La versione ottocentesca dello Stato di diritto è legata all’idea che il giudice deve essere un potere “nullo” per dirla con Montesquieu. Il suo valore centrale è la certezza del diritto e la sua capacità di evitare ogni esercizio arbitrario del potere: un giudice che va oltre la lettera delle legge, che interpreta in modo creativo il diritto, in questo quadro tende ad esercitare il suo potere in modo arbitrario. A questa idea sono legati le reazioni della cultura giuridica statunitense, che ha preso sul serio la sfida dell’incertezza posta dalle correnti antiformalistiche di fine Ottocento e inizio Novecento, di individuare un criterio ulteriore (morale per Dworkin, economico per Possner) per guidare il giudice a scegliere la soluzione certa, tra la pluralità di soluzione che i canoni strettamente giuridici gli consentono di individuare. Questa smania di trovare una “regola” che il giudice deve seguire è profondamente viziata a mio parere da un’antropologia emotivista, per cui il soggetto è un groviglio di passioni che la sua sola razionalità non è in grado di tenere a bada, per il governo delle quali è fondamentale un vincolo esterno (la legge) che gli imponga di tenere un determinato comportamento. Contro questa tesi penso invece che ormai si debba prendere atto che l’interprete non esplicita un significato già dato dal testo, immanente ad esso e decifrabile come tale, ma lo attribuisce ad esso con un’operazione nella quale entrano in gioco le più varie determinazioni della sua personalità. Il carattere soggettivo e creativo dell’interpretazione non significa però che l’interprete sceglie in modo puramente decisionista (gioca a dadi con il significato) all’interno di un ventaglio indeterminato e illimitato di attribuzioni di senso. Sia le operazioni ermeneutiche svolte dall’interprete che il ventaglio dei significati attribuibili a un testo sono storicamente (socialmente e culturalmente) determinati. Questo ragionamento viene sviluppato mettendo a punto il concetto della ‘comunità degli interpreti’ sulla base della filosofia del linguaggio del secondo Wittengenstein. L’interprete non è un individuo isolato e autosufficiente che in sovrana solitudine fa del testo tutto ciò che decide di fare; egli agisce piuttosto come parte di una società, di una cultura, di uno specifico gruppo professionale e in quanto tale mette in atto strategie interpretative necessariamente condizionate dalle teorie, dai valori, dagli schemi argomentativi condivisi dalla comunità cui egli appartiene in una continua interazione “costitutiva” con essa. Dall’inevitabile ‘creatività’ dell’interpretazione giurisprudenziale discende l’impossibilità di riproporre come tale la teoria dello Stato di diritto, storicamente consegnata alla teoria del ‘sillogismo giudiziale’. Ma non è certo venuta meno l’esigenza di fondo che aveva storicamente stimolato la messa a punto della teoria dello Stato di diritto, anzi essa si ripropone con forza anche maggiore nel nostro presente: l’esigenza di difendere i diritti contro il potere, anzi contro i poteri (pubblici e privati). Se è vero allora che il protagonismo del giudiziario ha contribuito al collasso del vecchio Stato di diritto, una sua resurrezione o anzi reincarnazione deve muovere dall’assunto che l’interpretazione è, sì, creativa, ma è anche socialmente determinata e procede all’interno di un perimetro segnato dalle convinzioni condivise dal ceto socio-professionale di appartenenza). E questo è possibile se i giudici si fanno carico dell’esigenza per soddisfare la quale la vecchia teoria era stata formulata; e se essi assumono il linguaggio dei diritti come il perno delle loro operazioni interpretative, sfruttando il loro protagonismo in una direzione che li renda compiutamente indipendenti, come i loro cugini di common law, dalle ipoteche, sempre più deboli e contraddittorie, provenienti dal sistema politico.

Estado de derecho interpretación y jurisprudencia / e. santoro. - STAMPA. - (2010), pp. I-XV,1-133.

Estado de derecho interpretación y jurisprudencia

SANTORO, EMILIO
2010

Abstract

La versione ottocentesca dello Stato di diritto è legata all’idea che il giudice deve essere un potere “nullo” per dirla con Montesquieu. Il suo valore centrale è la certezza del diritto e la sua capacità di evitare ogni esercizio arbitrario del potere: un giudice che va oltre la lettera delle legge, che interpreta in modo creativo il diritto, in questo quadro tende ad esercitare il suo potere in modo arbitrario. A questa idea sono legati le reazioni della cultura giuridica statunitense, che ha preso sul serio la sfida dell’incertezza posta dalle correnti antiformalistiche di fine Ottocento e inizio Novecento, di individuare un criterio ulteriore (morale per Dworkin, economico per Possner) per guidare il giudice a scegliere la soluzione certa, tra la pluralità di soluzione che i canoni strettamente giuridici gli consentono di individuare. Questa smania di trovare una “regola” che il giudice deve seguire è profondamente viziata a mio parere da un’antropologia emotivista, per cui il soggetto è un groviglio di passioni che la sua sola razionalità non è in grado di tenere a bada, per il governo delle quali è fondamentale un vincolo esterno (la legge) che gli imponga di tenere un determinato comportamento. Contro questa tesi penso invece che ormai si debba prendere atto che l’interprete non esplicita un significato già dato dal testo, immanente ad esso e decifrabile come tale, ma lo attribuisce ad esso con un’operazione nella quale entrano in gioco le più varie determinazioni della sua personalità. Il carattere soggettivo e creativo dell’interpretazione non significa però che l’interprete sceglie in modo puramente decisionista (gioca a dadi con il significato) all’interno di un ventaglio indeterminato e illimitato di attribuzioni di senso. Sia le operazioni ermeneutiche svolte dall’interprete che il ventaglio dei significati attribuibili a un testo sono storicamente (socialmente e culturalmente) determinati. Questo ragionamento viene sviluppato mettendo a punto il concetto della ‘comunità degli interpreti’ sulla base della filosofia del linguaggio del secondo Wittengenstein. L’interprete non è un individuo isolato e autosufficiente che in sovrana solitudine fa del testo tutto ciò che decide di fare; egli agisce piuttosto come parte di una società, di una cultura, di uno specifico gruppo professionale e in quanto tale mette in atto strategie interpretative necessariamente condizionate dalle teorie, dai valori, dagli schemi argomentativi condivisi dalla comunità cui egli appartiene in una continua interazione “costitutiva” con essa. Dall’inevitabile ‘creatività’ dell’interpretazione giurisprudenziale discende l’impossibilità di riproporre come tale la teoria dello Stato di diritto, storicamente consegnata alla teoria del ‘sillogismo giudiziale’. Ma non è certo venuta meno l’esigenza di fondo che aveva storicamente stimolato la messa a punto della teoria dello Stato di diritto, anzi essa si ripropone con forza anche maggiore nel nostro presente: l’esigenza di difendere i diritti contro il potere, anzi contro i poteri (pubblici e privati). Se è vero allora che il protagonismo del giudiziario ha contribuito al collasso del vecchio Stato di diritto, una sua resurrezione o anzi reincarnazione deve muovere dall’assunto che l’interpretazione è, sì, creativa, ma è anche socialmente determinata e procede all’interno di un perimetro segnato dalle convinzioni condivise dal ceto socio-professionale di appartenenza). E questo è possibile se i giudici si fanno carico dell’esigenza per soddisfare la quale la vecchia teoria era stata formulata; e se essi assumono il linguaggio dei diritti come il perno delle loro operazioni interpretative, sfruttando il loro protagonismo in una direzione che li renda compiutamente indipendenti, come i loro cugini di common law, dalle ipoteche, sempre più deboli e contraddittorie, provenienti dal sistema politico.
2010
9786074682120
I-XV,1
133
e. santoro
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