È corretto parlare di una politica economica degli Stati di antico regime? Di un complesso, cioè, di “interventi adottati dall'operatore pubblico per indirizzare l'andamento dell'economia verso gli obiettivi desiderati”, come si trova descritta nell’Enciclopedia Treccani ? Pur mancando della consapevolezza e della cultura economica proprie della contemporaneità, fu l’emergere delle grandi monarchie nazionali tra il Sedicesimo e il Diciottesimo secolo a segnare l’introduzione di una serie di manovre in materia economica mirate a rafforzare l’unità statale e a “fare dell'incremento della ricchezza nazionale uno strumento per aumentare la forza dello stato nei suoi rapporti con l'estero” (per usare le parole di Gino Luzzatto). Quest’insieme di interventi, identificati ed etichettati in seguito dai fisiocrati – in chiave critica – come politiche “mercantilistiche”, non scaturì da un sistema organico di dottrine né si rifece a una meditata teoria economica, ma fu spesso la concretizzazione delle nuove necessità che lo stato moderno si trovò a dover soddisfare. Il fenomeno mosse i primi incerti passi, almeno in Italia, nei grandi comuni e nelle signorie del Quattordicesimo secolo: il passaggio da parte del monarca medievale da “primo dei feudatari” a unico sovrano di tutto lo stato, che si consolidò nel Quattrocento, portò con sé funzioni e bisogni fino ad allora sconosciuti: la necessità di formare una burocrazia professionale e un esercito indipendente dai poteri locali, il bisogno di rappresentanze diplomatiche volte ad affermare il potere sovrano nei confronti degli altri stati, la creazione di opere e servizi pubblici – pur in una forma ancora essenziale. Queste nuove prerogative portarono i governi, configurati sia in forma monarchica che repubblicana, a interessarsi ai problemi economici del paese inteso nella sua interezza. Per assicurare la potenza dello stato – assicurata dalla forza militare – il mezzo fondamentale fu individuato nell’aumento della ricchezza nazionale da raggiungersi con l’intensificazione della produzione e degli scambi con l’esterno. La stabilizzazione della situazione politica italiana della seconda metà del Quattrocento concesse alle classi di governo la possibilità di perseguire tali scopi in modo più coerente, sebbene non sistematico. Non è possibile in questa sede ricordare, nemmeno a grandi linee, l’intenso e secolare dibattito sul ruolo e l’incidenza delle politiche statali nella vita economica dei paesi dell’età moderna. Basti qui accennare alla contrapposizione tra chi – accogliendo in parte la visione degli economisti classici – ha interpretato i provvedimenti di stampo mercantilistico come concessioni da parte dei governi di monopoli (volti ad aumentare il gettito fiscale), e quindi di rendite di posizione appannaggio dei gruppi sociali più influenti, e coloro che hanno invece ravvisato in questi strumenti (che spesso assumevano la forma di “privilegi”, intesi qui in un’accezione molto ampia) un ruolo positivo nella promozione dello sviluppo tecnologico e non solo, pur declinato secondo modalità e intensità diverse a seconda del contesto istituzionale ed economico. In particolare, il “privilegio” non avrebbe necessariamente sempre indicato l’emergere di un “monopolio”. Il mercantilismo potrebbe dunque essere inteso come una serie di misure empiriche adottate dagli stati per promuovere l’eccedenza della bilancia commerciale e garantire la sostenibilità dell’offerta, in alcuni casi ostacolando la concorrenza sul mercato e in altri incoraggiandola, ma sempre attraverso accordi “privati” tra governi e singoli o gruppi di individui. La moltiplicazione delle capacità produttive poteva quindi essere vista dalle autorità pubbliche come un ottimo sistema per il sostegno dell’economia interna, poiché in grado di fornire fonti di reddito per gli artigiani, per i mercanti e per lo stato stesso, attraverso l’aumento del gettito fiscale. I sovrani, consapevoli del ruolo fondamentale svolto dagli artigiani qualificati nella prosperità economica di un territorio, intuirono l’importanza di politiche volte ad attrarre manifatture e manifattori dall’esterno; mediante l’importazione di tecniche produttive, questi avrebbero dato vita a nuove lavorazioni e contribuito allo sviluppo generale. I provvedimenti potevano consistere in una serie di incentivi, premi di incoraggiamento, sedi di lavoro garantite, condizioni economiche particolarmente favorevoli, agevolazioni fiscali come permessi di importazione o di esportazione liberi da dazi, e così via. Alla luce di questi indubbi e allettanti vantaggi (nonché a seguito di situazioni contingenti come guerre o persecuzioni religiose), gli artigiani potevano lasciarsi convincere a spostarsi dai propri paesi e azzardare la fortuna altrove. Non a caso tutti gli stati, sin dal tardo medioevo, avevano tentato di proteggere i loro territori dall’emorragia di manodopera qualificata attraverso una normativa, spesso molto rigida, volta ad evitare anche in maniera coatta l’emigrazione di artigiani. I governi, in Italia come in Europa, conclusero che un’ulteriore strategia da adottare per incoraggiare il cambiamento tecnologico fosse la protezione dei diritti di proprietà degli inventori il cui contributo potesse rivelarsi importante per il benessere dello stato. Quando una nazione si sentiva in qualche modo indietro rispetto a un avversario, dedicava i propri sforzi a recuperare tale ritardo, anche creando un ambiente congeniale agli artigiani specializzati tramite appositi strumenti di natura politica e normativa. Il know-how tecnico andò dunque ad aggiungersi alle armi strategiche a disposizione di una nazione per difendersi dalla concorrenza degli altri stati. Altre motivazioni che a partire del Cinquecento potevano accoppiarsi alla necessità di sviluppo tecnologico erano collegate alla competizione tra città e stati per il prestigio e la preminenza politica da combattere anche attraverso l’introduzione di specifiche arti, specialmente di quelle che usavano materiali pregiati quali oro e seta o che imitavano i beni di lusso esotici. Non solo, potevano entrare in gioco anche questioni di carattere sociale e religioso. In particolare i valori propugnati dalla Riforma spinsero i governi alla creazione di imprese industriali che potessero fornire a particolari strati “deboli” della popolazione (trovatelli allevati dagli istituti di carità, poveri), in crescita dopo l’esplosione demografica del tempo, un’occupazione remunerativa e allo stesso tempo utile all’economia dello stato. L’inizio dell’età moderna, quindi, vide l’introduzione di una fondamentale innovazione istituzionale che si rivelò un potente stimolo alla mobilità della forza lavoro specializzata: la creazione da parte di quasi tutti gli stati europei di leggi e regolamenti volti a premiare e salvaguardare l’invenzione; la consapevolezza dell’importanza della creatività tecnica per la crescita economica portò gli stati ad attuare politiche volte ad attrarre e tutelare chi fosse ritenuto una fonte di attività manifatturiere innovative.

I privilegi come strumento di politica economica nell’Italia della prima Età Moderna / ammannati francesco. - ELETTRONICO. - (2019), pp. 17-38.

I privilegi come strumento di politica economica nell’Italia della prima Età Moderna

ammannati francesco
2019

Abstract

È corretto parlare di una politica economica degli Stati di antico regime? Di un complesso, cioè, di “interventi adottati dall'operatore pubblico per indirizzare l'andamento dell'economia verso gli obiettivi desiderati”, come si trova descritta nell’Enciclopedia Treccani ? Pur mancando della consapevolezza e della cultura economica proprie della contemporaneità, fu l’emergere delle grandi monarchie nazionali tra il Sedicesimo e il Diciottesimo secolo a segnare l’introduzione di una serie di manovre in materia economica mirate a rafforzare l’unità statale e a “fare dell'incremento della ricchezza nazionale uno strumento per aumentare la forza dello stato nei suoi rapporti con l'estero” (per usare le parole di Gino Luzzatto). Quest’insieme di interventi, identificati ed etichettati in seguito dai fisiocrati – in chiave critica – come politiche “mercantilistiche”, non scaturì da un sistema organico di dottrine né si rifece a una meditata teoria economica, ma fu spesso la concretizzazione delle nuove necessità che lo stato moderno si trovò a dover soddisfare. Il fenomeno mosse i primi incerti passi, almeno in Italia, nei grandi comuni e nelle signorie del Quattordicesimo secolo: il passaggio da parte del monarca medievale da “primo dei feudatari” a unico sovrano di tutto lo stato, che si consolidò nel Quattrocento, portò con sé funzioni e bisogni fino ad allora sconosciuti: la necessità di formare una burocrazia professionale e un esercito indipendente dai poteri locali, il bisogno di rappresentanze diplomatiche volte ad affermare il potere sovrano nei confronti degli altri stati, la creazione di opere e servizi pubblici – pur in una forma ancora essenziale. Queste nuove prerogative portarono i governi, configurati sia in forma monarchica che repubblicana, a interessarsi ai problemi economici del paese inteso nella sua interezza. Per assicurare la potenza dello stato – assicurata dalla forza militare – il mezzo fondamentale fu individuato nell’aumento della ricchezza nazionale da raggiungersi con l’intensificazione della produzione e degli scambi con l’esterno. La stabilizzazione della situazione politica italiana della seconda metà del Quattrocento concesse alle classi di governo la possibilità di perseguire tali scopi in modo più coerente, sebbene non sistematico. Non è possibile in questa sede ricordare, nemmeno a grandi linee, l’intenso e secolare dibattito sul ruolo e l’incidenza delle politiche statali nella vita economica dei paesi dell’età moderna. Basti qui accennare alla contrapposizione tra chi – accogliendo in parte la visione degli economisti classici – ha interpretato i provvedimenti di stampo mercantilistico come concessioni da parte dei governi di monopoli (volti ad aumentare il gettito fiscale), e quindi di rendite di posizione appannaggio dei gruppi sociali più influenti, e coloro che hanno invece ravvisato in questi strumenti (che spesso assumevano la forma di “privilegi”, intesi qui in un’accezione molto ampia) un ruolo positivo nella promozione dello sviluppo tecnologico e non solo, pur declinato secondo modalità e intensità diverse a seconda del contesto istituzionale ed economico. In particolare, il “privilegio” non avrebbe necessariamente sempre indicato l’emergere di un “monopolio”. Il mercantilismo potrebbe dunque essere inteso come una serie di misure empiriche adottate dagli stati per promuovere l’eccedenza della bilancia commerciale e garantire la sostenibilità dell’offerta, in alcuni casi ostacolando la concorrenza sul mercato e in altri incoraggiandola, ma sempre attraverso accordi “privati” tra governi e singoli o gruppi di individui. La moltiplicazione delle capacità produttive poteva quindi essere vista dalle autorità pubbliche come un ottimo sistema per il sostegno dell’economia interna, poiché in grado di fornire fonti di reddito per gli artigiani, per i mercanti e per lo stato stesso, attraverso l’aumento del gettito fiscale. I sovrani, consapevoli del ruolo fondamentale svolto dagli artigiani qualificati nella prosperità economica di un territorio, intuirono l’importanza di politiche volte ad attrarre manifatture e manifattori dall’esterno; mediante l’importazione di tecniche produttive, questi avrebbero dato vita a nuove lavorazioni e contribuito allo sviluppo generale. I provvedimenti potevano consistere in una serie di incentivi, premi di incoraggiamento, sedi di lavoro garantite, condizioni economiche particolarmente favorevoli, agevolazioni fiscali come permessi di importazione o di esportazione liberi da dazi, e così via. Alla luce di questi indubbi e allettanti vantaggi (nonché a seguito di situazioni contingenti come guerre o persecuzioni religiose), gli artigiani potevano lasciarsi convincere a spostarsi dai propri paesi e azzardare la fortuna altrove. Non a caso tutti gli stati, sin dal tardo medioevo, avevano tentato di proteggere i loro territori dall’emorragia di manodopera qualificata attraverso una normativa, spesso molto rigida, volta ad evitare anche in maniera coatta l’emigrazione di artigiani. I governi, in Italia come in Europa, conclusero che un’ulteriore strategia da adottare per incoraggiare il cambiamento tecnologico fosse la protezione dei diritti di proprietà degli inventori il cui contributo potesse rivelarsi importante per il benessere dello stato. Quando una nazione si sentiva in qualche modo indietro rispetto a un avversario, dedicava i propri sforzi a recuperare tale ritardo, anche creando un ambiente congeniale agli artigiani specializzati tramite appositi strumenti di natura politica e normativa. Il know-how tecnico andò dunque ad aggiungersi alle armi strategiche a disposizione di una nazione per difendersi dalla concorrenza degli altri stati. Altre motivazioni che a partire del Cinquecento potevano accoppiarsi alla necessità di sviluppo tecnologico erano collegate alla competizione tra città e stati per il prestigio e la preminenza politica da combattere anche attraverso l’introduzione di specifiche arti, specialmente di quelle che usavano materiali pregiati quali oro e seta o che imitavano i beni di lusso esotici. Non solo, potevano entrare in gioco anche questioni di carattere sociale e religioso. In particolare i valori propugnati dalla Riforma spinsero i governi alla creazione di imprese industriali che potessero fornire a particolari strati “deboli” della popolazione (trovatelli allevati dagli istituti di carità, poveri), in crescita dopo l’esplosione demografica del tempo, un’occupazione remunerativa e allo stesso tempo utile all’economia dello stato. L’inizio dell’età moderna, quindi, vide l’introduzione di una fondamentale innovazione istituzionale che si rivelò un potente stimolo alla mobilità della forza lavoro specializzata: la creazione da parte di quasi tutti gli stati europei di leggi e regolamenti volti a premiare e salvaguardare l’invenzione; la consapevolezza dell’importanza della creatività tecnica per la crescita economica portò gli stati ad attuare politiche volte ad attrarre e tutelare chi fosse ritenuto una fonte di attività manifatturiere innovative.
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