Tra i molti fatti che Cicerone rimprovera a C. Verre nel processo che vide quest’ultimo imputato di concussione, si rinvengono fattispecie legate all’amministrazione della giustizia nel tempo in cui Verre era stato pretore a Roma. Secondo la tesi dell’oratore, quel pretore avrebbe in un caso interpretato con strumentale rigidità il dettato di una antica legge ormai dimenticata, per il solo fatto che ciò gli consentiva, in un caso concretamente dedotto presso il suo tribunale, di stornare una ricca eredità dall’un successibile all’altro, previo naturalmente mercimonio dell’ufficio. Cicerone coltiva e fomenta lo sdegno dei giurati toccando tasti non lontani da una sensibilità giusnaturalistica: il successibile mancato era infatti la figlia dell’ereditando, quello invece favorito ne era semplicemente collaterale. Il saggio stigmatizza il ragionamento dell’oratore, muovendo dal fatto che in effetti una legge aveva vietato in taluni casi la possibilità per un padre di istituire erede la figlia e che perciò il fatto stesso della non successione tra costoro non poteva, su di un piano giuridico, essere assunto a fondamento di tanto sdegno. Neppure il profilo della lamentata retroattività del provvedimanto magistratuale sembra cogliere nel segno, atteso che l’editto di Verre era di interpretazione di una legge formalmente vigente e che lo stesso si presentava servente l’applicazione di questa, fermi i limiti temporali di applicazione importati dalla legge stessa. Nell’ambito di quello che, nei limiti di quanto riferisce Cicerone, appare essere un provvedimento onorario tutt’altro che mal confezionato, il saggio evidenzia un livello preliminare alla materiale stesura dell’editto, sul quale è potuto forse maturare il dolo del magistrato: l’estensione del divieto della antica legge a ogni cittadino parimenti ricco, indipendentemente dal suo essere o meno censito, appare giustificato ove la legge sia intesa di tipo sostanzialmente suntuario, mentre appare inopportuno se la stessa viene letta, come in letteratura sembra ormai dover essere, come un mezzo di conservazione dell’assetto del comizio centuriato e degli equilibri numerici interni alle classi sociali, messi potenzialmente a rischio in caso di passaggio di rilevanti patrimoni da mani maschili a mani femminili.

cum intellegam legem voconiam. il ruolo del pretore circa l'apprezzamento della ricorrenza dei presupposti di applicazione della legge / G. Gulina. - STAMPA. - (2010), pp. 122-155.

cum intellegam legem voconiam. il ruolo del pretore circa l'apprezzamento della ricorrenza dei presupposti di applicazione della legge

GULINA, GIOVANNI
2010

Abstract

Tra i molti fatti che Cicerone rimprovera a C. Verre nel processo che vide quest’ultimo imputato di concussione, si rinvengono fattispecie legate all’amministrazione della giustizia nel tempo in cui Verre era stato pretore a Roma. Secondo la tesi dell’oratore, quel pretore avrebbe in un caso interpretato con strumentale rigidità il dettato di una antica legge ormai dimenticata, per il solo fatto che ciò gli consentiva, in un caso concretamente dedotto presso il suo tribunale, di stornare una ricca eredità dall’un successibile all’altro, previo naturalmente mercimonio dell’ufficio. Cicerone coltiva e fomenta lo sdegno dei giurati toccando tasti non lontani da una sensibilità giusnaturalistica: il successibile mancato era infatti la figlia dell’ereditando, quello invece favorito ne era semplicemente collaterale. Il saggio stigmatizza il ragionamento dell’oratore, muovendo dal fatto che in effetti una legge aveva vietato in taluni casi la possibilità per un padre di istituire erede la figlia e che perciò il fatto stesso della non successione tra costoro non poteva, su di un piano giuridico, essere assunto a fondamento di tanto sdegno. Neppure il profilo della lamentata retroattività del provvedimanto magistratuale sembra cogliere nel segno, atteso che l’editto di Verre era di interpretazione di una legge formalmente vigente e che lo stesso si presentava servente l’applicazione di questa, fermi i limiti temporali di applicazione importati dalla legge stessa. Nell’ambito di quello che, nei limiti di quanto riferisce Cicerone, appare essere un provvedimento onorario tutt’altro che mal confezionato, il saggio evidenzia un livello preliminare alla materiale stesura dell’editto, sul quale è potuto forse maturare il dolo del magistrato: l’estensione del divieto della antica legge a ogni cittadino parimenti ricco, indipendentemente dal suo essere o meno censito, appare giustificato ove la legge sia intesa di tipo sostanzialmente suntuario, mentre appare inopportuno se la stessa viene letta, come in letteratura sembra ormai dover essere, come un mezzo di conservazione dell’assetto del comizio centuriato e degli equilibri numerici interni alle classi sociali, messi potenzialmente a rischio in caso di passaggio di rilevanti patrimoni da mani maschili a mani femminili.
2010
iuris quidditas. liber amicorum per bernardo santalucia
122
155
G. Gulina
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