Negli scorsi tre decenni, il concetto di “radicamento” e il suo inverso – lo sradicamento – hanno avuto un ruolo fondamentale nella comprensione delle relazioni tra spazio geografico, società ed economia nello scenario segnato dall’avvento della globalizzazione e dal superamento del capitalismo fordista- keynesiano. Nelle scienze sociali, l’affermarsi di un’idea dello sviluppo capitalistico come alternarsi di processi di embeddedness – letteralmente “inserimento” o “incastonamento” – e dis-embededdness ha consentito di gettare nuova luce sul doppio movimento di radicamento e sradicamento socioterritoriale che storicamente caratterizza le economie e società capitalistiche, così come teorizzato da Karl Polanyi ne La Grande Trasformazione, il suo ormai classico affresco sulle “origini economiche e politiche del nostro tempo” (Polanyi, 2010). Non a caso, il libro di Polanyi è stato oggetto di una vivace riscoperta in anni più recenti (Somers, Block, 2014), come testo chiave per comprendere le conseguenze sociali della crisi finanziaria del 2008 e in particolar modo l’ambiguità del periodo di transizione post-recessione, sospeso tra tentazioni neo-keynesiane, derive nazional-populiste e resilienza neoliberale (Enright, Rossi, 2018). Per comprendere il senso attribuito alla lettura polanyiana qui proposta, è utile fare un passo indietro, risalendo in particolare ai momenti iniziali della transizione post-fordista, negli anni Novanta. In quella fase, la scoperta del fenomeno di radicamento socio-territoriale (e identitario) dei sistemi economici locali – il “risorgere delle regioni” teorizzato in geografia economica (Storper, 1995; Morgan, 1997) – consentì di leggere lo scenario dell’economia globalizzata in modo inedito rispetto alla vulgata dominante che metteva l’accento esclusivamente sui processi di delocalizzazione produttiva e omogeneizzazione socio-culturale associati alla globalizzazione (dal “mondo senza confini” di Kenichi Ohmae alla “fine della distanza” preconizzata dall’Economist). Secondo la prospettiva che si definì “neo-regionalista”, un complesso intreccio di relazioni, orizzontali e verticali, sociali ed ecologiche, lega le pratiche e le forme organizzative dell’economia di impresa a contesti sociali che sono storicamente e geograficamente determinati (Grabher, 1993; Amin, Thrift, 1995). Si riteneva in particolare che la riproposizione in chiave “neo-istituzionalista” dello sviluppo regionale potesse fornire un’alternativa, una “terza via”, rispetto alle rigidità tanto delle visioni neoliberali allora emergenti quanto di quelle keynesiane incentrate sul protagonismo incontrastato rispettivamente del mercato e dello Stato (Amin, 1999). Secondo questa visione, il radicamento delle strutture produttive e delle forme dell’agire sociale permette alle regioni, e in particolare agli attori economici che operano al loro interno, di stabilire relazioni autonome tra loro, dando vita non solo a coalizioni di interessi, ma a vere e proprie economie associative, specie nelle situazioni socialmente più coese. Le economie di associazione apparivano in grado di garantire una peculiare tenuta economico-sociale rispetto all’effetto di sradicamento indotto dall’internazionalizzazione incessante dell’attività economica e dalla contesa sempre più spietata per la competitività che ne deriva (Cooke, Morgan, 1998). In Italia, tali ipotesi teorico-interpretative trovarono terreno fertile di verifica sia nell’ambito delle politiche pubbliche sia in quello scientifico. A metà degli anni Novanta si inaugurò la stagione della cosiddetta Programmazione Negoziata, che insieme con le nuove politiche regionali europee riempì il vuoto di intervento lasciato dalla fine della stagione del “keynesismo territoriale” esemplificato in modo particolare dall’Intervento Straordinario per il Mezzogiorno nei decenni post-bellici (Rossi, Salone, 2014). Sul piano scientifico, la transizione post-fordista, con i suoi risvolti socio-territoriali, è stata oggetto di una vivace letteratura sullo “sviluppo locale”, erede della stagione di ricerche sulla Terza Italia e sui distretti industriali. La geografia ha svolto un ruolo significativo in tale fase, proponendo in particolare una teorizzazione dei sistemi locali territoriali quali entità volontarie di aggregazione degli interessi e di progettualità economico-sociale risultanti dalle relazioni collaborative che gli attori locali sono in grado di stabilire tra loro (Dematteis, Governa, 2005; Dansero, Giaccaria, Governa, 2008; Governa, 2014). La crisi finanziaria e la successiva “grande recessione” che hanno travolto l’economia mondiale nel 2008-2009 hanno tuttavia messo a nudo la fragilità dello sviluppo economico locale, soprattutto quello incentrato sull’industria manifatturiera. In Italia, in particolare, gli anni post-crisi hanno fatto registrare una pesante contrazione dell’attività economica che non ha risparmiato i distretti produttivi della Terza Italia, delineando un futuro “post-manifatturiero” per il nostro Paese fatto di crescita incontrollata nel consumo di suolo (Rondinone et al., 2013). La crisi economica globale si è innestata in uno scenario già profondamente segnato dall’avanzata della competizione globale, in seguito all’affermarsi delle cosiddette “economie emergenti” (a partire dai BRIC: Brasile, Russia, India, Cina, insieme a una schiera più ampia di paesi a forte crescita), capaci di mettere in discussione l’egemonia dei paesi occidentali. In tale contesto sono intervenuti gli effetti derivanti dall’avvento di una nuova generazione di tecnologie digitali, con la soppressione di molti posti di lavoro nel settore dei servizi che un tempo erano prerogativa della classe media e non erano stati intaccati dalla precedente fase di ristrutturazione negli anni Ottanta e Novanta. La globalizzazione intesa come “spazio dei flussi”, da questo punto di vista, sembra prevalere in modo inesorabile sulla globalizzazione intesa come “spazio dei luoghi”, così come era stata teorizzata dalla letteratura neo-regionalista negli anni Novanta. Tali trasformazioni inducono a interrogarsi sulla adeguatezza di strumenti teorico-analitici ereditati da quella stagione nella comprensione della realtà economico-territoriale scaturita dalla crisi economica globale del 2008 (Hadjimichalis, Hudson, 2014). La crisi del 2008 ha dunque impresso una nuova spinta al movimento polanyiano di embeddedness/ dis-embeddedness in seguito all’intensificarsi dei processi di ristrutturazione delle economie di mercato indotti dalla crisi. L’evoluzione dell’economia mondiale, sia nei suoi aspetti distruttivi (la crisi del 2008) sia in quelli “generativi” (l’avvento di una nuova generazione di tecnologie della comunicazione e la trasformazione conseguente del modo di fare impresa), ha eroso alle fondamenta l’economia post-fordista di prima generazione, così come l’avevamo conosciuta negli anni immediatamente successivi alla crisi di metà anni Settanta del Novecento. La formazione di catene del valore spalmate ormai nell’intero globo, la scomparsa di molti distretti di piccola e media impresa e il riposizionamento flessibile di quelli esistenti, l’emergere di una nuova “economia dell’esperienza” legata alla rete 2.0 e ai nuovi dispositivi tecnologici (per esempio, la cosiddetta sharing economy), la finanziarizzazione dell’economia, l’esplosione del turismo globale e l’avanzata della gentrification nei centri urbani, l’affermarsi di un’economia mondiale sempre più multi-polare: tali fenomeni lasciano senz’altro intendere un’inesorabile deterritorializzazione della società contemporanea. È pur vero, al tempo stesso, che il valore aggiunto che i luoghi e i sistemi territoriali sono in grado di offrire agli attori economici e sociali – dalla capacità istituzionale ai cosiddetti “ecosistemi dell’innovazione” – ha assunto una valenza perfino più importante rispetto al recente passato. Le scelte localizzative delle imprese innovative dipendono sempre più dalla capacità dei territori di imprimere una direzione certa ai processi di rigenerazione sociale, economica e culturale, sia nelle aree “centrali” sia in quelle che gli indicatori economici convenzionali considerano “in ritardo”. Tra gli ingredienti essenziali nei percorsi di rigenerazione economica oggi si annoverano una pluralità di fattori locali, tanto ereditati dal passato, quanto venutisi a creare ex novo grazie alla mobilitazione di saperi e capacità relazionali a livello territoriale: il senso di appartenenza ai luoghi, l’esistenza di comunità di pratiche e di “saper fare”, le dotazioni di istituzioni informali e intangibili, la propensione alla cooperazione spontanea, le reti formalizzate di scambio e, certamente non ultima per importanza, la disponibilità all’apertura verso l’esterno. La stessa contrapposizione tra aree “vincenti” e aree “perdenti” dal punto di vista economico che emerge nella geografia elettorale di molti paesi di capitalismo avanzato, con particolare evidenza negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia, ma anche in alcune aree urbane italiane (un tema ampiamente dibattuto nell’opinione pubblica all’indomani delle elezioni amministrative del 2016, soprattutto in riferimento a quelle di Roma e Torino), è la riprova dell’importanza immutata e per molti versi accresciuta dell’idea del place matters, vale a dire del principio secondo cui le condizioni geografico-territoriali sono decisive nelle traiettorie di sviluppo economico e nella conseguente definizione dei divari di sviluppo regionale. L’idea che “i luoghi contano” è oggi riconosciuta anche da studiosi di economia urbana e regionale di orientamento mainstream, come Richard Florida, Edward Glaeser, Enrico Moretti, secondo i quali la geografia dello sviluppo economico – e dunque la presenza di squilibri significativi nel grado di competitività territoriale – è oggi determinata in misura decisiva dall’attrattività che alcune città e regioni hanno rispetto ad altre, sotto il profilo dell’apertura e vivacità culturale (Florida, 2014), della qualità della vita (Glaeser, 2013) o della presenza di concentrazioni significative di “capitale umano” (Moretti, 2013). Secondo questi autori, le preferenze residenziali della classe creativa e degli altri lavoratori altamente qualificati o quelle dei consumatori sono decisive nella configurazione delle traiettorie di sviluppo economico locale e delle relative disparità regionali. I critici di questa interpretazione del place matters, dal canto loro, mettono l’accento sul fatto che tali teorie sono improntate a un principio di individualismo metodologico che assegna un primato incontrastato alle scelte individuali dei consumatori o dei lavoratori, omettendo di considerare l’importanza delle condizioni istituzionali dello sviluppo economico messa in evidenza dalla letteratura neo-istituzionalista di cui si è detto in precedenza (Storper, Scott, 2009; Peck, 2016). L’effetto pratico di tali interpretazioni del place matters è quello di rigettare in partenza interventi strutturali di regolamentazione pubblica, di tipo keynesiani a livello macroeconomico, o anche più settoriali, ad esempio nell’ambito del mercato immobiliare. L’impennata nei prezzi delle case in alcune località “competitive” è infatti oggi all’origine di nuovi processi di esclusione e vera e propria espulsione abitativa che colpiscono in misura crescente i ceti meno abbienti, generando un senso diffuso di risentimento sociale che si riflette a livello politico-elettorale nella cosiddetta “esplosione populista”. Il paradosso del tempo presente è dunque che la spinta alla valorizzazione territoriale dell’economia capitalistica, insita nell’idea del place matters, ha l’effetto di generare fenomeni di sradicamento sociale e conseguente snaturamento dell’identità dei luoghi dalle proporzioni inedite, soprattutto nelle grandi città più dinamiche a livello economico-imprenditoriale e in teoria culturalmente più aperte e tolleranti. Alla luce dello scenario fin qui delineato, il convegno tenutosi a Torino nel dicembre del 2016 – di cui qui si offrono i contributi scritti – ha inteso chiamare a raccolta la comunità di studiosi che in geografia e nelle discipline affini si occupano di tematiche di ricerca in grado di gettare luce sui processi in corso di radicamento e sradicamento socio-territoriale. La proposta del convegno muoveva da due convinzioni fondamentali. Da un lato, si intendeva richiamare l’attenzione sull’importanza del radicamento, non solo come prospettiva di analisi, ma anche come obiettivo dichiarato delle politiche pubbliche, in una fase storica segnata dal potere monopolistico esercitato da una ristretta cerchia di multinazionali del settore tecnologico (il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” che ormai plasma le nostre vite nelle sfere più disparate) e del capitale finanziario. Dall’altro lato, si metteva in guardia dal concepire i processi di ristrutturazione economica, sociale e territoriale esclusivamente in termini di rigida contrapposizione tra processi di radicamento e sradicamento. L’esperienza contemporanea, infatti, si caratterizza al tempo stesso per la tensione all’incontro e alla contaminazione dei fenomeni socio- economici con una molteplicità di relazioni e sfere di appartenenza. Tali tendenze hanno l’effetto di destabilizzare le relazioni univoche tra globale e locale, tra sradicamento e radicamento, innescando processi di ibridazione economica, sociale e istituzionale, per molti versi imprevedibili, che richiedono uno sguardo multi-direzionale, attento alle sfaccettature e ambivalenze del tempo presente. Muovendo da tale prospettiva, il convegno ha invitato alla presentazione di proposte di sessioni e singoli contributi di diverso orientamento tematico e metodologico, in uno spirito fortemente transdisciplinare. Obiettivo primario del convegno era, in sintesi, far emergere alcune manifestazioni significative del duplice movimento di (s)radicamento e apertura che caratterizza le società contemporanee in una fase quanto mai delicata di crisi e riconfigurazione della globalizzazione. I principali temi individuati nella circolare del convegno erano i seguenti: il fenomeno migratorio in Italia dopo la crisi economica e l’emergenza rifugiati, tra radicamento locale e circolazione transnazionale; la riscoperta e riterritorializzazione del cibo; le traiettorie di sviluppo economico locale alla scala urbana e regionale dopo la crisi economica globale; la politica degli eventi alla scala urbana; la riqualificazione del patrimonio territoriale; la resilienza ambientale tra imperativi globali e nuova opportunità di radicamento socio-territoriale; lo sviluppo turistico, tra valorizzazione e banalizzazione dei luoghi; il ruolo delle tecnologie dell’informazione nei processi di (s)radicamento territoriale; le geografie del lavoro e del capitale; gli usi temporanei dello spazio geografico. La risposta della comunità scientifica alla call for papers (e a quella preliminare for sessions) è stata decisamente gratificante, confermando il successo già ottenuto nelle precedenti cinque edizioni di “Oltre la globalizzazione”: le Giornate di Studio sulla geografia economica promosse dalla Società di Studi Geografici dal 2011 a oggi. Dalla richiesta di proposte di sessioni sono emersi infatti ben sedici panel (in cui sono state presentate centoquarantotto comunicazioni) i cui temi sono desumibili dall’indice di questa pubblicazione, che raccoglie oltre novanta contributi in quattordici sezioni. Ci auguriamo che questo appuntamento annuale continui nella sua crescita costante di popolarità all’interno della comunità geografica e tra tutti coloro – studiosi e più in generale persone variamente impegnate nella società civile e nelle politiche pubbliche – che hanno a cuore la dimensione territoriale dello sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese e del mondo globalizzato.

ON-FARM AND REGIONAL FACTORS AFFECTING THE PARTICIPATION OF FARMERS TO ALTERNATIVE FOOD NETWORKS / Randelli, F.; Rocchi, B.. - ELETTRONICO. - (2017), pp. 411-418.

ON-FARM AND REGIONAL FACTORS AFFECTING THE PARTICIPATION OF FARMERS TO ALTERNATIVE FOOD NETWORKS

Randelli F.
;
Rocchi B.
2017

Abstract

Negli scorsi tre decenni, il concetto di “radicamento” e il suo inverso – lo sradicamento – hanno avuto un ruolo fondamentale nella comprensione delle relazioni tra spazio geografico, società ed economia nello scenario segnato dall’avvento della globalizzazione e dal superamento del capitalismo fordista- keynesiano. Nelle scienze sociali, l’affermarsi di un’idea dello sviluppo capitalistico come alternarsi di processi di embeddedness – letteralmente “inserimento” o “incastonamento” – e dis-embededdness ha consentito di gettare nuova luce sul doppio movimento di radicamento e sradicamento socioterritoriale che storicamente caratterizza le economie e società capitalistiche, così come teorizzato da Karl Polanyi ne La Grande Trasformazione, il suo ormai classico affresco sulle “origini economiche e politiche del nostro tempo” (Polanyi, 2010). Non a caso, il libro di Polanyi è stato oggetto di una vivace riscoperta in anni più recenti (Somers, Block, 2014), come testo chiave per comprendere le conseguenze sociali della crisi finanziaria del 2008 e in particolar modo l’ambiguità del periodo di transizione post-recessione, sospeso tra tentazioni neo-keynesiane, derive nazional-populiste e resilienza neoliberale (Enright, Rossi, 2018). Per comprendere il senso attribuito alla lettura polanyiana qui proposta, è utile fare un passo indietro, risalendo in particolare ai momenti iniziali della transizione post-fordista, negli anni Novanta. In quella fase, la scoperta del fenomeno di radicamento socio-territoriale (e identitario) dei sistemi economici locali – il “risorgere delle regioni” teorizzato in geografia economica (Storper, 1995; Morgan, 1997) – consentì di leggere lo scenario dell’economia globalizzata in modo inedito rispetto alla vulgata dominante che metteva l’accento esclusivamente sui processi di delocalizzazione produttiva e omogeneizzazione socio-culturale associati alla globalizzazione (dal “mondo senza confini” di Kenichi Ohmae alla “fine della distanza” preconizzata dall’Economist). Secondo la prospettiva che si definì “neo-regionalista”, un complesso intreccio di relazioni, orizzontali e verticali, sociali ed ecologiche, lega le pratiche e le forme organizzative dell’economia di impresa a contesti sociali che sono storicamente e geograficamente determinati (Grabher, 1993; Amin, Thrift, 1995). Si riteneva in particolare che la riproposizione in chiave “neo-istituzionalista” dello sviluppo regionale potesse fornire un’alternativa, una “terza via”, rispetto alle rigidità tanto delle visioni neoliberali allora emergenti quanto di quelle keynesiane incentrate sul protagonismo incontrastato rispettivamente del mercato e dello Stato (Amin, 1999). Secondo questa visione, il radicamento delle strutture produttive e delle forme dell’agire sociale permette alle regioni, e in particolare agli attori economici che operano al loro interno, di stabilire relazioni autonome tra loro, dando vita non solo a coalizioni di interessi, ma a vere e proprie economie associative, specie nelle situazioni socialmente più coese. Le economie di associazione apparivano in grado di garantire una peculiare tenuta economico-sociale rispetto all’effetto di sradicamento indotto dall’internazionalizzazione incessante dell’attività economica e dalla contesa sempre più spietata per la competitività che ne deriva (Cooke, Morgan, 1998). In Italia, tali ipotesi teorico-interpretative trovarono terreno fertile di verifica sia nell’ambito delle politiche pubbliche sia in quello scientifico. A metà degli anni Novanta si inaugurò la stagione della cosiddetta Programmazione Negoziata, che insieme con le nuove politiche regionali europee riempì il vuoto di intervento lasciato dalla fine della stagione del “keynesismo territoriale” esemplificato in modo particolare dall’Intervento Straordinario per il Mezzogiorno nei decenni post-bellici (Rossi, Salone, 2014). Sul piano scientifico, la transizione post-fordista, con i suoi risvolti socio-territoriali, è stata oggetto di una vivace letteratura sullo “sviluppo locale”, erede della stagione di ricerche sulla Terza Italia e sui distretti industriali. La geografia ha svolto un ruolo significativo in tale fase, proponendo in particolare una teorizzazione dei sistemi locali territoriali quali entità volontarie di aggregazione degli interessi e di progettualità economico-sociale risultanti dalle relazioni collaborative che gli attori locali sono in grado di stabilire tra loro (Dematteis, Governa, 2005; Dansero, Giaccaria, Governa, 2008; Governa, 2014). La crisi finanziaria e la successiva “grande recessione” che hanno travolto l’economia mondiale nel 2008-2009 hanno tuttavia messo a nudo la fragilità dello sviluppo economico locale, soprattutto quello incentrato sull’industria manifatturiera. In Italia, in particolare, gli anni post-crisi hanno fatto registrare una pesante contrazione dell’attività economica che non ha risparmiato i distretti produttivi della Terza Italia, delineando un futuro “post-manifatturiero” per il nostro Paese fatto di crescita incontrollata nel consumo di suolo (Rondinone et al., 2013). La crisi economica globale si è innestata in uno scenario già profondamente segnato dall’avanzata della competizione globale, in seguito all’affermarsi delle cosiddette “economie emergenti” (a partire dai BRIC: Brasile, Russia, India, Cina, insieme a una schiera più ampia di paesi a forte crescita), capaci di mettere in discussione l’egemonia dei paesi occidentali. In tale contesto sono intervenuti gli effetti derivanti dall’avvento di una nuova generazione di tecnologie digitali, con la soppressione di molti posti di lavoro nel settore dei servizi che un tempo erano prerogativa della classe media e non erano stati intaccati dalla precedente fase di ristrutturazione negli anni Ottanta e Novanta. La globalizzazione intesa come “spazio dei flussi”, da questo punto di vista, sembra prevalere in modo inesorabile sulla globalizzazione intesa come “spazio dei luoghi”, così come era stata teorizzata dalla letteratura neo-regionalista negli anni Novanta. Tali trasformazioni inducono a interrogarsi sulla adeguatezza di strumenti teorico-analitici ereditati da quella stagione nella comprensione della realtà economico-territoriale scaturita dalla crisi economica globale del 2008 (Hadjimichalis, Hudson, 2014). La crisi del 2008 ha dunque impresso una nuova spinta al movimento polanyiano di embeddedness/ dis-embeddedness in seguito all’intensificarsi dei processi di ristrutturazione delle economie di mercato indotti dalla crisi. L’evoluzione dell’economia mondiale, sia nei suoi aspetti distruttivi (la crisi del 2008) sia in quelli “generativi” (l’avvento di una nuova generazione di tecnologie della comunicazione e la trasformazione conseguente del modo di fare impresa), ha eroso alle fondamenta l’economia post-fordista di prima generazione, così come l’avevamo conosciuta negli anni immediatamente successivi alla crisi di metà anni Settanta del Novecento. La formazione di catene del valore spalmate ormai nell’intero globo, la scomparsa di molti distretti di piccola e media impresa e il riposizionamento flessibile di quelli esistenti, l’emergere di una nuova “economia dell’esperienza” legata alla rete 2.0 e ai nuovi dispositivi tecnologici (per esempio, la cosiddetta sharing economy), la finanziarizzazione dell’economia, l’esplosione del turismo globale e l’avanzata della gentrification nei centri urbani, l’affermarsi di un’economia mondiale sempre più multi-polare: tali fenomeni lasciano senz’altro intendere un’inesorabile deterritorializzazione della società contemporanea. È pur vero, al tempo stesso, che il valore aggiunto che i luoghi e i sistemi territoriali sono in grado di offrire agli attori economici e sociali – dalla capacità istituzionale ai cosiddetti “ecosistemi dell’innovazione” – ha assunto una valenza perfino più importante rispetto al recente passato. Le scelte localizzative delle imprese innovative dipendono sempre più dalla capacità dei territori di imprimere una direzione certa ai processi di rigenerazione sociale, economica e culturale, sia nelle aree “centrali” sia in quelle che gli indicatori economici convenzionali considerano “in ritardo”. Tra gli ingredienti essenziali nei percorsi di rigenerazione economica oggi si annoverano una pluralità di fattori locali, tanto ereditati dal passato, quanto venutisi a creare ex novo grazie alla mobilitazione di saperi e capacità relazionali a livello territoriale: il senso di appartenenza ai luoghi, l’esistenza di comunità di pratiche e di “saper fare”, le dotazioni di istituzioni informali e intangibili, la propensione alla cooperazione spontanea, le reti formalizzate di scambio e, certamente non ultima per importanza, la disponibilità all’apertura verso l’esterno. La stessa contrapposizione tra aree “vincenti” e aree “perdenti” dal punto di vista economico che emerge nella geografia elettorale di molti paesi di capitalismo avanzato, con particolare evidenza negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia, ma anche in alcune aree urbane italiane (un tema ampiamente dibattuto nell’opinione pubblica all’indomani delle elezioni amministrative del 2016, soprattutto in riferimento a quelle di Roma e Torino), è la riprova dell’importanza immutata e per molti versi accresciuta dell’idea del place matters, vale a dire del principio secondo cui le condizioni geografico-territoriali sono decisive nelle traiettorie di sviluppo economico e nella conseguente definizione dei divari di sviluppo regionale. L’idea che “i luoghi contano” è oggi riconosciuta anche da studiosi di economia urbana e regionale di orientamento mainstream, come Richard Florida, Edward Glaeser, Enrico Moretti, secondo i quali la geografia dello sviluppo economico – e dunque la presenza di squilibri significativi nel grado di competitività territoriale – è oggi determinata in misura decisiva dall’attrattività che alcune città e regioni hanno rispetto ad altre, sotto il profilo dell’apertura e vivacità culturale (Florida, 2014), della qualità della vita (Glaeser, 2013) o della presenza di concentrazioni significative di “capitale umano” (Moretti, 2013). Secondo questi autori, le preferenze residenziali della classe creativa e degli altri lavoratori altamente qualificati o quelle dei consumatori sono decisive nella configurazione delle traiettorie di sviluppo economico locale e delle relative disparità regionali. I critici di questa interpretazione del place matters, dal canto loro, mettono l’accento sul fatto che tali teorie sono improntate a un principio di individualismo metodologico che assegna un primato incontrastato alle scelte individuali dei consumatori o dei lavoratori, omettendo di considerare l’importanza delle condizioni istituzionali dello sviluppo economico messa in evidenza dalla letteratura neo-istituzionalista di cui si è detto in precedenza (Storper, Scott, 2009; Peck, 2016). L’effetto pratico di tali interpretazioni del place matters è quello di rigettare in partenza interventi strutturali di regolamentazione pubblica, di tipo keynesiani a livello macroeconomico, o anche più settoriali, ad esempio nell’ambito del mercato immobiliare. L’impennata nei prezzi delle case in alcune località “competitive” è infatti oggi all’origine di nuovi processi di esclusione e vera e propria espulsione abitativa che colpiscono in misura crescente i ceti meno abbienti, generando un senso diffuso di risentimento sociale che si riflette a livello politico-elettorale nella cosiddetta “esplosione populista”. Il paradosso del tempo presente è dunque che la spinta alla valorizzazione territoriale dell’economia capitalistica, insita nell’idea del place matters, ha l’effetto di generare fenomeni di sradicamento sociale e conseguente snaturamento dell’identità dei luoghi dalle proporzioni inedite, soprattutto nelle grandi città più dinamiche a livello economico-imprenditoriale e in teoria culturalmente più aperte e tolleranti. Alla luce dello scenario fin qui delineato, il convegno tenutosi a Torino nel dicembre del 2016 – di cui qui si offrono i contributi scritti – ha inteso chiamare a raccolta la comunità di studiosi che in geografia e nelle discipline affini si occupano di tematiche di ricerca in grado di gettare luce sui processi in corso di radicamento e sradicamento socio-territoriale. La proposta del convegno muoveva da due convinzioni fondamentali. Da un lato, si intendeva richiamare l’attenzione sull’importanza del radicamento, non solo come prospettiva di analisi, ma anche come obiettivo dichiarato delle politiche pubbliche, in una fase storica segnata dal potere monopolistico esercitato da una ristretta cerchia di multinazionali del settore tecnologico (il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” che ormai plasma le nostre vite nelle sfere più disparate) e del capitale finanziario. Dall’altro lato, si metteva in guardia dal concepire i processi di ristrutturazione economica, sociale e territoriale esclusivamente in termini di rigida contrapposizione tra processi di radicamento e sradicamento. L’esperienza contemporanea, infatti, si caratterizza al tempo stesso per la tensione all’incontro e alla contaminazione dei fenomeni socio- economici con una molteplicità di relazioni e sfere di appartenenza. Tali tendenze hanno l’effetto di destabilizzare le relazioni univoche tra globale e locale, tra sradicamento e radicamento, innescando processi di ibridazione economica, sociale e istituzionale, per molti versi imprevedibili, che richiedono uno sguardo multi-direzionale, attento alle sfaccettature e ambivalenze del tempo presente. Muovendo da tale prospettiva, il convegno ha invitato alla presentazione di proposte di sessioni e singoli contributi di diverso orientamento tematico e metodologico, in uno spirito fortemente transdisciplinare. Obiettivo primario del convegno era, in sintesi, far emergere alcune manifestazioni significative del duplice movimento di (s)radicamento e apertura che caratterizza le società contemporanee in una fase quanto mai delicata di crisi e riconfigurazione della globalizzazione. I principali temi individuati nella circolare del convegno erano i seguenti: il fenomeno migratorio in Italia dopo la crisi economica e l’emergenza rifugiati, tra radicamento locale e circolazione transnazionale; la riscoperta e riterritorializzazione del cibo; le traiettorie di sviluppo economico locale alla scala urbana e regionale dopo la crisi economica globale; la politica degli eventi alla scala urbana; la riqualificazione del patrimonio territoriale; la resilienza ambientale tra imperativi globali e nuova opportunità di radicamento socio-territoriale; lo sviluppo turistico, tra valorizzazione e banalizzazione dei luoghi; il ruolo delle tecnologie dell’informazione nei processi di (s)radicamento territoriale; le geografie del lavoro e del capitale; gli usi temporanei dello spazio geografico. La risposta della comunità scientifica alla call for papers (e a quella preliminare for sessions) è stata decisamente gratificante, confermando il successo già ottenuto nelle precedenti cinque edizioni di “Oltre la globalizzazione”: le Giornate di Studio sulla geografia economica promosse dalla Società di Studi Geografici dal 2011 a oggi. Dalla richiesta di proposte di sessioni sono emersi infatti ben sedici panel (in cui sono state presentate centoquarantotto comunicazioni) i cui temi sono desumibili dall’indice di questa pubblicazione, che raccoglie oltre novanta contributi in quattordici sezioni. Ci auguriamo che questo appuntamento annuale continui nella sua crescita costante di popolarità all’interno della comunità geografica e tra tutti coloro – studiosi e più in generale persone variamente impegnate nella società civile e nelle politiche pubbliche – che hanno a cuore la dimensione territoriale dello sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese e del mondo globalizzato.
2017
978-88-908926-3-9
(S)radicamenti
411
418
Randelli, F.; Rocchi, B.
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