I fenomeni del femminicidio e della violenza patriarcale nelle rappresentazioni dei media e nei discorsi politici – nonostante persistano narrazioni mainstream di carattere emergenziale e improntate al sensazionalismo che continuano a ridurli a dimensione privata, quasi medicalizzata, passione amorosa disfunzionale o tratti abnormi di personalità individualizzate – hanno acquisito grande rilevanza e attirato l’attenzione pubblica verso un graduale riconoscimento della loro determinazione politico-sociale e culturale. Raccogliere a livello internazionale in modo sistematico e omogeneo dati statistici sui fenomeni della violenza patriarcale e del femminicidio così da contrastarli e prevenirne il perpetuarsi è tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Questo traguardo coinvolge anche l’Italia dove, per esempio, i dati ufficiali sui femminicidi, forniti da report a cura dell’Istat e del Ministero dell’Interno, sono aggiornati con tempistiche diverse e non seguono nella stesura gli stessi criteri metodologici. Sono tuttavia più che comprensibili quelle strategie retoriche di presentazione del problema che fanno leva quasi necessariamente sui numeri e su uno stile talvolta iperbolico per segnalare l’esigenza di azioni e cambiamenti radicali. È aumentata la visibilità del femminicidio nella cronaca giornalistica, soprattutto nella versione online delle testate nazionali (solo per citare alcuni titoli: “Femminicidi, i numeri del massacro: in Italia uno ogni tre giorni”; “L’odio contro le donne ci circonda, ogni tre giorni una viene uccisa: cosa stiamo sbagliando?”; “Femminicidi, l’inizio del 2024 è da incubo: uno ogni due giorni”) così come i monitoraggi sulla violenza patriarcale realizzati da regioni, servizi territoriali e associazioni. Una delle sfide ancora aperte riguarda la dimensione simbolica della costruzione del femminicidio e della violenza patriarcale come problemi sociali, educativi e culturali, cioè l’esplicitazione dei presupposti ordinari della vita quotidiana in cui permane un sessismo sistemico istituzionalizzato. In un momento storico segnato da un ritorno di atteggiamenti patriarcali e forme di suprematismo, nuove generazioni di attiviste, dalle Xenofemministe al movimento Non Una Di Meno, portano avanti le lotte delle donne e di persone LGBTQ+, al fianco di celebrità femministe come Beyoncé e Lady Gaga. Femministe, attiviste per l’emancipazione, antirazziste sono entrate a far parte della cultura popolare contemporanea. Ciò che trent’anni fa sarebbe stato considerato blasfemo, oggi è banalità, trasmessa in diretta streaming sui nostri schermi. Questo numero della Rivista Educational Reflective Practices è interessato a raccogliere i contributi di ricercatrici e ricercatori – impegnati nell’ambito delle teorie femministe, queer, LBGTQ+, degli studi post e decoloniali, delle teorie critiche sulla razza, del neomaterialismo, degli studi ecocritici, di quelli su diversità, equità e inclusione, sulla letteratura per l’infanzia, sull’apprendimento adulto – che condividono la convinzione secondo cui le università debbano correre il rischio della complessità contro semplificazioni populiste e assumersi la responsabilità di svelare la verità del potere per essere all’altezza delle contraddizioni della tarda postmodernità, promuovendo un’educazione antisessista e intersezionale. Dietro l’invito echeggiano le parole provocatorie di bell hooks che nel volume Feminism is for Everybody (2015) ha messo in evidenza come dagli anni Ottanta la legittimazione accademica del pensiero femminista, benché cruciale per la sua affermazione, abbia creato un gergo elitario interessato a produrre teorie comprensibili agli/alle “addetti/e ai lavori”. L’autrice insiste nel pericolo che il pensiero femminista “accademizzato” (2015: 62) possa essere privato di ogni radicalità e si allontani da pratiche di autocoscienza e introspezione collettiva senza le quali diviene perlopiù impossibile misurarsi con il sessismo interiorizzato a cui tutti/e siamo stati/e socializzati/e. In qualità di studiose di processi di apprendimento adulto e docenti in corsi di studio che preparano a professioni educative e di insegnamento abbiamo fatte nostre queste preoccupazioni e abbiamo aperto linee di indagine per esplorare come: (1) sviluppare identità bianche antirazziste e femministe; (2) divenire consapevoli di assunti distorti e pregiudizi radicati nel nostro privilegio bianco; (3) promuovere pensiero critico e creatività per aumentare le capacità visionarie e contribuire a realizzare progetti trasformativi, radicali e decoloniali volti ad affermare positivamente le differenze tra persone marginalizzate che vivono lungo molteplici assi di disuguaglianza. Ciò implica riconoscere che nessuna traiettoria emancipativa, per quanto parziale, possa mai essere completamente incorporata o inclusa nelle condizioni di vita socio-economiche dominanti, a cui è legata da un’opposizione critica. In linea con la tradizione culturale della Rivista, anche in questo numero l’interesse è rivolto a promuovere un dibattito postdisciplinare. La postdisplinarietà è assunta come principio trasformativo cruciale per costruire in modo più trasgressivo saperi accademici che interrompano e destabilizzino il potere egemonico delle distinzioni disciplinari e delle gerarchie gnoseologiche che strutturano le divisioni accademiche tra scienze umane, sociali e naturali. L’invito è a dar luogo, attraverso un lavoro collettivo, a conversazioni trasversali tra diversi approcci a questioni di interesse comune, inquadrate in modi non binari.
Dovremmo essere tuttə femministə. Pratiche di conoscenza e nuove forme di responsabilità / Fabbri Loretta, Bracci Francesca, Bosco Nicolina. - In: EDUCATIONAL REFLECTIVE PRACTICES. - ISSN 2279-9605. - ELETTRONICO. - (2024).
Dovremmo essere tuttə femministə. Pratiche di conoscenza e nuove forme di responsabilità
Fabbri Loretta
;Bracci Francesca
;Bosco Nicolina
2024
Abstract
I fenomeni del femminicidio e della violenza patriarcale nelle rappresentazioni dei media e nei discorsi politici – nonostante persistano narrazioni mainstream di carattere emergenziale e improntate al sensazionalismo che continuano a ridurli a dimensione privata, quasi medicalizzata, passione amorosa disfunzionale o tratti abnormi di personalità individualizzate – hanno acquisito grande rilevanza e attirato l’attenzione pubblica verso un graduale riconoscimento della loro determinazione politico-sociale e culturale. Raccogliere a livello internazionale in modo sistematico e omogeneo dati statistici sui fenomeni della violenza patriarcale e del femminicidio così da contrastarli e prevenirne il perpetuarsi è tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Questo traguardo coinvolge anche l’Italia dove, per esempio, i dati ufficiali sui femminicidi, forniti da report a cura dell’Istat e del Ministero dell’Interno, sono aggiornati con tempistiche diverse e non seguono nella stesura gli stessi criteri metodologici. Sono tuttavia più che comprensibili quelle strategie retoriche di presentazione del problema che fanno leva quasi necessariamente sui numeri e su uno stile talvolta iperbolico per segnalare l’esigenza di azioni e cambiamenti radicali. È aumentata la visibilità del femminicidio nella cronaca giornalistica, soprattutto nella versione online delle testate nazionali (solo per citare alcuni titoli: “Femminicidi, i numeri del massacro: in Italia uno ogni tre giorni”; “L’odio contro le donne ci circonda, ogni tre giorni una viene uccisa: cosa stiamo sbagliando?”; “Femminicidi, l’inizio del 2024 è da incubo: uno ogni due giorni”) così come i monitoraggi sulla violenza patriarcale realizzati da regioni, servizi territoriali e associazioni. Una delle sfide ancora aperte riguarda la dimensione simbolica della costruzione del femminicidio e della violenza patriarcale come problemi sociali, educativi e culturali, cioè l’esplicitazione dei presupposti ordinari della vita quotidiana in cui permane un sessismo sistemico istituzionalizzato. In un momento storico segnato da un ritorno di atteggiamenti patriarcali e forme di suprematismo, nuove generazioni di attiviste, dalle Xenofemministe al movimento Non Una Di Meno, portano avanti le lotte delle donne e di persone LGBTQ+, al fianco di celebrità femministe come Beyoncé e Lady Gaga. Femministe, attiviste per l’emancipazione, antirazziste sono entrate a far parte della cultura popolare contemporanea. Ciò che trent’anni fa sarebbe stato considerato blasfemo, oggi è banalità, trasmessa in diretta streaming sui nostri schermi. Questo numero della Rivista Educational Reflective Practices è interessato a raccogliere i contributi di ricercatrici e ricercatori – impegnati nell’ambito delle teorie femministe, queer, LBGTQ+, degli studi post e decoloniali, delle teorie critiche sulla razza, del neomaterialismo, degli studi ecocritici, di quelli su diversità, equità e inclusione, sulla letteratura per l’infanzia, sull’apprendimento adulto – che condividono la convinzione secondo cui le università debbano correre il rischio della complessità contro semplificazioni populiste e assumersi la responsabilità di svelare la verità del potere per essere all’altezza delle contraddizioni della tarda postmodernità, promuovendo un’educazione antisessista e intersezionale. Dietro l’invito echeggiano le parole provocatorie di bell hooks che nel volume Feminism is for Everybody (2015) ha messo in evidenza come dagli anni Ottanta la legittimazione accademica del pensiero femminista, benché cruciale per la sua affermazione, abbia creato un gergo elitario interessato a produrre teorie comprensibili agli/alle “addetti/e ai lavori”. L’autrice insiste nel pericolo che il pensiero femminista “accademizzato” (2015: 62) possa essere privato di ogni radicalità e si allontani da pratiche di autocoscienza e introspezione collettiva senza le quali diviene perlopiù impossibile misurarsi con il sessismo interiorizzato a cui tutti/e siamo stati/e socializzati/e. In qualità di studiose di processi di apprendimento adulto e docenti in corsi di studio che preparano a professioni educative e di insegnamento abbiamo fatte nostre queste preoccupazioni e abbiamo aperto linee di indagine per esplorare come: (1) sviluppare identità bianche antirazziste e femministe; (2) divenire consapevoli di assunti distorti e pregiudizi radicati nel nostro privilegio bianco; (3) promuovere pensiero critico e creatività per aumentare le capacità visionarie e contribuire a realizzare progetti trasformativi, radicali e decoloniali volti ad affermare positivamente le differenze tra persone marginalizzate che vivono lungo molteplici assi di disuguaglianza. Ciò implica riconoscere che nessuna traiettoria emancipativa, per quanto parziale, possa mai essere completamente incorporata o inclusa nelle condizioni di vita socio-economiche dominanti, a cui è legata da un’opposizione critica. In linea con la tradizione culturale della Rivista, anche in questo numero l’interesse è rivolto a promuovere un dibattito postdisciplinare. La postdisplinarietà è assunta come principio trasformativo cruciale per costruire in modo più trasgressivo saperi accademici che interrompano e destabilizzino il potere egemonico delle distinzioni disciplinari e delle gerarchie gnoseologiche che strutturano le divisioni accademiche tra scienze umane, sociali e naturali. L’invito è a dar luogo, attraverso un lavoro collettivo, a conversazioni trasversali tra diversi approcci a questioni di interesse comune, inquadrate in modi non binari.File | Dimensione | Formato | |
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