale è un esercizio di realtà virtuale segnato dalla partecipazione in prima persona, con lui, Stefano Mazzoni finalmente spettatore: più consapevole e impegnato sì, ma per il resto postumo spettatore emozionato tra emozionati spettatori coevi. È questo il pathos, un gesto che fa bene alla qualità della scrittura oltre che all'equilibrio dello scrittore. Il rischio altrimenti è che il documento, come un’imponente impalcatura della quale venga scordata la funzione di servizio, finisca con l’eclissare il monumento che voleva sostenere».

L'Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria» / S. Mazzoni. - STAMPA. - (1998), pp. 1-305.

L'Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria»

MAZZONI, STEFANO
1998

Abstract

Recensione di Franco Ruffini, «L’Indice dei libri del mese», ottobre 1998, n. 9, p. 27: «Gli spettatori che il 3 marzo 1585, ultima domenica di Carnevale, dopo un'attesa di molte ore, assistettero allo spettacolo inaugurale del, Teatro Olimpico di Vicenza si trovarono di fronte a quello che è considerato uno dei monumenti più insigni del teatro del Rinascimento. La coppia monumento/documento è uno dei riferimenti metodologici più spesso invocati nell’importante libro di Stefano Mazzoni intitolato appunto all'Olimpico di Vicenza. Ci torneremo sopra. Lo spettacolo era l'"Edipo tiranno" di Sofocle nella traduzione di Orsatto Giustiniani, con il coordinamento scenico di Angelo Ingegneri, uno dei primi teorici della messa in scena. Ma il vero spettacolo, oltre la favola scenica rappresenta pur con un così alto investimento culturale, fu il teatro stesso e in particolare la scena. Impostata da Andrea Palladio e portata a compimento da Vincenzo Scamozzi dopo la morte del Palladio nel 1580, per conto dell'Accademia Olimpica, essa presentava la realizzazione piena delle idee di Vitruvio, l'architetto romano che nel suo trattato “De Architectura” aveva consegnato al Rinascimento l’utopia della “città antica” e, in essa, del “teatro antico”. Dunque: una scena costruita e non dipinta, fornita di tre porte - la “ianua” regia al centro e gli “hospitalia” ai lati - per l'ingresso dei personaggi, e raccordata alla platea da due corpi aggettanti agli estremi, le “versurae procurrentes”, vera croce degli interpreti di Vitruvio. In più, estranee al dettato vitruviano, tre scene prospettiche, sia pur di rilievo, nei vani delle tre porte. Un quadro di intensa suggestione, e di profonda complessità culturale, anche, per quell'accostamento tra illusionismo prospettico e tridimensionalismo architettonico da subito percepito - e poi storiograficamente riguardato - come una forzatura, se non una vera e propria insubordinazione esegetica. Un monumento insigne del teatro del Rinascimento, abbiamo detto. Se l’opposizione documento/monumento ha un senso concreto, l’ha in quanto distingue (non oppone) il certificare dal rammemorare. Il documento certifica, il monumento ricorda. La domanda allora è di cosa sia “memento” il Teatro Olimpico di Vicenza, visto che della sua “perpetua memoria” si fa esplicita menzione nel titolo. Al di là della vicenda interna all’Accademia, il Teatro Olimpico ricorda - io credo - la storia di una battaglia durata almeno un secolo, e vinta infine dalla cultura materiale del teatro, sull’astratta cultura dei libri da un lato, e sugli imperativi della prassi dall'altro. Dalla prima edizione del trattato di Vitruvio nel 1486 fino all’edizione definitiva di Daniele Barbaro con illustrazioni di Andrea Palladio, l’esegesi di Vitruvio fu il tentativo ostinato e continuo di non isolare la tradizione dall'innovazione, il passato dal presente: il valore culturale dall'uso. Non isolare, cioè far convivere, integrare, creare quello spazio di transizione che è per natura il luogo del teatro. Con quelle prospettive messe in scena, contro l’innovazione che avrebbe voluto al contrario mettere in prospettiva la scena, ma anche contro la tradizione che avrebbe voluto semplicemente escludere la prospettiva (antivitruviana) dalla scena vitruviana, l’Olimpico di Vicenza fu il monumento della cultura del teatro come “spazio di transizione”. Qual è il contributo del libro di Mazzoni a questo monumento? È un contributo per molti aspetti definitivo, attento alle coordinate molteplici dei dati presi in esame, orgoglioso delle sue acquisizioni documentarie ma mai frettoloso o disinvolto nel rivendicarle: insomma, un contributo essenziale, che nulla concede al luogo comune e ai discorsi a volo alto, o all’enfasi. E però nulla o quasi concede neppure al pathos: forse dimenticando che l’enfasi non è la naturale espressione del pathos, ma ne è proprio lo snaturamento. Rileggendo e soprattutto contestualizzando nei dettagli il manoscritto sull' “Accademia Olimpica” dell’abate Bartolomeo Ziggiotti, aggregando attorno a questa fonte primaria una mole di documenti inediti e malnoti, Stefano Mazzoni sviluppa argomentazioni inoppugnabili, esemplare quella che assegna una volta per tutte integralmente allo Scamozzi la paternità delle tre prospettive: appoggia il monumento dell'Olimpico su fondamenta sicure. La scelta del testo da rappresentare e i modi della sua messa in scena vengono restituiti all'intreccio reale di gusti, opportunità e idiosincrasie che li determinò; vengono giustamente sottratti alla predestinazione culturale, che spesso è solo l’alibi d’una ricerca pigra. E la ricostruzione della giornata inaugurale è un esercizio di realtà virtuale segnato dalla partecipazione in prima persona, con lui, Stefano Mazzoni finalmente spettatore: più consapevole e impegnato sì, ma per il resto postumo spettatore emozionato tra emozionati spettatori coevi. È questo il pathos, un gesto che fa bene alla qualità della scrittura oltre che all'equilibrio dello scrittore. Il rischio altrimenti è che il documento, come un’imponente impalcatura della quale venga scordata la funzione di servizio, finisca con l’eclissare il monumento che voleva sostenere».
1998
8871663241
1
305
S. Mazzoni
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