In molti atenei e in molte scuole, in particolare di economia, c’è oggi l’ossessione di educare prevalentemente alla competizione. Ho sempre pensato che l’Università, e la Scuola di Architettura, dovrebbe invece educare alla conoscenza senza rinunciare alla competenza. Come avviene nelle nostre migliori Scuole di Architettura: per esempio a Firenze, ad Architettura, o a Milano, al Politecnico. “Architettura degli Allestimenti” di Gianni Ottolini, e la sua premessa disciplinare, da un lato mostrano come il Politecnico, attraverso la maggior parte dei suoi corsi (come quelli tenuti dallo stesso Ottolini, ma non solo, negli ultimi anni) si avvalga di una didattica e di una ricerca di eccellenza che operano nel senso dianzi precisato, dall’altro confortano su convinzioni di carattere generale ormai sempre meno condivise, sia nella realtà teorica che in quella operativa. Che l’insegnamento della progettazione architettonica non possa essere scisso tra composizione (progettazione) e tecnologia; che il disciplinare della progettazione non debba essere sezionato o suddiviso tra Composizione, Paesaggio, Interni; ebbene tutto ciò risulta evidente nelle pagine di Ottolini, così come nella sezione “Imparare Architettura” curata da Roberto Rizzi. Con precisione viene citata, da subito, la definizione di “scenografia” di Isabella Vesco, quale sintesi tra “progetto e realizzazione del contesto spaziale effimero in cui si svolge e si riflette la vita umana ricreata dagli attori sulla scena”. Che fa riandare con la memoria all’affermazione di Tafuri (1980) che l’unica preoccupazione dell’architetto è “rimanere sul palcoscenico agitandosi in modo grottesco per divertire una platea sempre più annoiata”. Comunque sia gli allestimenti, le problematiche specifiche connesse come il tema della comunicazione, i modelli stessi di allestimento (come i tanti qui illustrati elaborati da studenti con il supporto del Laboratorio di Modellistica Architettonica del Politecnico) ma soprattutto il rapporto con il contesto dell’allestimento consentono di affrontare in maniera diretta l’apparente “luogo comune” di cosa sia, o debba o dovrebbe essere, l’architettura. Adolf Loos scriveva nel 1909 che “Oggi la maggior parte degli edifici piace solo a due entità: il committente e l’architetto. Diversamente dall’opera artistica, che non deve piacere a nessuno, l’edificio deve piacere a tutti. Se l’opera d’arte appartiene alla sfera privata dell’artista, così non è per l’edificio”(…). Se l’opera d’arte nasce senza un bisogno, l’edificio soddisfa un’esigenza. Se l’opera d’arte non risponde ad alcuno, l’architettura rende conto a tutti”. Ma a quale tipo di architettura si riferisce Loos? A quella della semplicità che ha caratterizzato ogni epoca, soprattutto nell’ambito di quell’architettura urbana che, in contrapposizione all’opera d’arte, dovrebbe “piacere a tutti” proprio per dover “rendere conto” a quella collettività che affida all’architetto il compito di rappresentare in forme compiute una cultura che le appartiene. “Costruire un edificio diviene un atto necessario, rappresentarne il valore un atto civile1”. Quando è noto invece che le postmetropoli della contemporaneità sono sovente concepite in nome di una deriva formalista che fa assumere all’architetto il ruolo dello “stilista urbano che opera senza alcuna relazione di reciprocità se non quella della competizione, attraverso la particolare interpretazione della bigness, quale violenza espressiva. Perché per vincere la competizione bisogna stupire, essere diversi, anche se tanta diversità produce solo il rumore indistinto dell’uniformità2”. E così operando si privilegia il testo anziché il contesto. E ciò emerge, per chi lo sappia leggere, dalle pagine di un libro originale, che racconta criticamente l’architettura degli allestimenti nelle mostre, nelle “case-manifesto”, nei padiglioni espositivi, nei negozi, nei musei, dal 1923 a oggi. E non è un caso che la prima immagine del volume sia il soggiorno di una “Villa” per la VII Triennale di Milano di Franco Albini. Era il 1940 e la seconda guerra mondiale era iniziata da un anno….Ma questa è un’altra storia.

Architettura degli allestimenti (di Gianni Ottolini) / Manfredini, Alberto. - STAMPA. - (2017), pp. 1-78.

Architettura degli allestimenti (di Gianni Ottolini)

MANFREDINI, ALBERTO
2017

Abstract

In molti atenei e in molte scuole, in particolare di economia, c’è oggi l’ossessione di educare prevalentemente alla competizione. Ho sempre pensato che l’Università, e la Scuola di Architettura, dovrebbe invece educare alla conoscenza senza rinunciare alla competenza. Come avviene nelle nostre migliori Scuole di Architettura: per esempio a Firenze, ad Architettura, o a Milano, al Politecnico. “Architettura degli Allestimenti” di Gianni Ottolini, e la sua premessa disciplinare, da un lato mostrano come il Politecnico, attraverso la maggior parte dei suoi corsi (come quelli tenuti dallo stesso Ottolini, ma non solo, negli ultimi anni) si avvalga di una didattica e di una ricerca di eccellenza che operano nel senso dianzi precisato, dall’altro confortano su convinzioni di carattere generale ormai sempre meno condivise, sia nella realtà teorica che in quella operativa. Che l’insegnamento della progettazione architettonica non possa essere scisso tra composizione (progettazione) e tecnologia; che il disciplinare della progettazione non debba essere sezionato o suddiviso tra Composizione, Paesaggio, Interni; ebbene tutto ciò risulta evidente nelle pagine di Ottolini, così come nella sezione “Imparare Architettura” curata da Roberto Rizzi. Con precisione viene citata, da subito, la definizione di “scenografia” di Isabella Vesco, quale sintesi tra “progetto e realizzazione del contesto spaziale effimero in cui si svolge e si riflette la vita umana ricreata dagli attori sulla scena”. Che fa riandare con la memoria all’affermazione di Tafuri (1980) che l’unica preoccupazione dell’architetto è “rimanere sul palcoscenico agitandosi in modo grottesco per divertire una platea sempre più annoiata”. Comunque sia gli allestimenti, le problematiche specifiche connesse come il tema della comunicazione, i modelli stessi di allestimento (come i tanti qui illustrati elaborati da studenti con il supporto del Laboratorio di Modellistica Architettonica del Politecnico) ma soprattutto il rapporto con il contesto dell’allestimento consentono di affrontare in maniera diretta l’apparente “luogo comune” di cosa sia, o debba o dovrebbe essere, l’architettura. Adolf Loos scriveva nel 1909 che “Oggi la maggior parte degli edifici piace solo a due entità: il committente e l’architetto. Diversamente dall’opera artistica, che non deve piacere a nessuno, l’edificio deve piacere a tutti. Se l’opera d’arte appartiene alla sfera privata dell’artista, così non è per l’edificio”(…). Se l’opera d’arte nasce senza un bisogno, l’edificio soddisfa un’esigenza. Se l’opera d’arte non risponde ad alcuno, l’architettura rende conto a tutti”. Ma a quale tipo di architettura si riferisce Loos? A quella della semplicità che ha caratterizzato ogni epoca, soprattutto nell’ambito di quell’architettura urbana che, in contrapposizione all’opera d’arte, dovrebbe “piacere a tutti” proprio per dover “rendere conto” a quella collettività che affida all’architetto il compito di rappresentare in forme compiute una cultura che le appartiene. “Costruire un edificio diviene un atto necessario, rappresentarne il valore un atto civile1”. Quando è noto invece che le postmetropoli della contemporaneità sono sovente concepite in nome di una deriva formalista che fa assumere all’architetto il ruolo dello “stilista urbano che opera senza alcuna relazione di reciprocità se non quella della competizione, attraverso la particolare interpretazione della bigness, quale violenza espressiva. Perché per vincere la competizione bisogna stupire, essere diversi, anche se tanta diversità produce solo il rumore indistinto dell’uniformità2”. E così operando si privilegia il testo anziché il contesto. E ciò emerge, per chi lo sappia leggere, dalle pagine di un libro originale, che racconta criticamente l’architettura degli allestimenti nelle mostre, nelle “case-manifesto”, nei padiglioni espositivi, nei negozi, nei musei, dal 1923 a oggi. E non è un caso che la prima immagine del volume sia il soggiorno di una “Villa” per la VII Triennale di Milano di Franco Albini. Era il 1940 e la seconda guerra mondiale era iniziata da un anno….Ma questa è un’altra storia.
2017
9788898743971
Architettura degli allestimenti
1
78
Manfredini, Alberto
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