ABSTRACT inglese The present thesis reflects several aspects of my work at the Florence Referral Center for Cardiomyopathy and Careggi University Hospital during the last 3 years. The leading theme is the effort to embrace the complexities of cardiomyopathies using a translational approach ranging from clinical to imaging, to genetics, to basic science. Section 2 focuses on genotype-‐phenotype correlations in two specific disease models (thin filament-‐associated HCM and Anderson Fabry disease) and the impact of next generation sequencing on the diagnosis of clinically challenging cardiomyopathies. Section 3 deals with the hypothesis that environmental modifiers may exert a significant impact on phenotype and clinical course, by addressing one of the most prevalent cardiovascularrisk factor in the western world, i.e. obesity, in HCM patients undergoing cardiac magnetic resonance imaging. Section 4 addresses clinical markers of risk and predictors of outcome in patients with HCM (by evaluating the value of NT-‐pro BNP and late gadolinium enhancement as a clinical barometers of disease progression and arrhythmic risk), DCM (assessing the impact of advances in management on outcome), and an acquired model of myocardial disease involving cell-‐ mediated immunity – Chagas cardiomyopathy. Section 5 illustrates novel therapeutic approaches that are being developed for patients with HCM and Anderson-‐Fabry disease, and a critical reappraisal of a well-‐ established – but not perfect– preventive option such as the implantable cardioverter defibrillator. Finally, in my conclusive remarks, I will outline work that is presently ongoing and future directions for research to be pursued in Florence. ABSTRACT italiano La presente tesi riflette svariati aspetti del mio lavoro presso il Centro di Riferimento per le Cardiomiopatie di Firenze e l’ospedale universitario di Careggi, portati avanti nel corso dei tre anni di dottorato. Il tema centrale è rappresentato dallo sforzo di abbracciare la complessità delle cardiomiopatie, attraverso un approccio traslazionale che comprende la clinica, l’imaging, la genetica e le scienze di base. La tesi è suddivisa in 5 sezioni, finalizzate nel loro insieme a ricostruire il percorso seguito durante il dottorato. Ogni sezione è organizzata in capitoli, all’interno dei quali vengono affrontati ed esposti i risultati dei singoli progetti di ricerca seguiti negli ultimi tre anni. La sezione introduttiva è dedicata ad un inquadramento generale delle cardiomiopatie, con un breve excursus dei cambiamenti storici che hanno portato alla creazione della classificazione attuale. Vengono inoltre elucidate le principali alterazioni molecolari principalmente coinvolte nella patogenesi delle cardiomiopatie, e viene proposto il razionale dell’utilizzo delle conoscenze ottenute mediante l’integrazione di dati clinici, molecolari e genetici, nello sviluppo di nuovi target terapeutici. Tale sezione sottolinea inoltre l’importanza di una medicina basata sull’evidenza, anche nel campo delle cardiomiopatie. Infatti, nonostante siano trascorsi oltre 50 anni dalle prime descrizioni in letteratura, dopo lunghi anni dedicati alla loro descrizione e caratterizzazione clinica, genetica e molecolare, le cardiomiopatie restano patologie “orfane” da un punto di vista terapeutico, che resta tutt’oggi guidato da esperienze personali. Dopo 5 decadi di empirismo appassionato, la speranza è che stia iniziando anche per i pazienti con cardiomiopatie genetiche l’era della medicina basata sull’evidenza. La seconda sezione si focalizza sull’analisi delle correlazioni genotipo-fenotipo in due particolari modelli di malattia: la malattia di Anderson-Fabry e la cardiomiopatia ipertrofica associata a mutazioni nel filamento sottile. Nel primo caso viene illustrato uno studio condotto presso il centro di riferimento delle cardiomiopatie di Firenze su un gruppo di pazienti affetti da malattia di Anderson-Fabry, una patologia da accumulo lisosomiale, a trasmissione X-linked. In tale studio la valutazione del flusso coronarico massimale mediante PET viene proposta come indagine diagnostica in grado di identificare i pazienti con coinvolgimento cardiaco precoce. Nei pazienti studiati, il flusso miocardico massimale (dopo infusione di dipiridamolo) risultava significativamente ridotto rispetto ai controlli, in particolare nei pazienti che non avevano altra evidenza di coinvolgimento cardiaco (all’ecocardiografia ed alla risonanza magnetica). Il capitolo sulla cardiomiopatia ipertrofica associata a mutazioni del filamento sottile analizza lo spettro fenotipico e l’outcome di questo particolare sottogruppo di pazienti, numericamente inferiore rispetto a quelli con mutazioni nel filamento spesso, ma con una prognosi diversa. I pazienti con mutazioni del filamento sottile avevano un grado di ipertrofia complessivamente inferiore, ma una disfunzione diastolica più severa ed una probabilità superiore di andare incontro a progressione di malattia (in particolare verso la disfunzione sistolica). La prima sezione si conclude poi con una descrizione della nostra esperienza con le nuove tecniche di indagine genetica, note come “next generation sequencing”. A differenza delle tecniche di sequenziamento genico standard, tale metodica permette l’analisi di ampie porzioni di DNA, fino ad arrivare all’analisi dell’esoma o dell’intero genoma, in tempi rapidi e con costi di gran lunga inferiori rispetto al passato. Le tecniche tradizionali inoltre permettevano di analizzare un numero limitato di geni, che venivano selezionati in base alla diagnosi clinica. Il test genetico non poteva quindi essere applicato in quei casi di espressione fenotipica “atipica” o in cardiomiopatie non classificabili in nessuna delle sottoclassi note. Le tecniche di NGS invece permettono l’analisi genetica di ampi pannelli di geni, che comprendono virtualmente tutti i geni noti associati a cardiomiopatie, aiutando talvolta la definizione diagnostica dei fenotipi non classificabili clinicamente. In questo capitolo vengono descritte 4 famiglie con fenotipi diversi, in cui l’analisi mediante NGS di un pannello definito di geni (oltre 100) oppure dell’intero esoma, ci ha consentito di porre una diagnosi certa. La terza sezione analizza l’impatto dei modificatori ambientali sull’espressione del fenotipo clinico nel campo di cardiomiopatie geneticamente determinate. In particolare viene esposto uno studio multicentrico portato avanti dal nostro centro di Firenze in collaborazione con il centro delle cardiomiopatie di Boston, che ha definito il ruolo dell’obesità nella modulazione dell’espressione clinica e dell’outcome dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Complessivamente i pazienti obesi risultavano avere una massa miocardica maggiore, una prevalenza superiore di ostruzione al tratto di efflusso del ventricolo sinistro, ed un rischio maggiore di progressione clinica verso classi funzionali avanzate (NYHA III/IV) in assenza di ostruzione dinamica o disfunzione sistolica. Pertanto, la prevenzione di fattori di rischio cardiovascolari “comuni”, quali l’obesità, risulta di cruciale importanza anche nel paziente con cardiomiopatie genetiche. La quarta sezione descrive i marcatori clinici di rischio ed i predittori di outcome in pazienti con cardiomiopatia ipertrofica, dilatativa idiopatica e malattia di Chagas. Due sono i marcatori di rischio analizzati per la cariomiopatia ipertrofica: la presenza di fibrosi miocardica identificata mediante risonanza magnetica cardiaca come strumento per la stratificazione del rischio di morte improvvisa, e il valore sierico di NT-proBNP come indice di stabilità clinica. Nel primo caso, viene descritto un progetto ambizioso iniziato circa 5 anni fa, grazie alla collaborazione di 5 centri di riferimento europei ed americani. L’analisi delle RMN di 1300 pazienti con cardiomiopatia ipertrofica ha infatti permesso di comprendere che l’estensione delle aree di “late gadolinium enhancement”, indice di fibrosi miocardica, correla con il rischio di eventi aritmici maggiori e con il rischio di progressione di malattia verso la disfunzione sistolica. L’importanza di tale dato, oltre al numero di pazienti che costituisce la più grande coorte di pazienti sistematicamente analizzata fino ad oggi, risiede nel fatto che il grado di estensione della fibrosi, e non tanto la sua mera presenza, rappresentano un vero marker di rischio. Tale indice può quindi aggiungersi agli altri markers di rischio storicamente noti (come lo spessore miocardico massimo, l’età, la presenza di aritmie ventricolari all’holter, etc) nella valutazione multiparametrica quotidianamente utilizzata in clinica, al fine di stratificare il rischio del paziente e di valutare la necessità ed il rapporto rischio/beneficio nell’impianto di un defibrillatore. Nel secondo paragrafo viene invece esposto il lavoro portato avanti su un gruppo di pazienti nei quali è stato sistematicamente misurato il livello di NT-proBNP, noto biomarker utilizzato in cardiologia per la diagnosi e la stratificazione prognostica dei pazienti con scompenso cardiaco. Nei nostri pazienti, l’utilità del NT-proBNP è risultata essere legata piuttosto al suo valore predittivo negativo: infatti, i pazienti con valori bassi (<310) risultavano quelli con prognosi più favorevole e minor rischio di eventi clinici sfavorevoli, come scompenso cardiaco o necessità di ospedalizzazione. Tali valori pertanto sono indice di una stabilità clinica del paziente, e possono essere utilizzati in tal senso nelle decisioni terapeutiche e nel loro timing. Valori elevati di NT-proBNP al contrario, rappresentano una “bandiera rossa” alquanto aspecifica, che non è abbastanza sensibile da riuscire ad individuare con esattezza i pazienti con rischio elevato di eventi cardiovascolari maggiori. Spostando l’attenzione dalla cardiomiopatia ipertrofica a quella dilatativa idiopatica, vengono successivamente esposti i dati di uno studio “storico” del centro di Firenze, da sempre dedito ad entrambi i tipi di malattie primitive del miocardio. Il lavoro espone una dettagliata descrizione del decorso clinico e dell’outcome di oltre 600 pazienti con diagnosi di cardiomiopatia dilatativa idiopatica (tutti con coronarografia negativa), seguiti per oltre 30 anni dallo stesso team di cardiologi. I quattro periodi di arruolamento in cui sono stati suddivisi i pazienti, riflette l’andamento storico della terapia dello scompenso cardiaco: l’epoca di diuretici e digossina (n.1), l’introduzione degli ACE-inibitori/inibitori del recettore per l’angiotensina (n.2), l’inizio dell’utilizzo dei beta-bloccanti (n.3) e infine l’epoca dei device “salvavita” (n.4). Lo studio evidenza un generale trend di miglioramento nei pazienti arruolati nei periodi 3-4, con una netta riduzione della mortalità per cause cardiovascolari, riduzione degli eventi clinici maggiori, in parallelo al miglioramento della classe funzionale ed alla frazione di eiezione. Mentre l’utilità della terapia anti- scompenso, come indicata dalle linee guida, è stata ampiamente dimostrata nei pazienti con cardiopatia dilatativa post-ischemica, nei grandi trials clinici i pazienti con CMD primitiva sono di solito scarsamente rappresentati. Tali dati pertanto rappresentano la descrizione di una casistica “pura” e reale, a dimostrazione del fatto che i trials clinici possono essere replicati nel mondo reale. La sezione si conclude con la descrizione di due casi clinici di pazienti affetti da malattia di Chagas, malattia infettiva tropicale che può presentare nella sua fase cronica, un interessamento cardiaco con sviluppo di cardiomiopatia ipocinetico-dilatativa ed alto rischio di morte improvvisa. La malattia di Chagas è endemica in Sud-America, rendendola pertanto una patologia di “rara” osservazione nel nostro continente. Tuttavia, il costante aumento dell’immigrazione degli ultimi decenni rende necessaria una conoscenza “internazionale” delle patologie cardiache, che rischiano di non essere poi così rare anche nei paesi cosiddetti “non endemici”. Alla descrizione dei due casi clinici segue una breve analisi della patogenesi, della diagnosi e del trattamento della cardiomiopatia da Chagas. La quinta ed ultima sezione illustra approcci terapeutici, più o meno innovativi, nei pazienti con malattie primitive del miocardio. Nel primo paragrafo viene illustrato il razionale dell’utilizzo di un farmaco, ben noto e utilizzato da alcuni anni nei pazienti con cardiopatia ischemica, nei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Dati preclinici ottenuti presso il laboratorio di fisiologia e farmacologia dell’università di Firenze, hanno dimostrato l’utilità della ranolazina nel modificare il substrato elettrofisiologico dei miocardiociti dei pazienti. Gli esperimenti sono stati condotti direttamente su cellule miocardiche di pazienti con CMI, che venivano sottoposti all’intervento chirurgico di miectomia settale come terapia per l’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro. Sulla base di tali dati altamente promettenti, è stato disegnato uno studio clinico randomizzato e multicentrico, attualmente in corso, per analizzare l’impatto della ranolazina sulla riduzione dei sintomi, della disfunzione diastolica e del burden aritmico dei pazienti con CMI. Il successivo paragrafo illustra l’impatto di una terapia ormai ben affermata, ma non perfetta, per il trattamento del più temibile degli eventi nei pazienti con cardiomioaptia: la morte improvvisa. L’analisi è stata condotta su 250 pazienti con cardiomiopatia ipertrofica, tutti con genotipo positivo, riducendo così il rischio di includere nella casistica delle “fenocopie” ossia pazienti con ipertrofia ventricolare sinistra non dovuta a mutazioni nei geni sarcomerici, che potrebbero confondere la storia naturale e l’outcome. I risultati dello studio illlustrano come l’ICD sia sicuramente un approccio terapeutico utile nel normalizzare la sopravvivenza in un sottogruppo di pazienti ad alto rischio. Tuttavia, in considerazione del suo utilizzo in prevenzione primaria ed in pazienti molto giovani (caratteristiche molto frequenti nei pazienti con CMI), devono essere presi in considerazione e condivisi con i pazienti, anche i possibili rischi legati a tale scelta. Infatti la percentuale di complicanze, come ematoma della tasca, infezione o rottura dei cateteri endovenosi, interventi inappropriati del device, risultavano elevati ed in numero superiore rispetto agli interventi appropriati (e pertanto “salvavita”). La quinta sezione si conclude con la descrizione di un nuovo approccio terapeutico per i pazienti con malattia di Anderson Fabry, rappresentato dalle molecole chaperoniche. In tale patologia, la presenza di una mutazione nel gene che codifica per l’enzima lisosomiale alfa-galattosidasi, determina la produzione di una proteina strutturalmente alterata. Tale proteina viene quindi degradata all’interno della cellula, causando quindi un accumulo dei prodotti di degradazione (glicosfingolipidi). Le molecole chaperoniche sono in grado di legarsi all’enzima “modificato” rendendolo chimicamente stabile e cambiandone la conformazione strutturale mediante legame al suo sito attivo. In tal modo l’enzima non viene degradato dal sistema di “controllo di qualità” presente all’interno delle cellule e viene trasportato all’interno del lisosoma dove può eseguire la sua azione biologica di catabolismo lipidico. Il grande vantaggio rispetto alla terapia enzimatica sostitutiva endovenosa, considerata il gold-standard per tali pazienti, è rappresentato dal fatto che tali molecole possono essere assunte per os e hanno pochissimi effetti collaterali. Sono pertanto in corso alcuni studi volti a provare l’efficacia di tali molecole ed il nostro centro partecipa attivamente ad uno di questi (studio ATTRACT). Infine, nelle conclusioni, viene brevemente esposto il lavoro che attualmente è in corso presso il centro di Firenze, sottolineando la necessità di nuovi approcci terapeutici e la speranza di poter finalmente iniziare, anche nel campo delle cardiomiopatie, un’epoca di medicina basata sull’evidenza.
Confronting the archipelago of primary myocardial diseases: from the comprehension of genetic basis, molecular mechanisms and clinical correlates to the development of novel therapeutic approaches / BENEDETTA TOMBERLI. - (2014).
Confronting the archipelago of primary myocardial diseases: from the comprehension of genetic basis, molecular mechanisms and clinical correlates to the development of novel therapeutic approaches.
TOMBERLI, BENEDETTA
2014
Abstract
ABSTRACT inglese The present thesis reflects several aspects of my work at the Florence Referral Center for Cardiomyopathy and Careggi University Hospital during the last 3 years. The leading theme is the effort to embrace the complexities of cardiomyopathies using a translational approach ranging from clinical to imaging, to genetics, to basic science. Section 2 focuses on genotype-‐phenotype correlations in two specific disease models (thin filament-‐associated HCM and Anderson Fabry disease) and the impact of next generation sequencing on the diagnosis of clinically challenging cardiomyopathies. Section 3 deals with the hypothesis that environmental modifiers may exert a significant impact on phenotype and clinical course, by addressing one of the most prevalent cardiovascularrisk factor in the western world, i.e. obesity, in HCM patients undergoing cardiac magnetic resonance imaging. Section 4 addresses clinical markers of risk and predictors of outcome in patients with HCM (by evaluating the value of NT-‐pro BNP and late gadolinium enhancement as a clinical barometers of disease progression and arrhythmic risk), DCM (assessing the impact of advances in management on outcome), and an acquired model of myocardial disease involving cell-‐ mediated immunity – Chagas cardiomyopathy. Section 5 illustrates novel therapeutic approaches that are being developed for patients with HCM and Anderson-‐Fabry disease, and a critical reappraisal of a well-‐ established – but not perfect– preventive option such as the implantable cardioverter defibrillator. Finally, in my conclusive remarks, I will outline work that is presently ongoing and future directions for research to be pursued in Florence. ABSTRACT italiano La presente tesi riflette svariati aspetti del mio lavoro presso il Centro di Riferimento per le Cardiomiopatie di Firenze e l’ospedale universitario di Careggi, portati avanti nel corso dei tre anni di dottorato. Il tema centrale è rappresentato dallo sforzo di abbracciare la complessità delle cardiomiopatie, attraverso un approccio traslazionale che comprende la clinica, l’imaging, la genetica e le scienze di base. La tesi è suddivisa in 5 sezioni, finalizzate nel loro insieme a ricostruire il percorso seguito durante il dottorato. Ogni sezione è organizzata in capitoli, all’interno dei quali vengono affrontati ed esposti i risultati dei singoli progetti di ricerca seguiti negli ultimi tre anni. La sezione introduttiva è dedicata ad un inquadramento generale delle cardiomiopatie, con un breve excursus dei cambiamenti storici che hanno portato alla creazione della classificazione attuale. Vengono inoltre elucidate le principali alterazioni molecolari principalmente coinvolte nella patogenesi delle cardiomiopatie, e viene proposto il razionale dell’utilizzo delle conoscenze ottenute mediante l’integrazione di dati clinici, molecolari e genetici, nello sviluppo di nuovi target terapeutici. Tale sezione sottolinea inoltre l’importanza di una medicina basata sull’evidenza, anche nel campo delle cardiomiopatie. Infatti, nonostante siano trascorsi oltre 50 anni dalle prime descrizioni in letteratura, dopo lunghi anni dedicati alla loro descrizione e caratterizzazione clinica, genetica e molecolare, le cardiomiopatie restano patologie “orfane” da un punto di vista terapeutico, che resta tutt’oggi guidato da esperienze personali. Dopo 5 decadi di empirismo appassionato, la speranza è che stia iniziando anche per i pazienti con cardiomiopatie genetiche l’era della medicina basata sull’evidenza. La seconda sezione si focalizza sull’analisi delle correlazioni genotipo-fenotipo in due particolari modelli di malattia: la malattia di Anderson-Fabry e la cardiomiopatia ipertrofica associata a mutazioni nel filamento sottile. Nel primo caso viene illustrato uno studio condotto presso il centro di riferimento delle cardiomiopatie di Firenze su un gruppo di pazienti affetti da malattia di Anderson-Fabry, una patologia da accumulo lisosomiale, a trasmissione X-linked. In tale studio la valutazione del flusso coronarico massimale mediante PET viene proposta come indagine diagnostica in grado di identificare i pazienti con coinvolgimento cardiaco precoce. Nei pazienti studiati, il flusso miocardico massimale (dopo infusione di dipiridamolo) risultava significativamente ridotto rispetto ai controlli, in particolare nei pazienti che non avevano altra evidenza di coinvolgimento cardiaco (all’ecocardiografia ed alla risonanza magnetica). Il capitolo sulla cardiomiopatia ipertrofica associata a mutazioni del filamento sottile analizza lo spettro fenotipico e l’outcome di questo particolare sottogruppo di pazienti, numericamente inferiore rispetto a quelli con mutazioni nel filamento spesso, ma con una prognosi diversa. I pazienti con mutazioni del filamento sottile avevano un grado di ipertrofia complessivamente inferiore, ma una disfunzione diastolica più severa ed una probabilità superiore di andare incontro a progressione di malattia (in particolare verso la disfunzione sistolica). La prima sezione si conclude poi con una descrizione della nostra esperienza con le nuove tecniche di indagine genetica, note come “next generation sequencing”. A differenza delle tecniche di sequenziamento genico standard, tale metodica permette l’analisi di ampie porzioni di DNA, fino ad arrivare all’analisi dell’esoma o dell’intero genoma, in tempi rapidi e con costi di gran lunga inferiori rispetto al passato. Le tecniche tradizionali inoltre permettevano di analizzare un numero limitato di geni, che venivano selezionati in base alla diagnosi clinica. Il test genetico non poteva quindi essere applicato in quei casi di espressione fenotipica “atipica” o in cardiomiopatie non classificabili in nessuna delle sottoclassi note. Le tecniche di NGS invece permettono l’analisi genetica di ampi pannelli di geni, che comprendono virtualmente tutti i geni noti associati a cardiomiopatie, aiutando talvolta la definizione diagnostica dei fenotipi non classificabili clinicamente. In questo capitolo vengono descritte 4 famiglie con fenotipi diversi, in cui l’analisi mediante NGS di un pannello definito di geni (oltre 100) oppure dell’intero esoma, ci ha consentito di porre una diagnosi certa. La terza sezione analizza l’impatto dei modificatori ambientali sull’espressione del fenotipo clinico nel campo di cardiomiopatie geneticamente determinate. In particolare viene esposto uno studio multicentrico portato avanti dal nostro centro di Firenze in collaborazione con il centro delle cardiomiopatie di Boston, che ha definito il ruolo dell’obesità nella modulazione dell’espressione clinica e dell’outcome dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Complessivamente i pazienti obesi risultavano avere una massa miocardica maggiore, una prevalenza superiore di ostruzione al tratto di efflusso del ventricolo sinistro, ed un rischio maggiore di progressione clinica verso classi funzionali avanzate (NYHA III/IV) in assenza di ostruzione dinamica o disfunzione sistolica. Pertanto, la prevenzione di fattori di rischio cardiovascolari “comuni”, quali l’obesità, risulta di cruciale importanza anche nel paziente con cardiomiopatie genetiche. La quarta sezione descrive i marcatori clinici di rischio ed i predittori di outcome in pazienti con cardiomiopatia ipertrofica, dilatativa idiopatica e malattia di Chagas. Due sono i marcatori di rischio analizzati per la cariomiopatia ipertrofica: la presenza di fibrosi miocardica identificata mediante risonanza magnetica cardiaca come strumento per la stratificazione del rischio di morte improvvisa, e il valore sierico di NT-proBNP come indice di stabilità clinica. Nel primo caso, viene descritto un progetto ambizioso iniziato circa 5 anni fa, grazie alla collaborazione di 5 centri di riferimento europei ed americani. L’analisi delle RMN di 1300 pazienti con cardiomiopatia ipertrofica ha infatti permesso di comprendere che l’estensione delle aree di “late gadolinium enhancement”, indice di fibrosi miocardica, correla con il rischio di eventi aritmici maggiori e con il rischio di progressione di malattia verso la disfunzione sistolica. L’importanza di tale dato, oltre al numero di pazienti che costituisce la più grande coorte di pazienti sistematicamente analizzata fino ad oggi, risiede nel fatto che il grado di estensione della fibrosi, e non tanto la sua mera presenza, rappresentano un vero marker di rischio. Tale indice può quindi aggiungersi agli altri markers di rischio storicamente noti (come lo spessore miocardico massimo, l’età, la presenza di aritmie ventricolari all’holter, etc) nella valutazione multiparametrica quotidianamente utilizzata in clinica, al fine di stratificare il rischio del paziente e di valutare la necessità ed il rapporto rischio/beneficio nell’impianto di un defibrillatore. Nel secondo paragrafo viene invece esposto il lavoro portato avanti su un gruppo di pazienti nei quali è stato sistematicamente misurato il livello di NT-proBNP, noto biomarker utilizzato in cardiologia per la diagnosi e la stratificazione prognostica dei pazienti con scompenso cardiaco. Nei nostri pazienti, l’utilità del NT-proBNP è risultata essere legata piuttosto al suo valore predittivo negativo: infatti, i pazienti con valori bassi (<310) risultavano quelli con prognosi più favorevole e minor rischio di eventi clinici sfavorevoli, come scompenso cardiaco o necessità di ospedalizzazione. Tali valori pertanto sono indice di una stabilità clinica del paziente, e possono essere utilizzati in tal senso nelle decisioni terapeutiche e nel loro timing. Valori elevati di NT-proBNP al contrario, rappresentano una “bandiera rossa” alquanto aspecifica, che non è abbastanza sensibile da riuscire ad individuare con esattezza i pazienti con rischio elevato di eventi cardiovascolari maggiori. Spostando l’attenzione dalla cardiomiopatia ipertrofica a quella dilatativa idiopatica, vengono successivamente esposti i dati di uno studio “storico” del centro di Firenze, da sempre dedito ad entrambi i tipi di malattie primitive del miocardio. Il lavoro espone una dettagliata descrizione del decorso clinico e dell’outcome di oltre 600 pazienti con diagnosi di cardiomiopatia dilatativa idiopatica (tutti con coronarografia negativa), seguiti per oltre 30 anni dallo stesso team di cardiologi. I quattro periodi di arruolamento in cui sono stati suddivisi i pazienti, riflette l’andamento storico della terapia dello scompenso cardiaco: l’epoca di diuretici e digossina (n.1), l’introduzione degli ACE-inibitori/inibitori del recettore per l’angiotensina (n.2), l’inizio dell’utilizzo dei beta-bloccanti (n.3) e infine l’epoca dei device “salvavita” (n.4). Lo studio evidenza un generale trend di miglioramento nei pazienti arruolati nei periodi 3-4, con una netta riduzione della mortalità per cause cardiovascolari, riduzione degli eventi clinici maggiori, in parallelo al miglioramento della classe funzionale ed alla frazione di eiezione. Mentre l’utilità della terapia anti- scompenso, come indicata dalle linee guida, è stata ampiamente dimostrata nei pazienti con cardiopatia dilatativa post-ischemica, nei grandi trials clinici i pazienti con CMD primitiva sono di solito scarsamente rappresentati. Tali dati pertanto rappresentano la descrizione di una casistica “pura” e reale, a dimostrazione del fatto che i trials clinici possono essere replicati nel mondo reale. La sezione si conclude con la descrizione di due casi clinici di pazienti affetti da malattia di Chagas, malattia infettiva tropicale che può presentare nella sua fase cronica, un interessamento cardiaco con sviluppo di cardiomiopatia ipocinetico-dilatativa ed alto rischio di morte improvvisa. La malattia di Chagas è endemica in Sud-America, rendendola pertanto una patologia di “rara” osservazione nel nostro continente. Tuttavia, il costante aumento dell’immigrazione degli ultimi decenni rende necessaria una conoscenza “internazionale” delle patologie cardiache, che rischiano di non essere poi così rare anche nei paesi cosiddetti “non endemici”. Alla descrizione dei due casi clinici segue una breve analisi della patogenesi, della diagnosi e del trattamento della cardiomiopatia da Chagas. La quinta ed ultima sezione illustra approcci terapeutici, più o meno innovativi, nei pazienti con malattie primitive del miocardio. Nel primo paragrafo viene illustrato il razionale dell’utilizzo di un farmaco, ben noto e utilizzato da alcuni anni nei pazienti con cardiopatia ischemica, nei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Dati preclinici ottenuti presso il laboratorio di fisiologia e farmacologia dell’università di Firenze, hanno dimostrato l’utilità della ranolazina nel modificare il substrato elettrofisiologico dei miocardiociti dei pazienti. Gli esperimenti sono stati condotti direttamente su cellule miocardiche di pazienti con CMI, che venivano sottoposti all’intervento chirurgico di miectomia settale come terapia per l’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro. Sulla base di tali dati altamente promettenti, è stato disegnato uno studio clinico randomizzato e multicentrico, attualmente in corso, per analizzare l’impatto della ranolazina sulla riduzione dei sintomi, della disfunzione diastolica e del burden aritmico dei pazienti con CMI. Il successivo paragrafo illustra l’impatto di una terapia ormai ben affermata, ma non perfetta, per il trattamento del più temibile degli eventi nei pazienti con cardiomioaptia: la morte improvvisa. L’analisi è stata condotta su 250 pazienti con cardiomiopatia ipertrofica, tutti con genotipo positivo, riducendo così il rischio di includere nella casistica delle “fenocopie” ossia pazienti con ipertrofia ventricolare sinistra non dovuta a mutazioni nei geni sarcomerici, che potrebbero confondere la storia naturale e l’outcome. I risultati dello studio illlustrano come l’ICD sia sicuramente un approccio terapeutico utile nel normalizzare la sopravvivenza in un sottogruppo di pazienti ad alto rischio. Tuttavia, in considerazione del suo utilizzo in prevenzione primaria ed in pazienti molto giovani (caratteristiche molto frequenti nei pazienti con CMI), devono essere presi in considerazione e condivisi con i pazienti, anche i possibili rischi legati a tale scelta. Infatti la percentuale di complicanze, come ematoma della tasca, infezione o rottura dei cateteri endovenosi, interventi inappropriati del device, risultavano elevati ed in numero superiore rispetto agli interventi appropriati (e pertanto “salvavita”). La quinta sezione si conclude con la descrizione di un nuovo approccio terapeutico per i pazienti con malattia di Anderson Fabry, rappresentato dalle molecole chaperoniche. In tale patologia, la presenza di una mutazione nel gene che codifica per l’enzima lisosomiale alfa-galattosidasi, determina la produzione di una proteina strutturalmente alterata. Tale proteina viene quindi degradata all’interno della cellula, causando quindi un accumulo dei prodotti di degradazione (glicosfingolipidi). Le molecole chaperoniche sono in grado di legarsi all’enzima “modificato” rendendolo chimicamente stabile e cambiandone la conformazione strutturale mediante legame al suo sito attivo. In tal modo l’enzima non viene degradato dal sistema di “controllo di qualità” presente all’interno delle cellule e viene trasportato all’interno del lisosoma dove può eseguire la sua azione biologica di catabolismo lipidico. Il grande vantaggio rispetto alla terapia enzimatica sostitutiva endovenosa, considerata il gold-standard per tali pazienti, è rappresentato dal fatto che tali molecole possono essere assunte per os e hanno pochissimi effetti collaterali. Sono pertanto in corso alcuni studi volti a provare l’efficacia di tali molecole ed il nostro centro partecipa attivamente ad uno di questi (studio ATTRACT). Infine, nelle conclusioni, viene brevemente esposto il lavoro che attualmente è in corso presso il centro di Firenze, sottolineando la necessità di nuovi approcci terapeutici e la speranza di poter finalmente iniziare, anche nel campo delle cardiomiopatie, un’epoca di medicina basata sull’evidenza.File | Dimensione | Formato | |
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